Soldi IO al numero. L'arretrato soldi 20 L'Associazione è anticipata: annua o semestrale — Franco a domicilio. L'annua, 9 ott. 77 — 25 settem. 78 importa fior. 3 e s. 20 ; La semestrale in proporzione. Fuori idem. Il provento va a beneficio dell'Asilo d'infanzia CRONACA CAPODISTRIANA BIMENSILE, si pubblica ai 9 ed ai 25 i i Per le inserzioni d'interesse privato il prezzo è da pattuirsi. Non si restituiscono i manoscritti. Le lettere non affrancate vengono respinte, e le anonime distrutte. Il sig. Giorgio de Favento è l'amministratore I V integrità di un giornale consiste nell' attenersi, con costanza ed energia, al vero, all' equità, alla moderatezza. VITTORIO EMANUELE II morì il 9 gennaio corrente. L' inattesa, quasi improvvisa, ed immatura sua morte cagionò rammarico in tutti i paesi civili : lo attestarono i più stimati giornali stranieri, che, consecutivamente tradotti, ne accrebbero la commozione. Non ci fu infatti angolo d'Italia, per quanto remoto e quasi dimenticato, in cui il cordoglio non abbia avuto un' eco, dove con fragore ripercossa e dove illanguidita tra le lagrime di una austerità fatale, esplicate dinanzi a modesta ara. VITTORIO EMANUELE, quando soldato ardito e quando politico sagace, condusse l'Italia da Novara a Roma, avventurando di frequente trono e vita. Il giudicio dei posteri, anche se informato al più severo sistema analitico, non potrà non collocarlo in alto seggio e citarlo sovrano modello. LA MORTE DEL RE Corrispondenza della Gazzetta d'Italia, da Eoma, in data del 9: Il Ee Galantuomo il primo soldato della Indipendenza, Colui che di molte provincie fece una Italia rispettata e forte, e che arrischiò più volte vita e corona per la pa tria, ha reso a Dio la grande anima sua! Piangi, vedova Italia! La funesta notizia si è diffusa con la rapidità del lampo per Eoma verso le tre pomeridiane di ieri. S. M. Vittorio Emanuele II è spirato alle ore 2X|Ž pom. Accasciati sotto il peso di una sventura nazionale si grande, con la mbnte confusa, la mano tremante, ci accingiamo a scrivere le notizie e le impressioni, che, come quelle di un terribile sogno, ci si accavalcano confuse nel cervello, e a stento, passano dalla penna alla carta. I Il primo bullettino che i medici pubblicarono ieri mattina alle ore 8 era grave, ma non allarmante. Diceva che al male dell'Augusto Infermo si era aggiunta una prima manifestazione di migliare. Verso le undici le condizioni di S. M. si erano aggravate ancora di più ; ma non erano disperate. S. M. prevedeva la sua fine ed ha conservato sino all'estremo sospiro la più serena coscienza di sè, la più imperturbabile grandezza d' animo. Invano i medici curanti vollero forzarlo al letto. Egli, sino dalle prime ore dal mattino si fece vestire e rimase sempre (meno il tempo della breve agonia in cui fu adagiato sul letto), in una grande poltrona, vicino alla finestra della sua stanza a pian terreno e pro-spinciente sul giardino. — Cosi respiro meglio — diceva ai medici, che lo volevano in letto: e talvolta aggiungeva: — Lasciatemi morire a mio modo. Poco prima di mezzogiorno S. M. il Ee dopo uua visita dei tre medici curanti, chiese del cav. Auzino suo cappellano. Il cav. Anzino confessò e comunicò Sua Maestà. Prese il viatico come un uomo sano, tanto aveva raccolto con supremo sforzo i suoi spiriti e le sue forze da sembrare lo stesso Vittorio Emanuele che sfidava la morte con lo stesso corraggio con cui l'aveva sfidata sui campi di battaglia. Il viatico era accompagnato dal principe Umberto e dalla principessa Margherita. Mentre si compievano queste pie cerimonie, giunse direttamente dal Vaticano al Quirinale il vescovo Marinelli, sacrista dei palazzi Vaticani. Lo aveva inviato S. S. il Papa, che chiedeva premurosamente notizie, a brevi intervalli, della salute del magnanimo infermo. Il vescovo Marinelli fu introdotto immediatamente nella stanza del Ee. S. M. gli strinse cordialmente la mano. Lo incaricò di ringraziare il Pontefice e di dirgli per suo conto; "Addio,, Immediatamente si procedette all'ultima cerimonia della amministrazione dell'olio Santo. A questa cerimonia S. M. volle presenti i Eeali Principi, tutti i ministri, che già si trovavano da molto tempo nelle anticamere, i suoi ufficiali d'ordinanza, la sua casa civile, ecc. Fu una scena oltre ogni dire commovente. Tutti piangevano. Solamente Sua Maestà era calmo e quasi sorridente. — Perchè piangi? — esso disse con chiara voce alla gentile principessa Margherita. Non si sa, figliuola, che si deve morire? Tutti si inginocchiarono reprimendo a stento i singhiozzi. S. M. sostenuto dal generale Medici, si rizzò sulla poltrona, e la cerimonia della somministrazione dell' ultimo sacramento l fu compiuta. Allora S. M. si abbadonò sulla poltrona. Con quell' occhio suo vivido ed espressivo guardò ad uno ad uno tutti colloro che gli erano intorno. Baciò Margherita e Umberto. Strinse la mano ai ministri, al generale Medici, ai dottori curanti e si accommiatò ad uno ad uno dai suoi famigliari con affettuose e commoventi parole. Pareva che il magnanimo Ee, il prode soldato, alla vigilia di un viaggio (ahimè, triste, fatale viaggio!) volgesse ai suoi cari un famigliare, affettuoso saluto. Non piangete — diceva — anche i Ee sono mortali ! Dopo questa scena straziante, S. M. manifestò il desiderio di rimanere solo con i principi Umberto e Margherita. Tutti rispettosamente si ritirarono. Niuno può sapere ciò che Sua Maestà abbia detto agli eredi della Corona. E voce tra i famigliari di Corte, che il Monarca abbia raccomandato con ardentis-sime parole ai suoi figli due cose: la Patria e la Éeligione. Poco dopo che i E.E. Principi erano in segreto colloquio col Ee, il conte Demetrio Fiuocchietti, che, in qualità di cerimoniere, era alla porta, udì bussare. Aprì. S. A. il principe Umberto gli affidò la principessa Margherita, che si scioglieva in dirotto pianto. Immediatamente furono chiamate le dame di compagnia della principessa, L'affettuosa principessa, che era amata immensamente da S. M. Vittorio Emanuele, e che di pari amore lo contraccambiava, cadde svenuta tra le braccia delle sue dame, e fu condotta nei suoi appartamenti. Il principe Umberto rimase ancora per una ventina di minuti in segreto colloquio col suo augusto genitore. Poscia entrarono nuovamente nella stanza di S. M., il presidente del consiglio dei ministri, affranto anch'esso dal dolore, il dottor Bruno, il cameriere particolare di S. M., il comm. Aghemo, il general Medici e varii altri ufficiali d' ordinanza Parve a tutti che il Ee fosse molto più sollevato. Infatti, parlava con maggiore franchezza e faceva altresì prova di sollevarsi in piedi. La speranza, questa dea traditrice e lusinghiera, rientrò nei cuori di tutti. Gli aiutanti si sparsero nell' appartamento comunicando buone notizie. Nella stanza di S. M. non rimasero che il principe Umberto, il dottor Bruno, il comm. Aghemo e il cameriere privato di S. M. (ca-valier Ansaldi). Fu appunto in questo momento che avvenne la crisi suprema. S. M. il Ee cadde spossato sulla poltrona. 11 principe Umberto, il dott. Bruno, il comm. Aghemo e il cameriere, sollevarono a braccia S. M. e lo adagiarono sul letto; non disteso ma quasi seduto, col dosso appo- giato a varii cuscini per rendergli più agevole la respirazione. Dopo cinque o sei minuti di tremenda aspettativa, e in cui il Re non proferì parola, il dottor Bruno, disperato, dichiarò che S. M. aveva ancora pochi minuti di vita. Il cameriere si precipitò fuori della stanza comunicando la ferale notizia "Sua Maestà muore!,, Prima però che altri potessero entrare nella camera, Vittorio Emanuele si sollevò alquanto sul letto-, alzò la testa; porse le mani alla gola come per allargarsi il goletto, poscia ricadde di colpo sui cuscini ed esclamò: "I figli! I figli!...„ e non parlò più. La grande anima di Vittorio Emanuele era partita dal mondo. Si era addormentato come se riposasse da lungo lavoro. Nella camera al momento della morte trovavansi il principe Umberto, il general Medici il conte Mirafiori, alcuni ministri e gli aiutanti di campo Guidotti e Carenzi. Erano le due mezza precise. Nello stesso dì 9 gpnnajo del 1873, a poche ore di difereaza moriva l'imperatore Napoleone III! Fatale coincidenza! Dalla Porta Orientale, strenna pubblicata per la prima volta nel 1857 — editrice la Libreria Schubart a Trieste — dal nostro illustre concittadino Carlo Combi, riproduciamo il Prodromo della Storia dell'Istria da lui scritto; indottivi da varie considerazioni, tra esse quella che sono già decorsi venti anni dalla stampa di un limitato numero di copie; che da parecchio tempo è divenuta rarissima (forse ora prezioso possesso solo di alcuni biblioteche e di pochi diligenti amatori degli studii patrii); e che quindi essa dovrà riuscire lettura nuova, istruttiva, e cara per molti. PRODROMO DELLA STORIA DELL'ISTRIA^ Senza perdersi in vane disquisizioni intorno ai popoli originari dell'Istria, basti notare che i più ammettono essere stati gli E-truschi o i Pelasgi. Altri vorrebbero invece che nell'interno dell'Istria si fossero stabiliti anco i Celti. Meno incerto si è che una tribù grecanica passasse dalla penisola dell'Istria, situata sulla foce dell' Istro, alla nostra provincia fra il Timavo e l'Arsa, trasportandovi il nome del paese nativo, e le tradizioni della nave d'Argo, di Medea, di Giasone. A questi nuovi abitatori si attribuisce la fondazione delle città di Trieste, d'Egida (Capodistria), di Emonia (Cittanova), di Parenzo, di Pola e di Nesazio. Dietro l'occasione dei Grecanici, i popoli primitivi si ritrassero, a quanto sembra, all' interno verso i monti, e i nuovi occupatori, stanziatisi di preferenza in sulle coste, si dedicarono alla navigazione. Quali fossero gli ordinamenti di questi popoli è mal noto. Sorpassando quindi que' tempi, e notando che nell'anno 202 a C. il dominio di Roma toccava già con la Venezia i confini dell'Istria, ci portiamo all'epoca in cui i Romani vengono a contatto con gl'Istriani ed aspirano a renderli essi pure soggetti. Già nell'anno 184 a. C. ottenne il cousole Marcello la permissione di romper guerra agli Istriani. Ma quesato non segui subito che si (*) Si attende ancora una storia dell'Istria, nè a darla noi ci basta l'animo. Ma se moviamo il primo passo ajutati dalle opere del Carli e d'altri eruditi, tra cui specialmente il D.r Kandler, giova sperare che il compatimento non ci verrà meno. (Nota fatta dall'autore nella "Porta Orientale,« per l'anno 7185). pensò prima a fondare la città dì Aquile]» come punto d'appoggio. Gli Istriani, presone sospetto, pongou opera ad impedire il nuovo stabilimento dei Romani, e muovono all'estrema frontiera occidentale della provincia. Presso il Timavo segue battaglia sanguinosa col console Manlio, avanzatovisi da Aquileja. I Romani da prima rotti, vincono poscia, e Livio dà lunga descrizione di questa pugua come di grosso fatto d'arme. (179 a C.) La guerra contro gl'Istriani continua e il console Claudio la compie sotto le mura di Nesazio, ove gl'Istriani col loro re o condottiero Epulo si danno la morte nelle fiamme. Passata così l'Istria in delizione dei Romani fu presidiata da Soci latini, e iu Roma se ne menò trionfo: (178 a. C.) indizio questo che l'Istria qual parte d'Italia veniva stimata di grande importanza. Vi fu anzi il poeta Hostio, il quale ne fe' argomento d'un poema che andò perduto. Cresciuti per tal modo i Romani nel dominio dell'Adriatico, formarono in Ravenna un naviglio a custodirlo. I Giapidi intanto, che stavano a tergo degli Istriani, suscitarono tra questi uua rivolta, e Sempronio Tuditano la represse colla sconfitta degli stessi Giapidi. (128 a. C.). Dal monte Re sino a Fiume si costruì allora un vallo murato a rafforzare viemmeglio la barriera naturale delle Alpi, e Trieste e Pola fiorirono come colonie di diritto latino, sebbene la prima si trovasse posta a sacco dei Giapidi non ancora all'intutto domati. Mentre l'Istria andava ordinandosi alla romana e stringendosi oguor più alla patria italiana al pari della Vfeuezia, e più dell'In-subria, l'Italia civile si estendeva sino al For-mione o Risano presso Capodistria. La nostra provincia per altro unita alla Transpadana, era stata già da Giulio Cesare condecorata della romana cittadinanza. (45 a. C.) Nella guerra civile di Roma parteggiò prima per Pompeo, poi per Antonio. Oud' è che Ottaviano fe' smantellar Pola, e rinnovarne la colonia, chiamata quindi Pietas Jidia. Regnando Augusto l'Istria si arricchì di colonie e alla marina e nell'interno. Così a lato dei nomi di Trieste e Pola figurarono quelli di Egida, di Emonia, di Pirano. Soggiogati poi Giapidi e Liburni, limitrofi degli Istriani a settentrione e ad oriente, la nostra provincia (14 a. C.) venne assieme con la Venezia ascritta alla decima regione d' Italia detta Venetiae et Histriae ed anche solo Venetiae con l'unica distinzione geografica di Venezia superiore ed inferiore. Fin da quel tempo adunque suonò il nome del fiume Arsa qual confine orientale d'Italia, e l'Istria popolatasi di veterani, crebbe sempre più in importanza pel dominio di Roma oltralpe. Sontuosi edilìzi sorgouo in questa e quella città, e Pola entra innanzi alle altre per ogni maniera di grandiosi abbellimenti, tra cui specialmente il famoso Anfiteatro, opera che gareggia con le migliori d'Italia. Da ciò e da molti altri dati che in questi cenni si tralascia di memorare può dedursi che fiorente fosse la condizione della nostra provincia, la quale era di tanta rilevanza anco per le ragioni della navigazione nell'Adriatico, che instituitasi sotto l'imperatore Trajano la fiotta d'Aquileja (105 d. C.) con la stazione a Grado, se ne estese la giurisdizione marittima dalle foci dell'Adige a quelle dell'Arsa, lasciata la custodia dell'Adriatico inferiore al naviglio di Ravenna. Ed havvi argomento a giudicar bene altresì e dell'industria e del commercio. Riguardo a quella basti accennare alla Cissense tintoria di Porpora, e riguardo a questo por mente alla floridezza di Aqiuleja che avvolgeva e la Venezia e l'Istria nel movimento de'suoi traffici, anco verso l'Oriente e l'Africa. Quanto al governo giovi ricordare, che da Ottaviano Augusto fino a Costantino l'Italia tutta non ebbe mai alcun particolare governa- tore. eccettuato il prefetta al Pretorio di Roma. Ne conseguita che ogni città col civico ordinamento repubblicano* da sè medesima si reggesse. Sotto l'impero d'Adriano e più tardi, si trova anche menzione di consolari, di giuridici e di correttori inviati ora nell' una ora nell'altra parte dell'Italia a provvedere, quantunque senza ben precisi e stabili poteri, alle ragioni della pubblica economia, delle costruzioni e della giustizia, salva per questa l'appellazione al prefetto del Pretorio. (328 d. C.) Trasferita la sede imperiale a Costantinopoli, e ripartito l'impero romano in quattro prefetture, suddivise in diocesi e quindi in province, l'Istria seguì le sorti della prefettura edanziprovincia d'Italia, continuando a rimanere unita alla Venezia e costituendo con quella una delle dieciassette nuove regioni italiane. Anche nella divisione di Valentiniano 1' Istria con la Venezia rimaneva all'Italia, nè mai ebbe parte neli'lllirio, che secondo i vari tempi più e meno si allargò al di là dei confini i-taliani. Ma già incominciano le invasioni de' Barbari, e qui è da riferire che i Quadi e i Mar-comanni penetrati in Italia per le Alpi Giulie devastarono parte del Friuli e della Venezia (372 d. C.) e che i Goti ricalcarono la stessa via sotto il loro re Alarico. (400 d. C.). Pure dalla parte orientale d'Italia slanciavasi quell'Attila che menò tante stragi Tutti questi Barbari non vi fermarono stanza; ma il bel paese soggiaceva alle più crudeli sventure. L'Istria secondo gli uni risparmiata e secondo gli altri manomessa ella pure', dalle orde di Attila, sembra per lo meno non avere molto sofferto. Ove infatti si consideri la descrizione che ne dà Cassiodoro srittore e ministro di poco posteriore a que' tempi, chiamandola "bella cosi da tornare ad ornamento d'Italia„ (') non può certo dedursi altra conseguenza. E d'altronde par ben naturale che i Barbari, superata la catena delle Alpi Giulie e calatisi nella valle serrata dalle Alpi stesse, e dalla Vena che ne è una diramazione e forma il confine settentrionale dell'Istria, preferissero di spingersi più oltre da quel lato ove più largo si schiudeva loro l'orizzonte e più j aperto all'avanzarsi vedeano il cammino. ; (Continua) (') Perchè il lettore sia posto in grado e di formarsi un giusto concetto della condizione dell'Istria a qne' tempi, e di giudicare, com'ella pure possa guardare all'avvenire colla fiducia che viene dalla testimonianza del passato, si dà qui tradotta l'epistola XXII del libro XII di Cassiodoro. "Il Senatore Prefetto del Pretorio ai provinciali dell' Istria. "I pubblici dispendi, incerti per la varietà dei tempi, non altrimenti possono equilibrarsi se non col porre le esazioni delle pubbliche imposte in giusta proporzione col reddito dei terreni ; perchè facile toma l'esazione quando copioso è il raccolto, e perchè richiedendosi ciò che la sterilità ha negato, la provincia viene a sofferire, e non si consegue ciò che si aveva in animo di avere. "Persone che visitarono la provincia ci hanno riferito, che l'Istria, già in fama per eccellenza di prodotti, sia stata in quest'anno benedetta da Dio con copia di vino, di olio e di tormento. Vi concediamo quindi di pagare con altrettanti generi siffatti l'imposta fondiaria che in questo primo anno d'indizione vi verrà prescritta; condonando benignamente gli altri tributi alla devota provincia. "Siccome peraltro noi abbisogniamo di questi generi in maggior copia di quella che ci darete in equivalenza dell'imposta dovuta, noi abbiamo spedito altrettanto danaro nella provincia, traendolo dalla nostra cassa, per comperare abbondantemente i vostri prodotti senza alcun vostro disagio. Perchè essendo voi costretti di vender» le derrate a mercadanti forestieri, grave pregiudizio vi deriva quando compratori mancano; e senza mercadanti danaro non ne vedete. Miglior cosa è quindi il secondare la volontà del principe, che il dare le proprie cose agli stranieri; preferibile assai è il pagare debiti con proprie produzioni, che Pavere i fastidj inseparabili dal vendere. Oltreché equa è al tutto la misura che prendiamo, non volendo noi nè recarvi pregiudizio nei prezzi, nè caricarvi delle spese-di nolo. "La vostra provincia, a noi prossima (a Ravenna),. I collocata nelle acque dell'Adriatico, popolata di oliveti, ornata di fertili campi, coronata di viti, ha tre sor» genti copiosissime d'invidiabile fecondità, per cui non a torto dicesi di lei che sia la campagna felice di Ravenna, la dispensa del palazzo reale; delizioso e voluttuoso soggiorno per la mirabile temperatura che gode dilungandosi verso settentrione. Ned è esageratone il dire che a' seni paragonabili a quelli celebrati di Baja, nei quali il mare ondoso, internandosi nelle cavità del terreno, si fa placido a somiglianza di bellissimi stagni, in cui frequentissime sono le conchiglie e morbidi i pesci. Ed a differenza di Baja, non tro-vansi un solo averno. un solo luogo orrido e pestilenziale; ma all'invece frequenti peschiere marine, nelle quali le ostriche moltiplicano spontanee anche senza che l'uomo dia opera alcuna; tali sono queste delizie che non sembrano promosse con istudio, ed invitano a goderle. Frequenti palazzi che da lontano fanno mostra di sè, sembrano perle disposte sul capo a bella donna; e sono prova in quanta estimazione avessero i nostri maggiori questa provincia, che di tanti edifizj la ornarono. Alla spiaggia poi corre paralella una serie d'isolette bellissime e di grande utilità, perchè riparano i navigli dalle burrasche, ed arricchiscono i coltivatori coll'abboudanza di prodotti. Questa provincia mantiene i presidj di confine, è ornamento al -l'Italia, delizia ai ricchi, fortuna ai mediocri; quanto essa produce passa alla città reale di Ravenna., Valeat quantum valere potest Altra volta trattammo 1' argomento dell'ingiusta concorrenza che viene fatta al lavoro dei nostri operai col ricevere che fa l'i. r. Carcere commissioni private. Accenammo alle ripetute pratiche fatte dal nostro Municipio presso le competenti autorità, affinchè cessi tale deplorevole condizione di cose, e sperammo nel rimedio, ma il rimedio non venne. Se ritorniamo sulla questione, si è perchè vi siamo indotti dai vivissimi lagni che si sentono iu paese, non solo da parte degli o-peraj interessati, ma altresì da ognuno ch'abbia a cuore il benessere di questa numerosa classe di cittadini ingiustamente colpita; dal riflesso del continuo aumentarsi del lavoro dei carcerati; e dalle speciali conseguenze d' una annata miserissima. Ed infatti fa assai cattivo senso il vedere, in momenti come gli attuali per tutti difficili e più aucora per l'operajo che vive della giornata, lavorare pubblicamente fuori del recinto della casa i carcerati, e scorgere d' altra parte partigiano padre di famiglia oziare privo di lavoro e nelle dure strette della miseria. Pare impossibile che lo stesso governo, il quale è sempre intento a sussidiare il bisognoso, e più particolarmente nelle scarse annate, e provvede a soccorerlo, non pensi poi di togliere, almeno in via di eccezione tempo-raria, uno stato di cose che tanto ingiustamente pesa sull'onesto lavoratore della piccola città. Le risorse dei lavori locali si contano sulle dita; noi abbiamo di più la concorrenza vicina d'una potente città, che se toglie l'esercizio di dati lavori al nostro operajo, ci compensa peraltro a larga mano col consumare i prodotti della nostra industria agricola; ma che a ciò si aggiunga la concorrenza dei lavori fatti per mano d'operaj carcerati che si pagano con mercede giornaliera dai 12 ai 30 soldi, ognuno può di leggeri compredere quale debba essere la condizione in cui viene posto il nostro artigiano. E non solo questi si trova a disagio, ma anche l'assuntore d'imprese di maggior mole, il quale voglia far lavorare i suoi concittadini, si trova nella dura contingenza, di fronte ad altri che sprezzando ogni considerazione d' e-quità si serve dell'opera dei carcerati, o di sacrificare i propri interessi, o di dovere, contro voglia servirsi dell'uguale mezzo di lavoro. Le ampie teorie del buon mercato dell'opera che facilita il buon mercato della produzione, se possono trovare applicazione nelle grandi e potenti iudustrie esercitate in centri di grandissima operosità, non saranno certamente applicabili in un circolo di lavoro ristretto. dove per il concatenamento dei rispettivi interessi si rende molte volte indispensabile l'eccezione. Prescindendo poi anche da questa considerazione teorica e appena accennata, noi sosteniamo che il lavoro fatto nell' i. r. carcere, per la sua stessa eccezionalità d'esercizio, danneggi non solo gli operai e gli imprenditori, ma e-ziandio l'intiera città che secondo taluni si ritiene invece beneficata. Il danno è patente per 10 squilibrio nella circolazione del prezzo dell'opera. L'i. r. carcere, fornita ne suoi bisogni da imprenditori forestieri, che naturalmente, come tali speculano su tutto, fin anche sul mezzo dei trasporti, assorbe gl'importi che le fioccano per commissioni private, riversandoli quasi intieramente ed immediatamente nelle saccoccie degl' imprenditori forestieri, a totale danno di quella circolazione cittadina, che costituirebbe uu generale benessere. E abbiamo detto quasi intieramente, perchè nei lavori iu generale il valore del materiale impiegato costituisce 1' importo massimo, e più particolarmente in quelli che si fanno nella casa di pena, dove 11 carcerato operaio si paga con 12 soldi al giorno. E meno male ancora se questo meschino risiduo circolas e a benefizio della città; ma così non è (e dal momento cbe si tollera un tale esercizio è ragionevole che così sia) perchè ogni operaio carcerato cbe lavorava, ha il suo fondo di economia, col quale può in date circostanze soddisfare a qualche suo desiderio, sempre tra le mura della carcere presso il rispettivo foritore, e la rimaueuza porta seco quando ha compiuta la condanna. Tutti gì' importi quindi versati alla carcere, trovano colà, rispettivamente alla città nostra, la loro tomba. Chi ha un elementare senso pratico d' economia, giudichi il vantaggio di tale im mediata sparizione. Si risponde che l'i. r. carcere mantiene un corpo d'impiegati con bel numero di guardiani, i quali (hanno le loro famiglie; tutta gente che abita in città, mangia, beve, e veste panni. Bisogna contare però che le guardie, che sono il maggior numero, ricevono già dalla carcere la montura, il pane, e qualche cosa altro ancora, ed hanno uno stipendio meschi-nello; e daltronde poi non è già che si tengano, gl'i. r. impiegati superiori e le guardie per la ragione che nell' i. r. carcere si lavora per conto dei privati, ma perchè i regolamenti carcerario richiedono, lavori o no l'individuo conda-nato. Adunque quelle briciole d'utile al paese resterebbero ugualmente. Non è possibile pretendere dei speciali vantaggi senza un qualche scapito: ma qui la bilancia trabocca, ed il suo squilibrio potrebbe forse ragionevolmente portare anche delle serie conseguenze economico-morali. Ci pensino pertanto le preposte Autorità, e riflettano che se può essere utile il far lavorare il carcerato, fa peraltro cattivissima impressione veder messa in un piccolo paese, come il nostro, e più particolarmente durante un anno miserabile, in diretta concorrenza l'opera d'un malfattore carcerato, con quella d'un onesto artigiano padre di famiglia. Gli umanitario e morale che stanno a favore del* malfattore. E sebbene la ripetizione, forse inutile, del lagno ci abbia indotti a porre in testa a questo nostro articolo un titolo alquanto trasandato, ripetiamo francamente che per la nostra città la questione è assai più importante di quello che sembri in apparenza, e reclami perciò la più seria attezione delle preposte Autorità, alle quali dopo quanto s'è fatto e detto io argomento, incombe il dovere, del provvedimelo. C-l stessi lagni che ripetutamente s'odono a carico della condotta di qualche operajo nel particolare disimpegno de' suoi lavori, non hanno basata ragione. La scarsezza di lavoro, la considerazione sulla causa efficiente di tale scarsezza, è naturale cbe possa provocare quello stato d'irritabilità, che aggiunto al fantasma del bisogno, consigli o costringa il povero operajo a chiedere troppo nella rara occasione di lavoro, e lo guidi forse sulla china del vizio, od alle peggiori conseguenze d'uno stato di disperazione. 11 biasimo poi che il popolo dà a coloro i quali approfittano dell'opera dei carcerati, è parimenti ingiusto, quando si rifletta alla molla potente dell'interesse personale, che può obbligare talvolta qualche possidente, per imperiosi bisogni di ecomia domestica, di ricorrere all'eccezionale buon mercato dell'i, r. carcere: vantaggio questo piccolo, limitato, e che assolutamente non stà in proporzione, come fu detto, coli'immenso danno che ne risente la numerosa classe operaja. Speriamo di non andare errati, invocando al riparo di tanta ingiustizia, ed alla protezione della classse laboriosa ed onesta, quelle stesse leggi informate ad uno spirito tanto Nota. (F.i i N.i 21 dell'anno I; 1 e 2 del II). Il Municipio fece in proposito una rimostranza nel 1858 con buon esito ; ma dal 1860 in poi a grado a grado si permise che la Carcere ricevesse commissioni private. Nel 1861 e 1867 il Municipio rinnovò lalRimostranza, peraltro senza effetto. Istanze di operai vi furono presentate a protocollo nel 1862 ed in iscritto nel 1870 e 1874; ad ogni volta il Municipio, dopo maturo esame, ripetè la Rimostranza e sempre indamo. Gita a Due Castelli (Fine V. il numero prec.) E la storia? Le son poche ma dolorose pagine; brevi racconti di terribili sciagure che fanno piangere lungamente e lungamente meditare. Due Castelli, detto anche Doccastelli, comparisce la prima volta nella storia nel X secolo, in un diploma dell'imperatore Ottone II, che è uu atto di donazione di questo luogo alla chiesa di Parenzo. In altro diploma del 1211, tale donazione viene confermata da Vol-chero, patriarca di Aquileja. Doccastelli ebbe due volte a soffrire devastazione e rovina: la prima nel secolo decimoquarto, nella sanguinosa guerra fra Genovesi, Veneziani e il patriarca di Aquileja; la seconda nei primi anni del secolo decimosettimo per le incursioni degli Uscocchi. Queste vicende dell'infelice città ci vengono narrate da Filippo Tommasini vescovo di Cittanova, che scrisse intorno il 1650 ne' suoi Commentarli storici e geografici dell'Istria. Ecco quanto egli racconta. "Lontani miglia cinque da S. Vincenti vi sono Due Castelli, quali prendono il nome dall'essere stati già fabbricati sopra due colli che siedono dall'una e dall'altra parte della valle, per cui si va al porto di Leme. Quello verso ponente, chiamato la fortezza Parentina è tutto distrutto, e si vedono antichissime muraglie. Rimane solo abitato quel da levante che tiene il nome di Due Castelli il quale per il sito forte e per la comodità del porto vicino di Leme fu sicuro ricetto avanti che li Genovesi rovinassero la provincia, ed ora pieno di abitatori come si congettura dalle vestigio di tante case rovinate, che vestivano non solo il colle ma parte della costiera contigua e tutta la valle che si frappone fra l'uno e l'altro castello, onde li Genovesi rotta l'armata veneta a Pola *) passarono nel canal di Leme discosto cinque miglia ed all'improvviso presero questi due Castelli, e li rovinarono abbruciandoli, e sino al giorno d'oggi si vedono li segni dello incendio. Fu dagli stessi portato via il corpo di San Vittore e Santa Corona Martiri che si ritrovano nel castello di San Lorenzo, il cui popolo era uscito con li Genovesi. Crebbe ancora dopo il luogo e furono ristaurate le case in modo che si annoveravano da duecento fuochi, ma da cento anni in quà per varii casi o forse per l'aria cattiva è andato mancando, che al presente non vi è più alcuno naturale del luogo e solo è abitato da tre poveri contadini. E in esso la chiesa di Santa Sofia antichissima e grande di tre navi e sovra la volta della nave di mezzo vi si vedono pitture antiche e cose longobarde, quali rappresentano la città di Gerusalemme combattuta, e vi si vede un'armata di mare con forme stravaganti di galere. Vi sono altre pitture del testamento vecchio con la vita e passione di Cristo, dipinte all' uso greco. Neil'aitar maggiore la beatissima Ver- *) I Veneziani vennero battuti a Pola (nel canale dei Brioni) dai Genovesi nel 1379; i primi capitanati da Vittor Pisani. gine con figure di basso rilievo antiche, l'altro di S. Sofia con figure di tutto rilievo segno di graudo antichità ed è mirabile che questa chiesa vien conservata bene, caduto il resto del castello sino al palazzo del rettore. Vi è però la casa del fontico e del capitolo. Vi è un pievano e quattro canonici, ed è dei più antichi della diocesi, scodono di ogni cento otto che tra loro si dividono con la sua prebenda al vesc-vo. Ha diverse chiese dentro e fuori, tra le quali vi è la Madonna del Lacuzzo posta nel fondo della valle fatta di pietre qnadrate bat-tutte che tiene immagini della B. V. di rilievo. Alla sommità della valle verso mezzogiorno è situata la chiesa di Santa Petronilla antichissima e grande di tre navi di molta divozione, Quivi si vede un monastero antico distrutto con una cisterna grande e bella la qual chiesa e monastero si ha per tradizione essere stato fabbricato da S. Romualdo, ora l'entrate di questo sono applicate alla mensa episcopale di Parenzo. Lungi un miglio dal castello dalla parte di mezzogiorno è la villa di Canfanar, dove si sono ritirati gli abitatori restati che con le persone forestiere può far fuochi cinquanta ed anime 250. Qui abita il pievano e canonici e rettore, che è un gentiluomo da Capodistria, mandato da quel magistrato a questo governo. Questa villa fu rovinata nell'ultima guerra degli U-scocchi, 1616. E bellissimo sito e gode buonissima aria ed ha bella campagna,,..... Il Kandler, cui l'amore di patria suggerì indagini e studii dottissimi sull'Istria, ci dà nello scritto Fogli stracciati da libro Memorie di un viaggiatore (nell' "Istria,, anno IV 1849) le segnenti notizie intorno a Due Castelli: ......"Il timore che la pioggia ricominciasse, m'impedì di rivedere davvicino la chiesa di S. Petronilla, altra volta di insigne abbazia, eh' era piamente e con felice divisamento, or che è abbandonata e scoperta, convertita in cimitero. Canfanar che in celtico esprime precisamente il Comune, nel modo stesso che molte popolazioni slave usano Opchiena, mi fa sperare di rinvenirvi l'antico vaso da battistero, del quale giunse notizia al celebre Carli e forse fu veduto da lui trasportatovi dalla chiesa di S. Sofia di Due Castelli ; al Carli fu detto che vi si leggeva la nota cronica DCCXLIX, secondo altra testimonianza vi stava quella di 1249, ma non ne fu nulla; la vasca non è nella chiesa, nè potei saperne. Invece vidi un ambone esagono, di rozzo lavoro, sorretto da sei colonne, ora pulpito nella porrocchiale. La mancanza di questa vasca, che fu detto fosse di marmo è di conseguenza perchè da essa sarebbesi fatta induzione alla fondazione delle chiese battesimali, le quali sembrano avere avute due epoche culminanti, il nono ed il decimoterzo secolo. L'ambone è di questo secondo tempo, e di memorabile mostra lo stemma di ognuno dei due Castelli, stemmi affatto eguali e che rappresentano mura merlate, due torrette alle estremità ed una torre nel mezzo che si estolle di molto dando al tutto una forma piramidale......Mi venne detto che o la località Dei due Castelli o quelle ivi prossime si dicessero il vecchio Canfanar ; io credo che uno dei dne Castelli avesse nome Castel Parentiuo, ed è que-lo dal lato di Parenzo ; che l'altro avesse nome di Moncastello, ambedue baronie che furono dei vescovi di Parenzo, passate poi in mano d'altri, per ultimo del comune di Capodistria che vi mandava podestà ('il ehe avvenne anche nel 1814),,. Questa lezioncella di storia patria me la diede l'archeologo, sfogliandomi dinanzi agli occhi certi vecchi libri che aveva portato seco. Mi narrò innoltre come fortunatamente venne ricuperato il prezioso Statuto di due Castelli del Secolo XIV, che è un codice latino in pergamena, e fini il suo dire con queste parole: — Ricorda la gente di questi luoghi come in sul finire del secolo decimosettimo le due ultime famiglie che abitavano ancora Due Castelli fossero state indotte dalla desolazione del paese e dall'aria insalubre a cercare meno avara fortuna, aure più miti, lungi dal natio paese nel consorzio degli uomini. Molte altre cose ci sarebbero ancora a dire su Due Castelli ma qui non intendo fare e se ne avessi l'intenzione non ne sarei al caso, dell'erudizione storica. Sono queste, come o-gnun vede, povere note di viaggio e nuli'altro. Il tramonto ci avverte essere ormai ora di partire; ma il pittore non arriva. Dallo spianato di una torre lo vediamo sempre al suo posto presso la rupe piramidale, seduto e tutto intento a disegnare. Non è più solo: due contadini in piedi osservano attentamente il suo lavoro. Finalmente, quando a Dio piacque si alzò e veune a noi. Mi narrò subito parte della conversazione avuta coi due villici. — Cossa vegnì a far qua vualtri ? prese a dire uno dei due. — A vedere il paese, r— Ah! una volta in antico el j^ra un paese buio ! La zente voi cho ghe sia sepelidi dei tesori. — E voi altri avete mai cercato qui il tesoro? — Siorsì (risponde l'altro contadino); ma no gaveino trova una maladeta... ne manca le carte. — (E il primo) Per chi fe quella stampiglia (sic)? — Per mio divertimento. — Se fa presto note, e donca ve sa-ludemo. Bonassera sior. — Buona sera galantuomini. In sull'imbrunire abbandoniamo Due Castelli, silenziosi come il paese che ne circonda. Ad una svolta della via che ci guida a Can-fanaro, sostiamo un istante per dnre un ultimo mestissimo sguardo alla derelitta città, un addio a quella terra ove ora ha indisputato impero il silenzio. Si erano stese le prime ombre della notte tepida e serena. La luna rischiarava col suo pallido raggio con un senso profondo di pace quella povera cittadetta rovinata, que' deserti colli, quella valle, ove pure un tempo alternaronsi glorie e sventure, gioie e dolori. Ritornando colla fantasia ai tempi andati vedevo su quelle mura sventolare una superba bandiera, luccicar elmi e corazze, sentivo il calpestio de' cavalli, lo schiamazzo della vittoria e le grida dei vinti; tutto insomma l'agitarsi della poetica vita medioevale. Poi silenzio; ma nel silenzio odo una voce sonante, ed al mio orecchio giungono perole e concetti affettuosi; ed ecco ritta levarsi e sovrastare alle mura dirute la figura di un uomo, dal volto grave e sereno, rasa la barba, coi bianchi e lunghi capelli sulle spalle, avvolto in ampia toga. E Pietro Kandler. Non è solo: l'accompagna un'altra figura esile e melanconica . ... ah! ti ravviso, tu sei Michele Fachinetti; ben li ricordo i versi del tuo poemetto, in cui Frate Felice esclama: .......0 Doccastelli Diletta patria mia, se' rasa al piano ! Pia che la storia un dì di te favelli Per maledir gli U scocchi ; e il passeggiero Avrà per te una lagrima e un pensiero. Svoltammo la via e sparve Doccastelli; ma nell'accesa fantasia del vostro viaggiatore, o annojati lettori, continuarono ad agitarsi lungamente immagini e pensieri che la sua penna arruginita si rifiuta di riprodurre. L' addio a quella desolata regione lo commosse, e dopo aver pensato ai secoli volati pensò ai venturi. Tutto ha fine quaggiù. L'opera del tempo e degli eventi che pesò inesorabile su Docastelli, ne fa testimonianza. I posteri, desiderosi di visitare quei luoghi cari alla nostra storia, troveranno compiuta l'opera del tempo, scomparse fin le vestigia dell'antica città. La notte tepida e serena dava a quella valle, a quei monti, silenzio e pace. Bovigno, novembre 1877. G. P. D. F. Lunga malattia, sofferta con ammirabile serenità, trasse di vita il giorno 13 corrente la signora ORSO LA veri, de FAVESTO, madre del cortese amministratore; donna «-gregia, per la quale la beneficenza era ricercato segreto godimento. A lei ci legavano memorie carissime, che mai potremo dimenticare. I suoi figli, compagni nostri di adolescenza, ed ora amici diletti, trovino almeno un pò di conforto nel generale compianto che die-trola bara ebbe commovente manifestazione, e che durerà perenne in molti cuori. Beneficenza — Nella pubblica seduta del 22 corr. l'Illustrissimo sig. Podestà diede lettura della seguente lettera a lui pervenuta colla posta e contenente quattrocento fiorini. Illustrissimo signore, Voglia compiacersi di far pervenire all' onorevole Direzione del Civico Ospitale l'acchiuso importo di fiorini 400, diconsi fiorini quattrocento, a coudizione che con tale somma sia costituito un capitale perpetuo intangibile, ammiuistrato separatamente, e che dovrà portare il titolo: Capitale nove gennaio mille ottocento settantotto-Capodistria, i di cui frutti saranno destinati a benefizio del pio luogo assieme alle altre rendite. Capodistria 16 gennaio 1878 Molti concittadini All'Illustrissimo signore il sig. Pietro D.r de Madonizza Podestà in Capodistria Medico Comunale. Il Consiglio della Città, nella pubblica seduta del 22 corr., nominò medico comunale il nostro egregio concittadino D.r Pio Gravisi. (Concorso 13 die. p. p. N." 2808). Scritti sediziosi e cubitali apparvero qui il mattino del 20 corr. in diversi punti della città, ed anche sui marmi laterali della porta maggiore dWla Cattedrale ; ma vennero fatti sollecitamente cancella; e e ^carpellare per cura dell'Autorità Carità pel capo d'anno. Il sig. Carlo Dragovina di Trieste spedì al nostro Municipio fior. 50 (cinquanta) affinchè vengano distribuiti fra i poveri della città. Sequestro — La Provincia del 16 corr. fu sequestrata dall'i, r. Autorità di pubblica Sicurezza perchè fasciata a lutto—La mattina susseguente, non pochi cittadini, reduci dalla messa celebrata nella chiesa dei Cappuccini si recarouo sotto la casa dell'onorevole redattore, e lo salutarono con replicati evviva. Trapassati nel mese di Dicembre 1877 3 D. B. (carcerato) d'anni 26 da Valle (Istria). — 4 Filippo Perini fu Lorenzo d'anni 80. — O Maria Depangher di Andrea d'anni 26. — 7 A. M. (carcerato) d'anni 43 da Canfanaro (Istria). — 12 Antonia Da Ponte moglie di Vincenzo nata Sobas d' d'anni 62 da Portole. — 13 F. Z. (carcerato) d'anni 32 da Gemica (Dalmazia). — 17 P. D. (carcerato) d'anni 50 da Prolozai (Dalmazia). — 18 Antonia Machnich Ved.a Giuseppe d'anni 70 da villa De Cani. — 20 Enrico Corte di Lodovico d'anni 36. — 24 Bosa Ruggieri Ved.a Bernardo d'anni 62. — 30 A-dele De Rin, nata Santini d'anni 49 da Venezia; P. P. (carcerato) d'anni 28 da Ragusa (Dalmazia). — 31 G. P. (carcerato) d'anni 22 da Rosariolo (Istria). Più quindici fanciulli al di sotto di sette anni. Corriere dell' Amministrazione (dal 6 a tutto il 22 corr.) Rovigno. Dr. Luigi Barsan (IV anno) — Trieste. Carlo Dragovina. (idem).