Narod- univerzitetna knjižnica v Ljubljani 33(570 P lì L LO STESSO AUTORE. UNA VITTIMA, novel'la ; SFUMA TURE, racconti ; A SUON TI CAMPANE, racconto; I NOSTRI NONNI, pagine della vita triestina (quarta edizione). 3 4 y - J* ?- Trieste, Stah. Art. Tip. G. Capti». Giuseppe Caprin Marine Istriane isti in t paese al golfo adriaco in fonilo Che i suoi brtvt COhfin di'II' a [fra terra ('/' ritrae la figura, li al mar profondo Ella pur da ire lati si disserra. Trinerà di scogli le si aggira in tondo A' in promontorio si assottiglia e serra Di /'o/a arrosto, i>7'e a meriggio guarda A' frange del Qnarnar l'onda gag/iarda. (F. de Cornili, inedito. ) TRIESTE STABILIMENTO ART. TU'. <: CAPRIN, ED1T, 1389. Quest' opera per quanto riguarda i diritti d' Autore, e posta sotto la sairagaaidia della /'ate/ite Sovrana del li) ottobre iSòj. N. q<)2 dell' /inpero .lustro- ( 'ngarit o e delle Leggi 25 giugno jS6j e 10 agosto iSf5 del Regno d'Italia. 133670 Ji/ 9JO\'/lift .Al chi leggera questo libro convien dire la ragione che mi slinn ilo a farlo. Alcune vecchie e recenti publicazioni, trattando dell' Istria, dimostrarono che gli autori si valsero della prima stampa capitata loro fra mani, o che visitando i luoghi riportarono una impressione raccolta forse dalle risposte del locandiere e ignorando quanto si è svolto nel campo storico, [Militilo v soeiale, formarono i lord giudizi, travisando i latti. Questo Volume, frutto di frequenti escursioni e pazienti lettini', se riflette troppo il sentimento che mi lega al mio paese, non s'allontana però dal vero: dai ricordi antichi, dai documenti architettonici, dai quadri della vita presente, vuole riunita nella storia, nell'arte e nel carattere nazionale, la patria. l'ertale rispetto oserei sperare che non sia al tutto indegno di venire ultimo in quella preziosa letteratura paesana che in precede, ed avanzandolo in merito, si fregia dì nomi illustri e carissimi. Ter le riproduzioni ilei tipi, dei monumenti, dei motivi pittoreschi, «Ielle vedute, mi sono giovato della macchina fotografica, che non ammette il sospetto di benevoli altera/ioni. Desidero che le città marinari' istriane piacciano mollo pia del mio libro, il quale non le presenta con tutta la vaghezza della loro poesia uè sotto il lume intero della loro bella realtà. Trieste, 6 G'/'Mgno 'Sq. C. CAI'KIN Marine Istriane IN SAN MICHELE DI MURANO Lagune — // comizio ili Eraclea — // patriarca Cristoforo da Pola e il primo doge — Fra Paolo Stirpi c Santorio Santoro — Artisti istriani — La peste del 1570 e le barche d'Istria — Festa per la vittoria dei Dardanelli — Nostre marine. in una gondola che doveva sbarcarmi a S, Michele di Murano. Quella parte di Venezia, che con gli edilìzi ciechi dell'arsenale va, allungandosi, sino alle Sui/iar, giaceva in ombra, e si disegnava sul cielo ardente con le gabbie a giorno dello altane e con le torrette dei camini ; i campanili a freccia 0 piatti si profilavano alti, grigi, sull'aria tutta nebbie di porpora e fumi d'oro. La chiesa di S. Michele, nell'isola del cimitero, biancheggiava con la cupola che la incorona, mentre si rizzava al suo fianco un fascio denso e nero ili cipressi: palme della pace, cresciute sugli altari dei morti. I bragozzi, con le vele dipinte ili rosso bruciato e zafferano, che l'acqua rifletteva nel suo cristallo fiammeggiante, dispersi per la tortuosa linea dei pali, lungo il canale che va a Mazzorbo, a Burano, a S. Francesco del deserto, sembravano fermi. C'era la quiete e la immobilità tli un quadro. L'alga marcita e galleggiante esalava l'acre odore del fieno salmastro. IO MARINE [STRIANE Guardavo tutta quella valle ili acquo, clic formava, ai tempi del ducato vendico, l'estuario altinate, e mi risovvenni che quando le genti di Aquileia, Concordia ed Aitino, e (piante vivevano lungo il lembo delle lagune, fuggirono spaventate dalla calata dei barbari, si costituì una specie di consociazione di profughi, sotto il comando dei tribuni marittimi, su quelle isole e su (incile lingue di lidi, formate dai fiumi, dall'ultima foce del Po all'Isonzo. La cronaca di Aitino racconta: «che, durante la invasione longobarda, gli uccelletti, tenendo i loro nati nel becco, precedevano come per miracolo quegli uomini che si sbandavano chiedendo alcuni asilo a Ravenna, altri all'Istria, ed altri ancora alla romana Pen-tapoli ». Eraclea riboccava dei poveri esuli: era la capitale dei quattro estuari di Grado, Caorle, Aitino e Comacchio; sorgeva nel territorio di Oderzo, in mezzo agli stagni del Tiave e della Livenza. l'or metter fine ai disordini che dal sesto secolo in poi commovevàno le popolazioni disperse sulla maremma lagunare, si raccolse in quella citta, nel Chj6, un comizio generale, in cui convennero i nobili, il clero, i cittadini ed il popolo (.Ielle Venezie, che a certi lor capi commiscro di proporre la riforma del governo, onde, 1' anno seguente, il polese Cristoforo, allora patriarca di Grado, in una faconda orazione allegata dal Laugier, ') suggerì la nomina di un doge, indicando al suffragio Pauluccio Anafesto, che venne investito dei supremi poteri, alzato sugli omeri e mostrato alla moltitudine. Kbbe così origine la dignità ducale per saggio suggerimento e per la efficace eloquenza di un nostro antenato. * * Entrai nella loggia ad archi che riquadra il cortile del convento, tutto gramignoso, con l'erba cresciuta in ogni 'j /storia VtHitn, 'l'omo I, [>ag. 14. Venezia, 177S, IN SAN Mit lili K I "I MIK \N<) | ( fessura, e pensai che visse nella solitudine ili quell'isolotto S. Romualdo, e più tardi fra Mauro camaldolese, profondo conoscitore di matematiche e grande cosmografo: autore del celebre mappamondo conservato alla Marciana: tutti e due, a lor volta, ricoverati fra i solitari dell'abbazia di Leme, presso Parenzo. ') 1 monaci di questo chiostro serbavano ima topografìa dei loro possedimenti disegnata intorno al 1460 da fra Mauro. Mentre i monasteri erano gli asili della scienza, della dottrina e dell'arte, conservatori del sapere e dei documenti della storia, i padri di S. Michele di Murano traevano agli eremi istriani, su quella terra dove alle rovine del tempio romano si addentellavano la cattedrale latina e il palazzo del Comune dai merli ghibellini: palladio della civiltà politica, base incrollabile delle costumanze municipali italiane. Varcando la soglia della chiesa mi venne come un soffio di memorie sul viso. Entravano dai finestroni lombardi gli ultimi fasci ili calda luce, facendo guizzar l'oro degli altari. Risaltavano con forte chiaroscuro tutte le ghirlande del tramezzo che abbraccia le tre navi; le vòlte giravano aggraziate sugli eleganti capitelli; i pilastri spiccavano tutti rabescati di fiori. Mi trovai fermo, inchiodato nel vestibolo davanti al suggello che serra la venerata pobere di Ira Paolo Sarpi. Risuscitava davanti a me il grave e animoso teologo del Senato e consultore della Republica, che aveva spuntate le armi del violento Paolo V. Tornava alla mente quella sera, che, riducendosi al convento, venne assalito dai sicari, e sfuggito alla morti-, strappandosi il pugnale che gli aveva perforato la mascella, lo appese sotto il Crocifisso, offrendolo in voto a Dio. ') Tomaso Luciani. Diziotniiio co>v;,;r,iJìit> all'articolo /\iir/no. I2 MARINE ISTRIANE Quando fra Paolo cadde ferito, il patrizio Alessandro Malipiero gli prestò i primi soccorsi. lTn testimonio, il cui deposto trovasi negli atti dei Processi criminali del Consiglio dei Dicci, narra: «Si montò in barca et lo accompagnai a casa, cioè al suo monasterio, insieme col medico clic è il Santorio et il barbiere che lo ha medicato.» Santorio Santoro eia il celebre medico capodistriano.*) Si attaccava l'illustre nome del Sarpi alle mie prime letture giovanili: avevo appreso nella Storia degli Useoeelii del vescovo Minucci, continuata da fra Paolo, la serie delle inaudite rapine e degli atroci delitti consumati sulle nostre terre da quei sanguinari che avevano decapitato Lucrezio Gravisi dì Capodistria, e dopo ucciso, a Segna, il capitano della galea, Cristoforo Venier, prepararono il desinare, ponendo sulla mensa il capo reciso dell'infelice. * * L'altro ricordo che mi risvegliava la chiesa di S. Michele di Murano si legava col rinascimento dell' arte : tutta in pietra d" Istria, venne alzata nel 1466 su disegni di Moro Lombardo, uno della celebre famiglia che lascio fabrichc cospicue a Venezia, restituendo ai monumenti il classicismo nazionale. Se la Republica, al dire del Cicognara, offrì lo spettacolo non mai più veduto di erigere una città sul limo; se Venezia, intorno al Mille, precedette il movimento delle arti nell'Italia dilaniata, essa però fu una delle ultime a riscuotersi, allorché Firenze iniziò il risorgimento c con la folla de' suoi artisti provocò la grande evoluzione del genio italico. Continuava Venezia le tradizioni medioevali, sotto l'influsso ') Busta I. Processi criminali del Consiglio dei y fieri, 5 ottobre 1607. G. Musatti. Storia di un lembo dì terra, ossia Venezia •■ i Veneziani, Padova, tip. del Seminario, 1886, IN SAN MK'IIKLK IH MURANO tj dei paesi d'Oriente, preoccupata dagl'interessi di gloria, di conquista e di commerci. Con Tomaso Mocenigo giunse all'apogeo della fortuna e toccò il punto culminante della sua storia. Vantava i trionfi delle armi di terra e di mare, i vasti possessi nel Mediterraneo, la contrastata signoria dell'Adriatico, c non la turbavano quelle guerre abbominatc con Genova, che disonorando i vessilli di due sorelle, resero famosi tanti capitani, E questo il momento in cui la dicono giunta al massimo splendore; le scienze e le lettere vi si erano date convegno c la stampa le democratizzava. Squarcione, i fratelli Bellini e Carpaccio, avevano ridestato con la pittura l'amore dell'antichità classica; e li seguivano nel novo indirizzo, mercè il danaro di private persone e il tesoro dello Stato, gli architetti più insigni, gli scultori più eccellenti ed i più accurati fonditori. I fratelli Lombardi vanno innanzi a Bartolomeo Buono, Giovanni Giocondo, Antonio Rizzo, Jacopo Colonna, Antonio Dentone, 10 Scarpagnino ed Alessandro Leopardo. Giorgio Spavento scaccia gli erbaioli da piazza S. Marco e demolisce le baracche di legno. Il maestoso campanile, secondo descrive 11 Sabellico, aveva il coperto di lamine dorate, «che a chiaro sole riflettevano i raggi in tanta distanza, che servivano d'indice ai naviganti che venivano dalle coste d Istria». In quell'ora di straordinaria attività sorgono le Procurale vecchie, la torre dell'Orologio, la facciata interna del Palazzo ducale, la scala dei Giganti, S.la Maria dei Miracoli, S. Giobbe, le porte dell'arsenale, il palazzo Vendramin, il monumento a Colconi, i pili degli stendardi di S. Marco, e tutte quelle opere, che accennano ad una scuola forse più corretta e più gentile di ogni altra che precorresse o seguisse alla novazione. Consola dire che in quella fratellanza tli artisti, che diede rinomanza al secolo XV, non mancarono gl'Istriani. Le più delicate sculture di S. Michele di Murano sono quelle 14 MARINE istriani: decorazioni di fiori, di meandri, di nastrini, che paiono modellate dopo un improvviso pensieri) di poesia campestre. I fiori si rovesciano sui gambi e gli uccelletti levano il collo per beccarne il polline; le foglie si sparpagliano a fiocchi e i viticci s'intrecciano nel ricamo tli marmo. È il canzoniere del maggio fiorito della scultura italiana. Il Moschini ha rilevato negli autografi dell'aliate Paolo Dona, e specialmente in quelli che vanno dal 1469 al 147S, «che gli scultori furono Moretto Lorenzo da Venezia, Lorenzo Del Vescovo da Rovigno con Antonio suo figliolo, Giovanni da Bergamo e Donato da Parenzo».1) A questo manipolo di bravi scultori si associava Taddeo da Rovigno, che lavorò alla Ca' d'Oro, al palazzo Foscari, al palazzo Giovanelli. Pietro Selvatico afferma che Taddeo fu detto sommo neW (irto dello scalpello da Pietro Delfino; e stima probabile ch'egli sia l'artefice che architettò e scolpì l'elegante tramezzo di S. Michele, del quale non sa se più deliba lodare la purezza del concetto o la squisitezza degl' intagli. La sigla dell'Istria è dunque incisa splendidamente in questa Venezia, che tanti valorosi riescono finalmente a svincolare da ogni servitù di arte straniera. Questo avevo pensato uscendo dal tempio, rimontando in gondola, mentre calava la sera morbida e sirena. Resisteva contro la cupa ala l'ultimo crepuscolo, e sulla laguna si vedeva il fioco lume acceso ad una di quelle Madonne, clic la venerazione dei pescatori raccoglie in una anconetta gotica, dalla forma di un fanale, fisso sopra ') Giannantonio Monchini, Guida per la città di Venezia all'amico delle tulle Arti, pa;r. 394. Venezia, tipografia Al\isopoli, 1S05. Vedi anche: P. Selvatico e V. Lazzari. Guida di Venezia ecc., pag. 2S1. Venezia, stal), na/.. Carlo Manchi. Paolo Tedeschi. Dell'Arte cristiana. < Porta Orientale», anno 1859. Trieste, tip. Colombo Coen. iN SAN MICIll.l,!'. IH MIRANO t§ un palo, piantalo nella molle arena. E la gondola partì, mentre mi veniva dal poeta veronese la musica di una preghiera: Ave stella del mare, Pei mille templi che da Chioggia a Noto Ti ergea pregando l'italo devoto. Pei cerei modesti Ch'egli t'accende al di della procella; Per Kaiì'ael che ti pingea sì bella; Tu sì gentil cui mesti Fa, che la gloria ancor spunti, o Divina, Sui tre orizzonti della mia marina! * Per (piasi cinque secoli la vita delle piccole città marinare dell'Istria, già fiorenti, mentre l'Adriatico èra dominio romano, legarono tutte le proprie vicende ai destini della Serenissima: si fossero date ad essa spontanee o spinte dall'avversione che nutrivano contro il governo dei patriarchi stranieri o costrette dall' ascendente o dalla forza a farle atto di dedizione, contribuirono a guadagnare le ricche piazze mercantili del Levante, e non ischivarono mai i sagrifizi che richiedevano coraggio e sangue. Se Taddeo da Rovigno lavora in quel palazzo che è reggia del Dogado, senato e carcere ad un tempo, anche S. Marco, il tempio d'oro, arricchito con le spoglie di Aqui-lcia, Gerusalemme, Eraclea, Aitino e Pola, conserva incastonato ira i nomi degl'illustri artefici quello di un altro istriano. E a Gian Bellini, Jacohcllo, Palma, Passano, Padova-nino, Pier Bologna, Andrea Pisano, Pier Paolo delle Mnsegne, Francesco Zucato, Gerolamo Caliari, Sansovino, Tiziano, Tintoretto e Pier Zuan delle Campane sì unisce Sebastiano Schiavone o fra Bastian de Santa Léna, olivetano, del SCULTURA IN SAX M K 11]'].K 1)1 MURANO SCULTURA IN SAN MICHELE DI MURANO ,g MARINE (STRIANE monastero di S.1-1 Elena, che lavorò le tarsie nel coro della sagristia. Tarsia di fra Sebastiano Schiavane nel coro della Sagristia in S. Marco. (Copia di G. de Franceschi.) Monsignor Antonio l'asini, canonico della basilica di S. Marco, scrive: «Tout au-dessua Ics murailles sont revétues de belles marque-teries; l'or 9ous les fenetres presente dans sept panneaux iles edifices et des perspectives\ on les croil un des meilleurs travaux d'un frère olivetan du couvent S.*6 Hélène (ìlot des lagunes) nomine Sébastien; il étal natii de Rovigno, ville de l' Estrie, et connu sous le sobriquet de Frate Schiavone; il mourut en [503. Il est probable qu1 il eùt à collaborateur maitre Bernardin Ferrando bergaraasque.»1) «La Prudenza» tarsiti attribuita a fra Sebastiano Schiavone. (Copia di G. de Franceschi.) Giannantonio Moschini aggiunge: che anche la figura nello schienale del coro presso l'altare maggiore, segnata con le sigle P. S. S.— S.S.C., è di Ira Sebastiano.2) Altri narrano che fece prima con fra Giovanni di Verona, suo confratello, gli armadi e i sedili del coro di S." Elena in isola, opera meravigliosa ora distrutta; ma due specchietti ') Antoine Pasini, chanoine de la Basilique. Guide lo Basilique dr St. Marc a Venise, pag. 212. Schio, établissement tip. lit 11. I,. Marin, iSSS. '-') G. Moschini. Op. cit., pag. 2S3. Venezia, iS 15. 20 MARINK ISTRIANI'. se ne conservano tuttavia nel museo di casa Valmarana-Guillon-Mangilli. Demetrio Carlo Pinoeehielti nota che fra Bastiano da Rovigno fu l'educatore di parecchi Olivetani nella sua difficile arte, e fra questi del famoso fra Damiano da Bergamo, che sappiamo essere il principe della tarsia, visitato nel convento tla Carlo V. ') Ma proprio allora che il rovignese arricchiva la basilica marciana, Bernardo Paremmo ustava dallo studio di Andrea Mantegna e lasciava le famose dieci storie di S. Benedetto sui muri del vecchio convento tli S.ta Giustina di Padova. Krano chiaro-scuri di una finitezza senza riscontro. Consistevano di undici partimenti condotti con diligenza mirabile: in uno si leggeva la data [489 e in un pilastrino di confine dell'ultimo comparto stava la scritta: opus punii!im. "} ') Demetrio Carlo Finocchietti. Della Scultura e tarsiti in legno dagli antichi tempi att oggi. Firenze, G. Barbèra, 1873. Francesco Sansovino, parlando degli armari della sagristia, dice: «Vi sono due quadri di 1'. Sebastiano Schiavone. » (Venetia citta nobilissima e singolare descritta dal Sansovino con nove e copiose aggiunte di L). Giustinian Martinioni, pag. 103. Venezia, 1663.) Nel fascicolo del dicembre 18S2 dell'Archivio della «Società storica lombarda» si legge che gli Olivetani avevano raccolto la eredita della tarsia venuta dalla Toscana e che un povero zoppo, per nome Bastiano Schiavone, oblato nell'isoletta di S. Elena, presso Venezia, dava all'arie nel secolo XV due sommi allievi, Giovanni da Verona e Damiano Zambello da 'lìergnmo. Corner riferisce poi la seguente scritta che si trovava sulla tarsia di S. Elena: Rvtremus kie morta/itim operam labor /■'. S. de Ruigno M. Olneti qui 3 id. sept. diem obiit rjoj. (Corner, Dee XII, pag. 191.) Veggasi pure: P. Tedeschi. Art. cit. ; La Provincia, anno VI, N. 15, pag. 11S; I/istoria Olivetana Abati s D. Seeundi Lance/otti penisini. Yenetiis, 1623. I-ib. I, pag. 58, 89; De Asceterio D. Helenae ^Venetiis, lib. II, pag. 183; Vincenzo Marchese. Storia dei più insigni pittori, scultori, ed architetti domenicani, vol. II, pag. 226. Firenze, Succ. Le Mounier, 1884. *) Pietro Brandolese. Guida di l'adorni. Dei lavori di Bernardo poco rimase; perchè il chiostro, tramutato in caserma trent'anni fa, subì guasti e cancellazioni. La pinacoteca publica di Verona serba un suo dipinto su tavola, con rilievi d'oro, rappresentante la Sibilla che predica ad Augusto la venuta di Cristo. * L' Adorazione » di Bernardo Patentino, Regia Accademia di Belli Arti in Venezia.) Una sola delle pitture a fresco del detto convento, che ancora si conservava, venne riportata su tela dal chimico Giuseppe /eni nel 1820, acquistata dall'antiquario Giuseppe Rizzoli e venduta eli i sa dove. M. Caffi indici) una tela sfuggila alla distruzione, cinsi trova nella Galleria di Modena. Stefano dirozzi giudica le storie del Paronimo per le più belle cose di (pici tempi, tanto per conto della esecuzione che per la dottrina della invenzione. K dice che MARINE ISTRI iN E l'artista appena dopo eseguita quell'opera, dal 1489 al '94, si fece frate agostiniano in Vicenza, dove mori di 94 anni nel [531. ') Allorché questo parentìno dipingeva, era già compiuta la basilica di S. Antonio in Padova da Jacopo da Pola, che appare in quell'archivio civico dal 1302 in poi, come archi* tetto deputato alla detta fabrica. '-') ') A provare quanta fama godesse questo pittore, le cui opere furono talvolta attribuite al maestro, basterebbe il giudizio del Lanzi: t A leu ne sue ligure si crederebbero del Mantegna stesso. Non vi
  • . Raffaele da Piacenza intitolata Armenidorutn, libri /'. Scenae, libri //'. Politlcorum ree. in cui si esalta 1' artista. la Protnncia, anno XVII ( 188 j) N. 14 ed anno XIX (1SS5) N. 14 e 15; F. Zanotto. /'intitolerà tirila i.r. Accademia Veneta delle Belle .Irli. Venezia, Giuseppe Anionelli, 1S34. F. Zanotto. Vendita e le sue lagune. Pittura, Scultura, Architettura, ecc. Venezia, tip. Anionelli, 1S47. Adolphe Siret nel Dictionnaire historiqtte ri raisonné dés Peintres ile tou/es trs t'eo/rs ecc. asserisce che un quadro del l'arentino si trova nella regia galleria berlinese. I >i falli nel catalogo compilalo dal Waagen il quadro accennato sta al numero 48, ma una lettera privata dell'amministrazione di epici reali Musei m'informa che in conseguenza di nuove indagini il quadro attribuito all'istriano venne riconosciuto lavoro di Giovanni Mansueti e come tale registrato a nuovo nell'inventario.* -) P. Girolamo Granich. Album di opere artistiche esistenti presso i Minori conventuali dell' intera provincia dalmata istriana, ecc., ecc. Trieste, tip. Mortemi e (.'., 18S7. Venezia, che non toglieva sempre Ì suoi uomini ili Stato, i suoi capitani dall'aristocrazia o dai sollecitatori di puhlici uffizi, ma cercava le virtù individuali in tutte le classi della società, sollevando talvolta dall'ombra i forti ingegni all'altezza delle cariche più insigni e più importanti, procurava eleggere gli artisti tra i migliori, avendo una sola mira : che le opere da compiersi (ossero degne della grandezza politica e dello splendore della Republica. La massima dello Stato, in (pianto appunto riguardava il modo di contenersi con gli artefici, secondo narra il l'asini, si compendiava nella celebre frase: pesili) pagliéti, pie h èli; «si preferivano quelli che avevano dato prove indubbie di bravura, si pagavano bene, senza lesinare; mancavano ai loro doveri? venivano inesorabilmente puniti e la parola piche li non era sempre una semplice figura retorica». Molti dei nostri comprovinciali, che lavorarono nelle fabriche più suntuose, saliti in fama di valenti, mescolati nelle fraglie o nei collegi delle arti, si dissero semplicemente veneti, per cui non riesce facile rivendicare la loro origine istriana. Si usava dare agli artefici un nome di battaglia, od aliami assumevano quello della loro città natale; servano d'esempio il C liiozzotto, Andrea da Murano, i fratelli da Veglia, Andrea da Sebcnico, celebre allievi) del Tiziano, che dipinse la libreria di S. Marco, e Luciano da Lovrana, maestro di Bramante, che eressi: ad Urbino il palazzo ducale. ') Un egregio scrittore asserisce che nel scolo XV, ed anche dopo, i cognomi erano poco in uso fra le classi minori, e molti artefici, specialmente quelli di Venezia e di Verona, amavano cognominarsi dalla parocchia o dalle contrade ove abitavano. ') Geymiiller. Le prejel primitif pottr la basilique de S, /'/erre de Rome, pag, 31. Vienne, 1875- 24 M \K1\I ISTRI \NK Abbiamo tra gli architetti del XV secolo un Domenico da CapodisLria, ricordato da Filarete accanto a Donatello ed altri insigni scultori e costruttori, autore dell'ospitale di Milano, che lavorò al tempo degli Sforza, conosciuto a Venezia ed indicato dallo Zani come valente e bravissimo. Una epigrafe esistente sulla porta laterale, a destra, del duomo di Cividale ricorda che architetti di quella fabrica nel 1457 furono Bartolomeo Costa c Giovanni Sedula, giusti-nò polit ani. Molti biografi però non curavano sapere dove era nato un artista quando si occupavano di stabilirne la gloria, e gì' Istriani, dicendosi Veneti, cosi anche firmavano. Francesco Trevisani, nostro, proprio di Capodistria, e non di remota epoca, nato nel 1656 e morto nel 1746 in Roma, venne da molti biografi detto di 'Treviso. Lazzaro Sebastiani, allievo del Carpaccio, per alcuni figlio di Capodistria, fu inscritto dai più tra i pittori veneziani. Bartolomeo Cecchetti, esaminando gh atti notarili dal XIV al XVI secolo, ha poco fa rivelato altro pittore, Pietro fu Galeazzo ila Maggia.1) E il cominciato disseppellimento delle vecchie carte porrà in luce quello stuolo numerosissimo di eccellenti decoratori e t/opeu-tori, che lavoravano cartoni da mosaici e da arazzi, e l'arte del disegno e la tavolozza adoperavano nella pittura dei vetri, dei mobili, della ceramica, delle arche, durante quei due secoli, in cui nessuna giovane andava a marito senza portare in dote il suo cassone dipinto, ciacche Orgagna e Giotto e molti altri grandi maestri avevano lavorato per il corredo delle gentildonne fiorentine e il Maratta e il Garofano colorivano stemmi e ligure sul cristallame dei patrìzi e dei principi. Qualche altro nostro istriano verrà tratto dall'oblio a mano a mano che si andranno esaminando i vecchi depositi degli archivi, ') Prof. Bartolomeo Cecchetti. Saggio i/i Cognomi ed Autografi di. artisti in Venezia, dei secoli XIV e XIV. Archivio veneto, tomo XXXIII, Serie II, l'arte II, 1 SS7. IN SAN MICHELE l'i MITRANO 25 E si completeranno a vicenda le storie, giucche una buona parte della nostra è a Venezia, e il compimento della storia di Venezia si trova negli armadi che custodiscono nelle nostre città documenti patri ancora inediti. ') * * * Ilo detto delle comunanze nell'arte: ora la pagina tlel cuore, nascosta agli occhi che non la cercano. Nel 1576 (piando a Rialto e nei vari addensati quartieri scoppio la peste, l'isola di S.''1 Maria Stella Codi venne convertita in Lazzaretto, e vi si confinarono, nelle case di legno costruite apposta e in alcune galere ridotte a baracche, coloro ch'erano sospetti d'aver contratta la infezione. Un vascello inalberava la bandiera al di là della quale era vietato inoltrarsi; a prora di esso rizzavasi una forca, minaccia per chi avesse osato violare la legge sanitaria. Quasi 9000 persone vennero segregate durante la epidemia su quell' isolotto, provveduto di sacerdoti, di medici, di viveri, di quanto insomma abbisognava quella popolazione. Tremila barche si aggruppavano rendendo lo spettacolo ancora piti triste. Ricchi e poveri si accomunavano insieme atterriti dalla strage che il flagello menava non solo in città, ma in terraferma, dove erasi rapidamente diffuso e con maggior veemenza uccideva Al sorgere del sole celebravasi la messa in mezzo all'acqua, dopo il tramonto la processione faceva echeggiare la laguna del canto dei salmi. « Di là dal lido vedovasi il mare coperto di navigli che dall'Istria e dalla Dalmazia portavano provvigioni ed immensa quantità di ginepro, che si bruciava su grandi pire effondendo l'odoroso profumo sul mare.»-) Le città istriane mandavano ogni settimana venti ') Veggasi m proposito il libro di Tomaso Luciani: Fonti per la Sforiti iLir Istria negli archivi di l'c/tczia. l\. Archivio generale ili Venezia, IS7 j, esposto alla l'esposizione ili Vienna. '-') Ermolao Paolctti. // Fiore di Venezia, vol. I. Venezia, 'l'omaso Fontana edit, 1837. 26 MARINK ISTRIANE delle loro barelli' in soccorso di Venezia appestata, ed ogni sera le campane delle loro chiese e quella dei Comuni suonavano chiedendo a Dio la salute della Signora. * * * In quelle feste clic, come disse Giustina Rcnier Miehiel, il popolo credeva fossero pegno della indipendenza, perchè esso vi compariva come attore e giudice insieme; in quegli spettacoli che accrescevano grandezza alla Kcpublica, onore a (pianti l'avevano difesa, anche l'Istria si mostrava con vanto. Un giorno la piazza di S. Marco era affollata; gremite le rive; folti di gente i balconi. Si confondevano in quella ora di gioia L'aristocrazia superba, il popolo mobile e tumultuoso. Sotto la fiamma del sole risaltavano i drappi a più colori, a più fogge. Fluttuava la massa, lampeggiavano gli chiù dei militi, le maglie ed i corsetti di ferro. Luccicavano le alabarde delle guardie del corpo, ondeggiavano le piume su quella densa raccolta. E gorgiere e baveri a fiorami d'oro, e vesti di cresponc, e lunghe maniche con cascate bianche che scendevano quasi a terra, e berretti di velluto, e teghe paonazze, e broccati, mescolavansi insieme, agitati dal continuo movimento. Sul Canal grande le gondole con gli strascichi, i ber gantini leggieri, i garzaruoli a trenta remi, i peattonj, a bassa carena, le biremi, tutte ornate di panni a stemmi, e il naviglio Sovrano, tutto oro e bissi, tratto a rimurchio da barche. La sul mare, il Doge, il maggior Consiglio, i Pregadi, i Dieci, gl'Inquisitori, la Quarantia, i Savi, gli Avvogadori, i Cavalieri dalla stola d'oro, i Salinieri del mar d'Istria, il general custode del bosco di Montona, i Nunzi delle Comunità, la gente d'arme: balestrieri, bombardieri, gli oltremarini, gli Epiroti nello sfarzoso costume, i Dalmati. Si festeggiava la vittoria dei Dardanelli; allo squillo elei trombettieri appostati a S. Giorgio Maggiore, sfilarono venti barche pescherecce, con le reti distese sugli alberi, col IN SAN MICHELE 1)1 MURANO *7 pcntioncello di S. Marco a prora, mentre dalle aste di poppa scendevano piegate nell'onda le bandiere dei comuni: erano le perle di Venezia, le sue isole e le citta istriane. Sonavano tutti i bronzi, tonavano le piccole artiglierie e in quel corteo volevansi ricordare gli eroi di Costantinopoli e di Candia. Non erano i bragozzi degli asili di pescatori che formavano il corteggio dogale, ma le democratiche delegazioni di quelle città, i cui figli avevano tinto di sangue i mari dell' Oriente, e pagato le colonne d' Acri ed i quattro cavalli tolti all'ippodromo di Costantinopoli a prezzo di tanti Capitani morti sulle trionfanti galere. Passava la barca di Pola e ricordava che quella città aveva dato due dogi: Pietro Tradonico e Pietro Polani; scivolava la barca tli Rovigno e narrava che Gregorio Gai-lucci ed Antonio Benussi venivano creati cavalieri di S. Marco, per la loro intrepidezza (pianilo l'uno combatteva nelle acque di Scio, quando l'altro si segnalava nella battaglia di San-t'>strati. Veniva la barca di Capodistria e tutti sapevano che il suo Biagio Giuliani, dopo aver resistito a Canea sino ali ultima ora, quando i nemici sfondarono le porte della tortezza, dava fuoco alle polveri morendo con i suoi quaranta c con cinquecento nemici sotto le rovine. ') Pietro Micca, così celebrato, sessantanni piii tardi rinnovava il grande fatto. ') 11 provveditor generale
  • It Io vorrei potervi fotografare con le parole ad uno ad uno i gruppi di case svdle rive, e le nostre città che hanno validamente cooperato alla grandezza e coltura nazionale. Vi diro invece l'impressione che m'ebbi da quelle marine dopo la visita in S. Michele di Murano, dove trovai i primi artisti, che, girando ad abbellire chiese e palazzi, illustrarono gloriosamente il nome e la storia della nostra terra. Il, DAL TI M AVO ALLA ROSANDRA // Timui'n e i poeti Ialini — Il milo degli Argonauti — Dante al castella di Duino — Gli esuli toscani — Una lettera ilei Petrarca a Boccaccio — Le caecic ducali nell' esina rio f/radense — / vassalli del mare — / castellani di Duino — Le leggende — L'avvisatore del fulmine — L'isola di Bell'arte — Sei figli di Chioggiotti Trieste. Dal Timavo alla Rosandra i confini naturali dell'Istria sono tracciati da una parto col mare ch'ebbe dagli antichi il nome funebre di golfo Carnaio, quasi fosse un divoratore di uomini, dall'altra parte, verso le pianure del Friuli, dal liniavo, il fiume glorioso, che dilatava la sua acqua bianca qualche miglio sul mare. ') I versi dei poeti latini hanno aggrandita la celebrità della breve fiumara. Virgilio ne fa sentire il rimbombo delle larghe cascate, che accavallano le onde in una conca incavernata nella montagna e quindi da nove bocche rigurgitano e precipitano diffondendo i flutti sonori per i campi e le lagune. Strabone, Plinio, Pietro Coppo, Gerolamo Muzio e Andrea Rapido narrano il mito degli Argonauti: Giasone ed i cinquanta rematori, scelti tra i più ardimentosi giovani di Grecia, coli'argonave di legno tenace ed incorruttibile come il vischio, risalito il Danubio nel viaggio alla Colchidc, per conquistare il vello d'oro, giunti alla Sava, non potendo ') Chi volesse acquistar cognizione del Qiittruaro, elle secondo il Luciani è miglior* liflln sua faina, veda cosa questi ne dice negli Slutit Storite* etnografici dì Albana. Venezia, 1879. -6 marini, istriani: proseguire, sbarcarono, ed ;t forza di spalle sollevato il legno, lo trasportarono oltre i monti dell'Adriatico là dove sgorga il Tiniavo. ') Proprio come nel 1439 i Veneziani in guerra con Filippo Visconti convogliarono su per valli c monti varie galee e le calarono nel Benaco;'-') o come Maometto li nel 145 r, durante L'assedio di Costantinopoli, fece trasportare, oltre il eolle nel seno di Calata, cinquanta vascelli a vele spiegate, Castore, uno della spedizione argonauta, secondo Marziale, abbeverò il suo destriero nel Tiniavo. E cosi la favola precede La storia, per dire almeno che quei campi e quel fiume hanno una vita confusa nella notte impenetrabile dei tempi, che sopravanza la battaglia degli Istri coi Romani e anche le olimpiadi in cui Tequile di S. Giovanni di Tuba, 0 di Duino, forniva le bianche puledre che Dionisio, tiranno
  • ggi la vallata di Zaule è deserta, le saline lasciate in abbandono.-) Larghe e basse praterie si allargano ridotte a pastura fresca. L'immenso tappeto distende la sua erba o almeno il musco verde e vellutato sino dove lambe l'ultima onda morta del mare. I pochi salinari raccolti nei casolari succedono alla generazione che lavorò nei tempi prosperosi, ed oggi si son dati alla pesca; le loro capanne, poste sugli argini, sono quasi vuote: qualche orciolo, le nasse, ') Ulrich voti Lichtcnstein. Vrowjoen Ih'citcst FrtlMtn DitHtt . Heraus-gegeben von Cari I.adunami, pag. ioó. Berlin, Verlag der Stnderschen lJuchhandlung, 1S41. ?) I.'aw. Giovanni Benco, con documenti traili dall'Archivio capito-lare triestino, tentò dimostrare come la vale di Zaule ancora alla line del secolo XV ed al principio del secolo XVI fosse chiamata sotto il nome ili Cauli*, voce che si riscontra sovente nel Friuli quale denominazione di valli chiuse da montagne ed in genero di conche prative. Airhcografo truffino, v,,l. XI, 1SS5. PESCATO KI. i. \ v \i i ata !>[ zali.k 59 i remi, im letto, un focolare sotto le travi incatramate del soffitto; tutto al più sui balconi il lusso di qualche geranio che ha l'odore delle reti. Muoiono come le chiocciole nel loro guscio. D'inverno le vecchie donne vanno a svellere lungo le rive quella cicoria selvatica che in Toscana chiamano il radicchio scoltellato; con le canne palustri fanno le rocche da filare o preparano le chiusa alle peschiere; gli uomini strappano le ostriche, e nelle notti in cui imperversano i temporali camminano, muniti di fanale, sulla melma, dove strisciano le anguille, per cacciarle nelle chiuse ; i bambini (piasi nudi, all'alba cominciano la cerca dei nicchi nel pantano negro, molliccio, sdruccioloso, e crescono gente nervuta e gagliarda. Di giugno raccolgono Taiga; sfangano nei passatoi tra gli argini in cerca di esca; si bruciano al sole, e cantano. Quando la natura va in amore, e tutto è una sagra di passeri e di farfalle, le piote si tappezzano e si rivestono; al di là dei tuguri, giù sino alla strada spalleggiata dai pioppi, le salvie fatue crescono fitte al suolo, la lupinella e il serpillo infeltriscono il terreno; tutto è verde, di un cangiante che va dall'azzurro all'oro; il falso frumento mette un giallore vaporoso sul grande pascolo. 1 fiori coloriscono a chiazze e a righe la densa e morbida prateria. Sono crocette azzurre, bottoni di corallo, stelle di tutte le tinte, umili sotto la superbia delle margherite che levano alto il loro collarino di neve. In epici giorni in cui la natura doviziosa sorride, e il cielo (piasi lavato dalle pioggie primaverili è celeste come il mare, ed e tutto una gioia, una serenità, i pescatori di /aule abbandonano la riva. I lamio barche rattoppate, con vele rotte: sono i poveri del mare che non vi domandano mai nulla. Vivono e trasmettono una miseria sopportata in pace, faticando sempre. Isolati, in quelle saline, non abbandonerebbero per miglior sorte il loro nido. E quella la loro 6o MARINE [STR] \\T. patria, immiserita, ma che amano, perchè essa raccoglie il presepio della famiglia, e conserva la storia dei loro morti. Ciò insegna che l'uomo adora la patria anche quando non sia altro che un tugurio, in mezzo a lubrico limaccio, su cui non cresca che un po' d'assenzio marino. IV. IL BORGO DEL LAURO Muggia — Le rovine di Monticala — Santa Maria de Castro Muglce — La famiglia Barharigo —- Un Comune irrequieto — // popolo d'oggi— Le ultime regatanti. Il Borgo del Lauro T 1 pescatori duincsi molte volte, al primo albeggiare, si trovano là nel maestoso vallone di Zaule tra il barco-lame pescareccio disteso come uno stormo di gabbiani; quelle riunioni marine si sciolgono alla luce del giorno, cd i bragozzi scompaiono riparando con la pesca nel nostro porto. Allora Muggia, dalla tinta cupa, appollaiata nel gomito, che fa il eolle di S. Bastiano, si sveglia, apre le finestre e comincia a dar segno di vita col fumo dei suoi camini. Fra le case, che sporgono il tetto l'ima sull'altra, spuntano gli alberi dei battelli da traghetto, e va sii il campanile grosso con la balaustra girante intorno alla piramide. Si distingue l'ala smerlata del vecchio castello e quella delle mura che formavano l.a cinta, e che resistettero ai Genovesi. Delle aspre guerre sostenute parlano ancora sul culmine della collina i pochi avanzi dei caseggiati, lo scheletro dell'antica chiesa di Monticula. Lassù si palesa subito l'intera distruzione. Se gli Slavi,, intorno al nono secolo, guastarono la città che sorgeva MUGGIA — H. MANDkACClIlO ii, BORGO DEL LAURO dentro a mura, come nel vuoto di una corona, sul culmine ilei monte, e dominava due golfi, il suo e quello di _ Trieste, Paganino Doria nel 1354, Rimase in piedi una quinta di muraglia, che ripara quel cimitero di casolari e di gente trucidata. La chiesa in mezzo ai cumuli di macerie isolcggia, risparmiata dai devastatori, e conserva nell'interno la fisionomia primitiva, in onta agli sfregi recati ad essa dai bassi tempi e dalla nostra età. Il commendatore Giambattista de Rossi di Roma, giudicandola dall'aspetto generale, dalla disposizione liturgica, dalle fasce dei septi e dal pulpito, la poneva, dopo esaminate alcune tavole, tra l'ottavo ed il nono secolo; ma siccome fuori dei grandi centri l'arte non cammina rapidamente, non ardì affermare che i criteri applicabili ai monumenti di Roma valgano per questa chiesa, e stabiliva in ogni caso il Mille come ultimo termine a cui bisogna fermarsi. Il consigliere Rodolfo de Eitelberger le assegnava il carattere di una basilica romana, adatta al bisogno di un piccolo Comune cristiano, e notava che l'atrio, il pulpito in guerra coi Veneti, compì lo sterminio. Abbasso, al mare, si era già formato il nuovo Borgo (hi Lauro, e nel 1263 il vescovo di Trieste consacrò la chiesa di San Giovanni e Paolo. Della Monticula, che tenne testa alle invasioni ed alla efferatezza degli assalitori , si vedono ancora oggi le contrade con le abitazioni diroccate, rase al suolo, sicché pare che al crollo di un terremoto sia tutto rovinato con orrore, non restando che monti di rottami e di sassi. 66 m \kim: [STRIANE ed i cancelli di marmo hanno- gli ornamenti simili a quelli della cappella romanza di ("ividale. Aggiungeva che le absidi sono chiuse esternamente con una linea orizzontale come le basiliche orientali, e che le pitture a fresco, fra le (piali gli Evangelisti, sono di carattere bizantino antico.1) In un sunto di conferenza, publicato negli Atti della Società d'ingegneri ed architetti in Trieste, con illustrazioni, venivasi ad affermare che la chiesa era del V o VI secolo, ma nel!'VII! o JX secolo aveva subito un importante restauro, eseguito secondo il gusto dell'epoca, che era quello stile chiamato longobardo o noi inalino-bizantino. Si aggiungeva che gli ornamenti policromi, fra gii archivolti, ricordavano la chiesa tli S. Salvatore a Costantinopoli: in con clusione trattarsi ili un tempietto bizantino, con innesti longobardi. -) In altri articoli successivi, comparsi su giornali, si concluse che In S.1-' Maria non c'era neppure indizio di .archi tettura lombarda, che gì1 intrecci degli ornamenti, tanto quelli a groppo, come quelli che striano le croci, sono bizantini, e bizantina la chiesa, rìfabrìcata alla meglio più tardi, con nessun sentimento tli arte. Mi dispiace di non essere punto d'accordo con tutti questi apprezzamenti, mentre partecipo a lineilo dell' Eitel-berger, che vi ha cioè corrispondenza di stile con gli ornati della cappella tli Cividale. Anzitutto la pianta non è tli chiesa bizantina, bensì di basilica latina. Là chiesa ha subito restauri, e nessuno lo può negare: ma non longobardi; essa è invece vero ti]») dello stile longobardo, e proprio del primitivo, detto anche rozzo. ') Mittheilungen iter k. L. Central Connnìssion zur L'.rforsritung unii L'.rhaltung der A'unst und Ilistor. llenkmale. 1882. fase 4, voi. Vili, pag. 155. '*') Cav. Domenico Pulgh2r. Conferenza sull'antica Chiesa di S./a Maria di' Castro Muglce, negli Atti della Società il'ingegneri e architetti in Trieste, anno VI, fascicolo IV, pag. 27. Veggasi inoltre: La Provincia, anno xix (1885), N. 2 e 6. INTERNO ih santa maria DE CASTRO MUGLìE il. 1:1 «uso del lauro 69 Dunque nè pianta nè ornati bizantini. Anzi gli ornati sono assolutamente simili, come disse l'Eitelberger, a quelli di Cividale; ed io aggiungerò quasi copiati dagli stipiti della porta settentrionale di S. Michele di Pavia (XI secolo) c da (piedi di S. Ambrogio di Milano (IX e X secolo) di stilo lombardo puro; i capitelli cubiformi dell'ambone sono uguali a quelli di Torccllo, ;i quelli del duomo tli Modena e della chiesa di S. Silvestro in Trieste. Dettaglio ili uno stipile nello porta settentrionale in S. Michele di Pavia. Non è del resi o la prima volta che la critica artistica abbia errato nel determinare 1<> stile di alcune chiese sorte tra il nono e il decimo secolo. 11 longobardo, come provano Ramée, Mope e Brayda, venne chiamato scorrettamente bizantino, mentre non era altro che nuovo sviluppo di costruzione i ornano-cristiana. La chiesa di Monticela, appunto perchè conserva qualche tradizione orientale, bisogna ritenerla alzata da quei muratori friulani, che, è noto, e lo Spiega il Selvatico, lavorarono nella propria terra e nella nostra, fondendo nel lombardo il bizantino, e creando lo stile misto che si chiamò forqiuliese. S." Mai'ia dunque è una povera basilica latina, della bell'arte italiana, che in Cividale fioriva così da lasciar nome e modelli. Purtroppo oggi S.ta Maria de Castro Maghe ha sofferto tutti gl'insulti ilei muratori e degl'imbianchini. I preti ignoranti hanno fatto cancellare e rinfrescare gran parte delle pitture murali; pagarono perchè si coprisse di calce l'ambone, il leggio, i parapetti marmorei, ed infiorarono le immagini sacre appese ai muri, le coprirono di nastri, di argenti cantarmi, di ghirlande cartacee, di tutto ciò che si adopera per decorare le bare bianche dei bimbi. Al posto dell' antica tavola, che dicevasi prezioso lavoro dei primi tempi della pittura, si collocò una Madonna di legno, imbellettata, con gli abiti dai colori delle bandiere, carica di ori e di voti (pianto l'insegna di un orafo. -X- # # A Muggia non si trova più traccia dei Templari, che vissero a S. Clemente, con il mantello bianco sull'armatura, fregiato della croce latina di lana rossa; uè traccia della casa dei Barbarigo, famiglia muggesana che, secondo i cronisti, venne così chiamata, dopo che il suo Arrigo neil'SSo vinti i Saraceni fece ritorno a Venezia con in capo una corona fatta con le barbe recise ai prigionieri: nobile ceppo mi i ;gia tipi ki popolani, II. lIOKCi) Dia. l.At'RO 7.? che diede quel Gregorio il (male rifiuto l'onore della tiara, e quell'Agostino, che colpito da una freccia nell'occhio a Lepanto morì sul ponte dove più ferveva la mischia.1) I .a città da quattro secoli discesa al borgo navale, alla riva, rifece subito la facciata del duomo gotico e collocò un grande leone sul palazzo del Comune. Sempre soggetta a Trieste ned' e xlesiastico, passò ai tempi tlelle invasioni dal dominio degli imperatori a quello dei patriarchi, fu ceduta dai vescovi ai baroni e viceversa. Donata, occupata, debellata, mercanteggiata, permutata, restò sempre libero Comune, e ne ha la fisionomia. Ebbe Consiglio maggiore, Consiglio di Savi, gli Anziani che corrispondevano agli Avvocatoli, ma la sua autonomia ristretta era tutta di popolo e solo di popolo. Passata per tante mani, contrattata come un feudo, fu violenta sempre, ricorreva presto alle armi, oggi a favor di Venezia contro ai Genovesi, poi con Trieste, Treviso e Padova nella lega patriarchina contro S. Marco; quindi va a bloccare Trieste con le sue barelle, sussidio alle galere, e forza le catene del porto. Si ribella più volte al patriarca, tormenta quelli che hanno combattuto con essa, e si crea amici e nemici a tutte le ore, riducendosi in un cerchio di tante minacce, che un bel giorno deve chiedere un salvacondotto per don Giovanni, pievano di CodroipO, perchè possa portarle l'orologio da lui costruito. La sua gente si può dirla di sangue sempre acceso, di una fierezza indomata, ma in pari tempo di carattere espansivo, amante le publiche feste. Narra il Manzuoli: «Si suole l'ultimo giorno di carnevale fare un ballo detto della verdura, nel quale le donne e gli liuoinini hanno verdi ghirlande in testa ed un ano d'oro di fronde e di aranzi Composto in mano; questo hallo è simile a quello 'he Theseo per allegrezza della vittoria havuta con il Minotauro istituì nel laberinto e ') I llarlnirigo fondarono, insieme ai Iubanici, la chiesa di S. Maria Zobenigo a Venezia, e si stabilirono in quella contrada. 74 MARINK ISTRIANE potrebbe essere che i Colchij che fondarono Puola et Capodistrìa lasciassero a M uggia questo costume. •') Nel 1420 fece atto di dedizione alla Republica veneta, e la servì valorosamente nel cinquecento contro ai Triestini tenendo testa al Frangipane. In quella famosa giornata si distinse il suo Tarro, detto Bombizza, onorato tla una lapida immurata nel duomo. Vanta cinque professori a Padova , poeti e metlici illustri, e dopo quasi mezzo millennio di prospera civiltà, se pur tra il sangue e le lotte fraterne, si riduce a borgo di calafati e barcaioli. I suoi popolani in berretto rosso alla chioggiotta, con la pippa corta, il cappotto a cappuccio, e il dialetto lagunare, comincia ut) .a scomparire. 1 nuovi intonachi cancellano gli affreschi; Ì verou-cini del quattrocento se ne vanno con le moderne costruzioni; gli operai tlel cantiere tli S. Rocco si affollano nelle trenta osterie, che nascondono con la frasca la epigrafe o lo stemma gentilizio sulle case abitate da qualche podestà; da qualche giustiziere, da qualche gastaldò 0 fon-ticaro della M uggia un di superba de' suoi Settanta del Maggior Consiglio. Giuseppe Revere, quella gloria nostra, a cui ne lega tanto amore ed a cui portiamo così profonda riverenza, scrisse nei suoi artistici bozzetti: « Le donne come gli uomini là sono pure intese ai negozi marittimi; coltivano la terra, invero poco ferace, per difetto di acque, tuttavia produttrice di buone frutta e di qualche erbaggio; portano le loro derrate in città per la via di mare e nelle loro barchette te vedi vogare intrepide come i loro mariti. Usano dialetto istriano, vale a dire, quasi veneto ....»*) J) ATova descrittìone della Provincia dell' Istria, ecc. ecc., con a. in Ve-netia, iòii, presso Giorgio Bizzarro. *) Gius.ppe Revere. Marine e Paesi, pag. 40. Genova, tip. La-vagnino, 1858. mu(,(iIA — REGATANTI. h. borgo del Lauro 77 Le donne di Muggia erano regatanti famose; il loro volgare era ladino. Ma tutto se ne va, persino i dialetti si sfrondano della poesia degl'intercalari e dei proverbi; perdono la musica degli accenti, la sonorità delle aperte vocali e s'avvicinano alla lingua, immortale quanto la nazione. v. LA GENTILDONNA DELL'ISTRIA Cu pod istrici nel medioevo — Sua dedi/ione a Venezia — La partenza di Pier drudinìgo —La ribellione del 1348 — Compagnia della ealza — Accademie — Ambasceria rupodistriuna a Venezia — // lusso e una supplica del Comune — Arredi e mobiglia — Gli schiavi — Popolo e nobili — Artisti, scienziati, uomini di lettere — Due ingegni singolari — L'archivio — La caduta della h'ejiuhliea — Costruzioni publiehe e private — // tesoro del duomo — // conventa Sant'Anna — Cima, Vittore e Benedetto Carpaccio — la biblioteca dei frati — Panfilo Castaldi medilo in Capodistria —Aspetto della città — / Paolani — Il quartiere dei pescatori. La Gentildonna dell'Istria J^Iei combattimenti e nelle scaramucce della Ro-sandra, Capodistria era andata in soccorso dì Muggia con alcune squadriglie di pedoni. Capodistfia non mandava ai rischi frequenti delle guerre gente ratinaticela, ma i migliori suoi popolani, il fiore della sua nobiltà. Per i molti cospicui casati, per l'amore che portava alle arti e alle lettere e per l'onore in cui teneva le armi, era, fra le città consorelle, la Gentildonna dell'Istria. Sorgeva sopra un' isola dalla forma di uno scudo, rialzato nel centro. Il duomo con la torre, dal punto più elevato dominava tutti i quartieri serrati nella cinta dalle dodici porte, e s'imponeva con maestà alle chiese minori ed ai conventi, che slanciavano sui tetti i loro trenta campanili di tutte le forme: alcuni a cappello, altri a lanterna 0 poveramente a vela, con due archetti a giorno, sotto ai quali si bilicavano le campane. Kssa aveva il carattere di tutte le città italiane, che dopo la bega lombarda, da quando il vescovo Eripcrto S2 MAkINT. ISTRIANI'. inventò il carroccio, con le troppe chiese manifestavano di aver ricuperato il reggimento municipale, mercè l'aiuto della religione che bandiva il verbo della liberi a. Erano passate, non dimenticate, in Istria le dominazioni dei Longobardi e dei Franchi, e quelle fiscali e senza pace, vessatorie o anarchiche dei marchesi e dei patriarchi d'Aquileia, che distrussero le leggi romane, imponendo li-gravi ordinanze feudali. Il Comune, dal limavo al Ouarnaro, dopo le infinite scorrerie e padronanze barbariche, rivisse finalmente in una forma che in molta parte ricordava il grande esempio degli ordinamenti romani; rivissi' società di liberi proprietari e di liberi figli di un municipio. Allora se il palazzo di città chiamava con la campana alYarertg'O, tutti correvano, abbandonando le case e la famiglia, per ubbidire a quella istituzione che manteneva sacrò il deposito ili onore e tli orgoglio in cui erano stati educati.1) La chiesa formava un addentellato tlel sistema sociale. Ogni tasta si era aggruppata atl un sacro stendardo. E quando in Capodistria i nobili andavano processionalmente dietro al pennone del Santissimo, raggiante ti'oro, li seguivano i commercianti e i notabili della confraternita tli S. Antonio, i bombardieri di S." Barbara, gli artisti della ') La vita municipale nell' Istria fu una continuità della tradizione romana, e pati sospensione sotto il dominio feudale; durava ancora sotto ai Bizantini (piando era già spenta in Italia dalla invasione longobarda. Il Lantani nel suo lavoro / Cornimi dalle origini fino al principio del secolo XtV, scrive : «Alle Comunità che continuarono a governarsi con le antiche istituzioni municipali, con una nominale dipendenza dalla corte bizantina, bisogna aggiungere, infine, anche le citta del litorale istriano e dalmata, quelle città che tino dal secolo X (XIII e XIV) dovevano essere aggregate alla republiea di S. Marco ed a proposilo delle ijuali il Balbo dice che allora esse erano gin indipendenti, veri comuni a modo dei lombardi e dei toscani cinque secoli appresso.* Ciò prova, dice Paolo Tedeschi nel Decadimento dell' Istria, che la nostra Provincia godeva di una vita ab! astanza distinta ed autonoma anche Drina del dominio veneto. DELL'ISTRIA Madonna dei Servi, i marinari di S. Nicolò, i pescatori di S. Andrea. ') Il Comune aveva il suo posto nelle processioni e il clero lo aveva nelle feste civili. I trenta campanili nei dodici rioni spiegavano appunto che la casa di Dio, dopo la Lega lombarda, fatta propria la fede nella patria, la infondeva dal pergamo, e la solennizzava col genio della musica che le apparteneva: gli ordini religiosi e il clero benedivano i sentimenti nazionali, gli affetti municipali del popolo. * * Capodistria, che pare durasse più lungamente di ogni altra città istriana sotto ai Bizantini, aveva già dall'anno 813 patti con la Repubblica veneta, per cacciare i pirati dall'Adriatico e per servigi di reciproca utilità; nel [278 si diede interamente alla Serenissima 2) l) Archivio storico per Trieste, l'Istria ed il Trentino, E. Monaci illustrò il testo di un'antica Mariegola della fraterna capodistnana
  • ), registra anche quello della gentildonna Istriana Pasqualino (1407). f.n Dogaressa, p. IOO. Aggiungo che .-mehe Tergestulo, Triestulo ecc., erano nomi di battesimo ; Tstrigo nome di antica famiglia agiata in Venezia, eli Padova; Pietro Pola, nonio di molto ingegno, poeta c prosatore1, scrisse la commedia / giusti inganni. L'accademia era pure teatro; dopo la produzione drammatica di Aurelio Vergerlo : Favola scenica, rappresentò la F il irla, favola boschereccia di Girolamo Vida, e la tragicomedia di Ottonello de Belli : Sélve incoronate, ]) la (piale meritò le lodi del Guarnii, che non cessava di ammirarne la invenzione.a) Prospero Petronio aveva veduto nella sala del Sindacato del Consiglio le insegne dei nobili ascritti a quella società, la cui costituzione dipendeva sempre da, un permesso del Consiglio dei Dieci, e che si diceva della calza perchè si distingueva dal colore di una delle brache assettate, bizzarria che era allora in voga. Scrive Fabio Mulinelli: "Vettore Carpaccio è uno dei pochi dipintori che 1 i abbiano conservata questa foggia; avevano giubboni «li velluto, di drappo d'oro 0 di seta, con le maniche ritagliate, donde usciva alquanto la camicia; portavano bercila rossa O nera, tagliata e pendente da una parte verso l'orecchio ed i capelli sempre lunghi e folti quanto avessero potuto, legandoli talvolta con una fettuccia in una sola treccia.» 3) Usavano anche calzoni a quartieri di più colori, mantello con cappuccio appuntito e le imprese a trapunto d'oro. Morendo uno dei soci, tutti i compagni portavano per quattro giorni, in segno di lutto, il mantello nero. ') Marchese Girolamo Gravisi. Intorno alle antiche e moderne Accademie in Capodistria. 8 aprile 18Ò0. Cenni sulle origini e progressivo sviluppo della Accademia giustinopoli-tana. Capodistria, I.a Provincia, anno 1, N. 7i 1I:1K- 5 \\ N. S, pag. 62. 2) Prof. Giacomo Babuder. Cenni intorno alla vita ed agli scritti del Marchese Girolamo Gravisi. Capodistria, tip. (!. Tondelli, 186N. 3) Del Costume Veneziano, pag. ijo. marink istri \nk Nel 1553 ^a società si trasformò, adattandosi all'indirizzo dei tempi, ed abbandonati (piasi interamente gli esercizi cavallereschi, divenne esclusivamente letteraria, chiamandosi dei Desiosi. Nel 1646 si rinnovò sotto il titolo di Acca-demia dei Risoi/i, con l'impresa di un tronco secco d' olivo, che riscaldato dal sole germoglia, e con il motto: Rediviva colore. Era di moda il barocchismo, che infestava la letteratura con le ligure, i traslati, le metafore, le ardite e ridicole iperboli. La società dava spettacoli pomposi, divertimenti stranissimi, ordinava mascherate curiose, cortei sfarzosi, giuochi di (puntane, regate, combattimenti con cavalieri dagli sfolgoranti costumi. Nel 1739 si spezzò il nodo che legava molti Istriani all'Accademia giustinopolitnna; sursero indipendenti Gli Operosi, ultimo sodalizio che abbia lasciato tradizioni di studi sereni, rivolto alla storia nazionale, all'economia, alle lettere.') Si era importato anche il lusso; la Gentildonna istriana, più ricca delle sorelle, solleticata noli' orgoglio, gettava con prodigalità il denaro per seguire le mode della Matrona, e quella eccessiva vanità del vestire costoso provocò nuove leggi suntuarie. '-) Quando il Senato, con decreto 7 febraio 1674, deliberò di solennizzare l'assunzione al trono ducale di Nicolò Sagredo, chiamò con regio invito alle publiche allegrezze ') Nel 1760, Pietro Verri, il celebre letterato ed economista, di ritorno da OD viaggio in Germania si recò a trovare il suo amico Gian Rinaldo Carli, a Capodis'.ria, e più tardi partecipò con lui alla scelta società di Milano, elle annoverò tra' suoi Cesare Ileccaria e l'abate Paolo Frisi, il più grande astronomo del secolo passalo. Pietro Verri scriveva in data di Capodislria, 27 dicembre 1760: «Mi vogliono accettare nella loro Accademia epiesti signori, che si chiamano Risotti, forse vi reciterò qualche cattivo verso anch'io.... 1 comandanti veneziani sono sommamente rispettati, e portano le calze rosse, il che mi si dice essere una distinzione che usano oltre mare.» (Pietro ed Alessandro Verri. Lettere <■ scritti inedia, lett XX, vol I.) -) Vcggasi sulle leggi suntuarie a pag. 153. cap0d1stria — [ON l'AN A IN PIAZZA DEL PONTE. LA ( a-NIII. I" iN NA I HI .1. ISTRIA 9' le suddite principali città ; della Provincia, sola Capodistria. Il 9 agosto arrivarono a Venezia gli eletti di quella rappresentanza in numero tli venti, con seguito di paggi e valletti. Nel giorno stesso venne ricevuta quell'ambasceria dal doge, che la trattò con cordial tenerezza ; ed all'ora destinata essa si recò al Palazzo ducale, mantenendo l'ordine di un corteo, accompagnata da un grosso numero di alti ufficiali di Stato, già podestà di Capodistria o capitani, o provveditori alla Sanità. Precedevano due trombettieri, ventisei staffieri, dieciotto camerieri con abiti neri di seta, quattro paggi, un coppiere, due cappellani. Il cav. Alvise Sagredo, vedendo la magnificenza dei costumi, disse che fòsse vanità l'andar mendicare dalla Francia bizzarria di divise, mentre dalla citta di Capodistria se ne poteva ricevere il più ben inteso esemplare. ') Che si amasse il ricco vestire provano vecchi inventari e una supplica del Comune di Capodistria al Senato con la data dei 13 ottobre 1343. — Fra altro si domandava: •che stante la triste condizione e la miseria (ausata dal lusso, si voglia decretare che nessuna donna abitante in Capodistria osi indossare abiti di velluto e di samito d'oro, nè la tunica con la (oda, nè possa arricchire detti abiti con ornamenti di perle, gemine, eccezione per le liste dorate, nè oro e argento sopra il valore di lire dicci di piccoli e non un soldo di più. Ed anche si chiuda un occhio per le asole d'argento 0 dorate intorno alle maniche e sul cappuccio della tunica e per gli spilli, se non passano le quattro Onde. E nessuna osi portare in testa nè in altra parte corone di gemme o gioie incastonale o perle o trezaria di perle o d'argento nè altro ornamento prezioso ad eccezione degli anelli d'oro, 0 di una gioia in testa, del valore di un ducato e degli St ropot i e della trezaria d'oro del valore di lire dieci di piccoli; anche permesso ') Ambaseieria della citta di Capodistria al doge Nicolo Sagredo. Dal libro Consigli /•'. /•'., pag. 38. Almanacco istriano, 1S64. Capodistria, presso Giuseppe Tondelli. se vogliono stringersi i fianchi con una cintura d'argento del peso di onde quindici: sotto pena di lire J5 di piccoli da dividersi per giusta metà tra il Comune di Giustinopoli e il debitore d) * Che Capodistria fosse città agiata dimostrano i quadri di valore eseguiti da autori celebrati, il suo palazzo pretorio, le ville e gli edifizi dei nobili. Sin dal 1400 si erano introdotti nelle case i cuoi d'oro. La piccola chiesetta di S. Pietro in Selve, presso Pisino, conserva ancora un' intera cappella con muri ricoperti di questa tappezzeria splendidissima.-) E se Pirano aveva la predilezione per i merlotti, che durò fino al nostro secolo, Capodistria nelle grandi solennità esponeva i suoi arazzi mantovani, ferraresi e fiamminghi. Un magnifico esemplare di questi tessuti artistici, ridotto a cencio, giaceva sino a poco fa abbandonato ai sorci nella soffitta del duomo. Chi ha seguito quella razzia di anticaglie fatta dai mercanti girovaghi in tutta l'Istria, e specialmente nelle citt.à a mare, può avere un'idea della costosa mobiglia e degli arredi preziosi che facevano parte del cospicuo corredo delle famiglie. Stipetti di ferro, in purissimo carattere gotico, cofanetti di avorio del XIV secolo, acquamanile di bronzo, maioliche faentine e pesaresi, vasi dei più noti maestri boccalari, sedie e cornici dello stile detto san-sovino con dorature, lettighe dipinte con la famosa lacca del XVIII secolo, armi di tutti i tempi, anfore incise, alari ') Comparsa in originale latino negli Atti e Memorie della « Società Istriana di Archeologia e Storia patria* fase. Ili e IV, pag. 292; in traduzione nella Provincia, anno XXII (1888), N. 18. 2) I cuoi d'oro per coprire pareti, seggiole, e co' quali si facevano paliotli d'altare e pianete, venhano "lavorati a Venezia, che andava celebre pei questa Stupenda manifattura, e la mandava in Levante e persino in Ispagna, dove pur si doravano le pelli. L'arte cuoridora contava nei bei tempi in Venezia settanta botteghe. La okntiuioxna DELL' Istria <)■> di bronzo con figure, piatti d'argento cesellati, stoffe che cominciavano coi broccatelli e finivano coi sopraricci giardinetto e a fondo d' oro, pergamene miniate, strumenti musicali con lavori di tarsia, capi da museo e da collezione sparirono per sempre dalla Provincia; ma, registrati nei cataloghi delle raccolte, fanno testimonianza del gusto e della civiltà de' nostri antenati. Sono interessanti i picchiotti (battitoi) di bronzo sui portoni del Tacco, Borisi e del lìdio; superiore per buona composizione, il primo accenna il passaggio verso il barocco, mentre gli altri due sono esemplari dello stile sansovinesco continuato dagl'imitatori nelle meno felici tradizioni. In tutte le case istriane si vedono quegli antichi pavimenti di terrazzo, che un insigne: scrittore d'arte edificativa asserì che, se ora si conoscono fuori, avvenne perchè, solo le province venete conservarono codesta reliquia dell'Italia antica. A Venezia c'erano i lanosi tcntori istriani, e epici gradiscala che esercitavano l'arte della lana lasciando il nomò di Gradisca ad un gruppo di fabricati a S. Alvise e S. Giacomo dell'Orio. Là storia degli schiavi, illustrata dal Cibrario e dal nostro Zamboni, è forse una delle pagine più curiose e manifesta a quale eccesso giungessero i voluttuosi costumi importati dall'Oriente. Il commercio di giovanetti e fanciulle va dal X al XVI secolo. Si vendevano al puhlico incanto, a S. Giorgio di Venezia, Tartari, Saraceni, Mingreliani, Greci e Circasse. Venivano per solito tutti battezzati. «Le schiave dovevano talvolta servire di nutrici, giacche in alcuni strumenti da compra-vendita si cedimo schiave col proprio latte.»1) Nonostante il trattamento mite, gli schiavi si ribellavano o fuggivano e vi erano leggi severissime per punirli, Noi dobbiamo inferire, che anche a Capodistria penetrò questo lusso della carne umana mercanteggiata, inquantochò nei documenti della Ouarantia criminale del 1370, 27 novembre, si legge il seguente fatto : «Il vescovo di Capodistra, Domenici) Gaflaro, è (masi scannato nel sonno, e derubato da Giovanili, suo schiavo. La sentenza suona: sia tradotto per acqua fino a S. Croce, mentre un banditole gridi di continuo il suo delitto, ed ordina gli si tagli la destra e gli venga appesa al collo, gli si strappi carne in quattro siti dalle guaneie e dalle braccia, gli si tolga carne dalle cosce e dal petto, poi si ammazzi, si squarti, e i quarti si appendine a due forche in mezzo alle due colonne, indi alle solite forche dove riuniranno di continuo.»-) * * * Kcco dunque che non solo si trasportano da Venezia consorterie di arti e mestieri, feste publiche, architettura, mode, gusto letterario ed accademie, ma anche i difetti, gli offuscamenti morali, le mollezze e le barbare costumanze, e sino il sordo e ingiusto livore contro quella nobiltà che aveva la virtù di servire il paese nei piti augusti e nei più umili uffici, e nella (piale il popolo doveva con orgoglio ') P. G. Molmentì. La Storia di Venezia nella vita privata, pag. 2S0; reggasi pure il doc. II circa gli schiavi passati per 1' Istria, pag. 5X5-586. Roux e Favate, l'orino 1885. J) Bartolomeo Cecchetti. La donna nel medioevo a Venezia, pag. 60. ravvisare forse la miglior parte di sè stesso. E come sotto la reggia ducale, cos'i a piedi della scala del palazzo della Ragione a Capodistria, l'odio contro le classi maggiori passò talvolta ad eccessi brutali e condanncvoli. Chi erano quei gentiluomini capodistriani in lunga toga nera o paonazza, con le grandi zazzere, le berrette tonde e la stola? quelle dame con gli abiti di stoffa di Persia, le maniche a scudo catalano, i capelli arrossati, le gorgiere di merletti leggeri come la spuma? quei giovani coi giubbcrelli corti di velluto nero, gli sgonfi gialli, le calze a strisce, le scarpe a punta, la chioma a frangia sulla fronte e cadente giù per le spalle ? Erano i Gravisi, che piangevano uno dei loro trucidato dagli Uscocchi, i Gravisi per due secoli dedicati all'arte ed alle venture della guerra e ch'ebbero un vescovo, un legista, oratore per la patria, uno scolopio arbitro, assai destro, per la curia romana alle corti straniere, e un principe del collegio Saveriano di Bologna, e Nicolò creato cavaliere di S. Marco per fatti egregi, e Giulio morto sul ponte della galera a Lepanto; erano i Verzi, tutti uomini d'arme; i Tarsia, dei quali Giacomo, conte palatino del sacro romano impero, morì ferito in Turchia; erano gli Appolonio, che conservavano la bandiera strappata da Lorenzo ai nemici durante gli assedi di Padova e di Treviso; erano i Tacco, che vantavano le spoglie tolte da Gian Domenico alla battaglia di Lepanto;1) i Borisi, che tenevano posto di autorità in Albania e de' quali Vittore morì all'assedio di Padova. ') Àncora ai tempi del vescovo Naldini (lfi86) ammiravasi nella chiesa dei .Servi lo stendardo preso dal Tacco ad una capitana turchesca. Il giorno di S.ta Giustina, anniversario della battaglia di Lepanto, le autorità ecclesiastiche e civili convenivano per assistere a solenne funzione religiosa nella chiesa di S. Vito e Modesto, dove si recavano professionalmente c con pompa. (Alti del Vescovato di Capodistria, manoscritto conservato nella Cancelleria vescovile di Trieste.) G. Vatova. La Colonna di Sonia Giustina eretta dai Capodistriani ad onore del loro podestà Andrea Giustinian ed a ricordo della vittoria di Lepanto, ecc. ecc. Capodistria, tip Priora, 1S87. Erano i Gavardo, che si segnalarono nelle guerre in Toscana, a Crema, a Brescia, a Ferrara, a Milano, e contro gli Uscocčhi ed i Turchi; i Gavardo, che contavano una schiera di intrepidi soldati nella propria famiglia, fra cui quel soprac-comito ili una galera che piantò primo nella mischia lo stendardo sulla rocca di Candia. ') Santo Gavardo, quando alla corte di Ladislao, re di Napoli, Rossetto di Capua lo chiamò barbaro istriano e non italiano d'Istria, sfidò il capitano a battersi davanti alla corte e lo smentì col coraggio. Il monarca premiò il Gavardo e volle aggiungesse nella sua insegna una lingua infocata tra due freni. ') Questo Santo Gavardo trovavasi con Muggia nell'impresa di Trieste ed occupò Castèlnuovo, Moccò e S. Servolo, rimasti ai Veneti dopo la pace invocata dal Piccolòmini, già vescovo tergestino, allora papa. ( Mi.isi tutta dunque forte nobiltà della spada, che nei molti nomi impersonava le azioni decisive, le imprese arrischiate della Republica. E la sorpassano quegli illustri che diedero a Capo-distria il diritto di chiamarsi madre di grandi italiani, madre di alti ingegni in arte e in letteratura, che ingrossano la serie di (pianti giovarono Venezia a conquistare il suo primato di civiltà. Primo Vettor Carpaccio, il dipintore che Vasari pone a capo della scuola veneta del quattrocento e sulle cui opere verdeggia lauro immortale; quindi Santorio Santoro, medico di tanta scienza, che la sua fama si estende in ogni dove. Per lui, che diede egregie prove di se nella peste del 1630, :l) il Collegio medico di Venezia decreta che ne ') Sopvaeeoinito «li Galea corrispondeva al grado di capitano, ina era lindo onorifico. Contarmi, nel Compendio universale (tetta Republica, accenna a certe dignità speciali : * Aggiungi, scrive, diversi offici di mollo utile et honore assignati alla cittadinanza, tome Gran Cancelliere in Candia, Castellali a Crema et altri diversi.... Che più? Sopracomiti di Calca in tempo di guerra.» 2) Pietro Stancovich. Op. cit., pag. JOS Hj Cicogna, fscr. ven., vol. I, pag. 50. vengano celebrate annualmente le lodi e si trasmetta ai posteri la grandezza del nome suo; a lui, molti fisici, fra i (piali il Biot, attribuiscono l'invenzione del termometro. 1'". a tacer d'altri, ebbe fama europea il conte Gian Rinaldo Carli, uomo di Slato, economista, archeologo, onorato quale uno dei più dotti della età sua. Dice di lui il BoSsi : Converrebbe essere universale ed eccellente in tutto pei poter trattare sapientemente delle fatiche e dei meriti letterari di un erudito, che fosse ad un tempo tisico, matematico, poeta, storilo, filologo, antiquario, diplomatico, politico, medito, filosofo ed elegante scrittore in tutti' queste materie. ') Ai nobili di nascita, d'ingegno, di valore, si legano gli spiriti forti delle eontroversie, i caratteri singolari che fecero risuonare il mondo del nome loro e della citta (dilli vide nascere: fra questi Pier Paolo Vergerio e Gerolamo Muzio. Pier Paolo Vergerio, il celebre vescovo apostata, pronipote del famoso letterato omonimo,2) viveva con la moglie Diami Contarmi una quieta esistenza ; rimasto vedovo abbraccio il sacerdozio; riconosciutone l'ingegno, gli si affidarono carichi importanti dalla Santa Sede e venne nominato segretario apostolico, quindi spedito nunzio a Vienna eri in Germania, dove più volte trattò coi Protestanti, e specialmente con Lutero. Tornato, trovo armate tutte le gelosie ') Elogio storico tic! conti covimendatore Gian Rinaldo Carli. Venezia, Carlo l'alese, 1797- Di Gian «inalilo Carli non si è ancora Scritta la biografìa con piena verità. Apologisti e denigratori ingrandirono ed abbassarono l'uomo puhlico e privato. Tra le più rcjenti opere che trattano correttamente di lui, leggasi quella di Alberto Errerà, Storia dell Economia politica; Venezia, tip, C Au-tonelli, 1877. *\ Detto il Seniore; parlarono con alta lode di lui Facio, Enea Silvio i'iccolomini, Bayle, Giovio, Niceron, Muratori, Apostolo Zeno, Tirabos:hi, Gìngoené, Fleury, Didot e sopra tutti Carlo Combi, ecc. e^c. dei prelati ed invece del cappello cardinalizio, che venne dato a molti che lo precedettero in quella legazione, fu mandato vescovo a Modrussa, piccola chiesa, e trasferito poi al seggio vescovile di Capodistria, mentr'egli ambiva quello di Trieste. Uomo di spirito indipendente e libero, mal tollerando certe pratiche superstiziose e certi abusi che offendevano il vero sentimento religioso, si attirò non pochi nemici; dei provvedimenti che gli crebbero avversari va notata pure la separazione tla lui voluta dei frati minori tli S. Francesco dalle monache di S.I:| Chiara, ordinando venisse aperta una via tra i dtie monasteri Quasi tutta la famiglia dei religiosi regolari si schierò contro il Vergerlo e lo accusò di partecipare alle nuove dottrine che venivano propagate in Germania. 1 suoi concittadini Girolamo Muzio, il canonico Annibale Giasoni, e monsignor Fdio, suo parente, segretario del papa, vanno annoverati tra i suoi più accaniti denunziatola. Ad essi si aggiunse monsignor Della Casa, autore del Galateo e del Forno, nunzio pontificio a Venezia, il quale riuscì ad ottenere dalla Republica la permissione d'istituirgli un processo, e mando gli sbirri a perquisire il vescovato. Da prima denunzia secreta venne gettata nella bocca del Leone, sotto l'atrio di Piazza, da frate Bonaventura Jeronimi dei Minori Osservanti di Sant'Anna, al 13 di dicembre del 1544. Benché non venisse mai convinto d'eresia, il Vergerlo non cessò dall'esser fatto segno a ripetuti attacchi e nuove accuse; e niente gli giovarono i molti e validi argomenti di difesa e l'appoggio di ragguardevoli personaggi. Deposto, si ritirò nella Valtellina, rifugio dei protestanti, e dettò molti libri in favore della Riforma, ma mni aderendo in tutto ai principi predicati da Lutero, riuscì punto beneviso ai Riformatori. Nel 1565 morì in Tubinga, dove una vigna porta ancora il suo nome, e lasciò una lunga serie di opere che palesano l'ingegno inquieto e turbolento del polemista. Gerolamo Muzio sì segnalò nel XVI secolo per estensione più che per profondità di sapere; volle conoscere e toccò tutto: fu poeta, controvcrsista, filosofo, teologo, diplomatico acuto, spadaccino, dotto nelle discipline cavalleresche, difensore del cattolicismo contro la propaganda e gli attacchi della Riforma. Condusse vita vagabonda, avventuriera, al servizio di potenti. Sono anche noti i suoi amori con la celebre poetessa e cortigiana Tullia d'Aragona, a cui dedicò rime e canzoni, alla maniera petrarchesca. Torquato Tasso, tredicenne, l'ebbe a maestro alla corte di Guido-baldo della Rovere duca di Urbino. Giuseppe Sacchi, nella vita di Torquato Tasso, premessa alla Gerusalemme liberata, narra che il Muzio stava scrivendo un poema eroico sulla //istoria delio recuperazioite di 1 liei itsalcm fatta da Gotti/redo Buglioni e da altri cavalieri, ma appena seppe dal giovine Bolognetti, amico del Tasso, che questi attendeva pure ad un poema sullo stesso argomento, ristette dal lavoro e scrisse in una lettera queste memorande parole : «Che il Tasso giovine abbia tolta quella impresa, io non sapeva nulla. Egli ha buono spirito e buono stile, e se altre parti risponderanno alle prime, egli solo ha preso soggetto da farsi oni ire. » Dopo la morte di Pio V, che al pari di l'io IV lo aveva protetto, venne pietosamente accolto da Lodovico (.'apponi nella ricca villa, la Panaretta, tra Firenze e Siena, dove morì ti'anni Si. Fu giudicato giustamente da chi scrisse che il Muzio andò con //// piede in staffa cavalcando dì citta in città per /' Europa al servizio d'illustri personaggi, principi, imperato) i e pontifici, lottando sempre con una fortuna avversa. A questi originali intelletti, travolti nelle vicende di una vita agitata, si unisce, a lustro di Capotlistria, una lunga schiera di letterati, tli filosofi, giuristi, maestri d'arte oratoria, professori, archeologhi, ed i due pittori Trevisani, il più valente dei quali, Francesco, lasciò opere a Forlì nella galleria Albiccini, a Roma nel palazzo Spada e nelle chiese, quindi a Bologna, Camerino e Perugia. Lavorò una parte della cupola del duomo di Urbino, eseguì parecchie tele per Pietro il Grande di Russia. Ilo veduto due ilei suoi quadri al Louvre, uno a S. Rocco di Venezia ed uno nel duomo di Chioggia. ') * * * Nessuno ancora ha fatto ampie e profonde ricerche nell' archivio di Capodistria, il quale purtroppo presenta grandi lacune; ma chi scriverà la storia della Gentildonna dell'Istria oltre a quei documenti dovrà consultare gli epistolari del Carli e dei Gravisi, i manoscritti privati e le biblioteche delle chiese e dei conventi e dovrà tener conto delle reliquie artistiche. Non si e collocato un busto senza una ragione, senza una festa; non si e murato uno stemma senza proposito di onoranza. Da per tutto battendo un sasso vien fuori la scintilla della vita dall'epoca romana sino ai tempi in cui si distrussero i marmi e si reco oltraggio alle più belle memorie. Si dovrà dire di quelle solennità maestose, in cui la piazza echeggiava per gli applausi del popolo, e dalla scala del palazzo della Ragione scendevano i Grandi della Republica, ') Nacque nel ■ G5(j ; morì nel 174U in Roma. Lasciò quadri, a \lo:i:uo: Caduta degli angeli ribelli; a Roma: // profeta Barar, tavole ed affreschi ; a Firenze: La vergine ed il bambino ; Sogno di S. Giuseppe; a Pietroburgo : S.ta Maria Maddalena; a Madrid: medesimo soggeUo ; a Dresda! Massacro degli Innocenti, Riparo in Egitto, S. Antonio, Morte di S. Iranreseo, Gesù siili'Oliveta, S'aera famiglia; a Parigi: Gesù dormente, l'ergine eoi bambino; a Vienna : Cristo morto pianti' dagli angeli. Un suo quadro all'asta della galleria Heinel2-I 4 7 l ). Il Castaldi venne coadiuvato nella impresa dai giustinopolitani Sardo Brati e Francesco ( insorti.»1) Nelle Memorie saere e profane di Prospero Petronio, publicate dal vescovo Naldini, vi ha un documento manoscritto con la data del 1 |r>i, del vescovo Gabrielli, firmato in presenza e con l'attestazione del dr. rrìagìstro Panfilo Castaldi, salariato dalla citta di Giustiiiopoli, di Francesco ( irisoni e di Sardo Brati. Cesare Cantù publicò nella Perseveranza del [880 una lettera, che provando come il Castaldi fosse medico, e non giureconsulto e poeta, in pari tempo metteva fuor di ogni dùbbio che già nel 1472 esercitava in Milano l'arte tipografica. Nel 1881 i giornali publicarono un decreto col quale il duca di Milano, nello istesso anno 1472, concedeva al Castaldi di trasportare la sua stamperia in Venezia, senza alcun pagamento de da/// e ciò perchè e ri/naso contento de rctornarsene a Vtnetia. Non so «pianto valore possano avere tutti questi dati nella inestricabile contesa. La tradizione capodistliana porrebbe le stampe del Castaldi nel periodo 1440-50, prima dunque che Gutem-berg stampasse la Bibbia detta utazarina, e prima che i maestri tedeschi di Subiaco stampassero le opere di Lattanzio; il documento milanese del Cantù ei fa trovare il ') Questa memoria venne publicata ed illustrata da Tomaso Luciani nel giornale La Provincia, del IO agosto 1S84. CAPODISTRIA — PAOI.AXI. Castaldi in Milano nel 1472, ed il decreto del governo ducale c'informa che desiderava ritornare a Venezia. Potrebbe darsi adunque che da Capodistria passasse nella città delle lagune con la sua invenzione. Ma prima o demo il 1469, in cui Giovanni da Spira v'introdusse l'arte tipografica? Ecco in ogni caso un nuovo nodo fatto per vieppiù arruffar la questione. ') Capodistria è una città tranquilla; a qualche ora nei lunghi giorni d'estate spoglia affatto di abitanti, mentre le strade che la congiungono con la terra ferma sono gremite di cavalli, tli bovi, di muli, di asinelH, di carrette, e le contadine sulano agli orli delle gore, tra le ondate di polvere che il bestiame e le ruote sollevano dalla strada bianca e ardente. Serrata in giro dal mare, ai fianchi di quella stretta lingua che la unisce al paesaggio campestre, l'acqua nei quadri delle saline sembra che stagni in una limpidezza cosi pura, tla riflettere netto, levigato, il cobalto tlel cielo e le nuvole che passano come candidi pennacchioni. L'anfiteatro fresco, ridente, monta con poggi e colli sino allo scaglione delle Alpi Giulie; ed è tutta una vegetazione rigogliosa di ortaglie, di gelsi e di legna; una coltura ricca e grassa di basse verzure tra i frutti, e lontano una distesa e saliente tinta di un cupo verdone che tappezza i terreni montanini, ombrati dalle grosse querce. ') Aggiungo che 1" Schiaparelli, nel Manuale di Storia dei Medioevo, a pag. 185, circa la invenzione ilei Castaldi scrive: « Le prove principali ilei fatto trovansi nel libro VI del Cambrn/./.i, di cui riportiamo le genuine parole colla slessa ortografia: *A questo tempo (1456) fiorì Panfilo Castaldi « dottore e poeta Feltrino, quale ritrovò l'inventione della slampa de' libri, * arte la più nobile e degna di quante mai fossero ritrovate al mondo dal «quale havendola appresa fausto Comesburgo clic habitava in Feltre nella * di lui casa per imparare l'idioma italiano la trasportò in Germania ed cserci- * tandola in Magonza si acquistò in appresso alcuni titoli di primo inventore...» Verso sera per quella strada rientrano i pavolani ') o popolani." una classe di agricoltori che non si riscontra fuori d'Istria. Si distinguono unicamente per la forma diversa del lavoro, ma sono cittadini, che oggi vangano, seminano o vendemmiano, e domani, con la camicia fresca, gli abiti festivi, esercitano le funzioni e i diritti più sacri della loro patria. Nò l'interesse che deriva dalla presenza continua sui campi, uè la economia tli una fatica spesa quotidianamente, dovendo camminare o cavalcare qualche ora prima di giungere alle loro terre, ha mai strappato uno solo all'orgoglio, che è in tutti, di voler vivere iti una casuccia proprio nel cuore della città, in mezzo al consorzio degli artigiani e dei nobili, sotto la protezione di S. Nazario, che festeggiano il 19 di giugno, coprendo il selciato e profumando le strade con la ginestra gialla e con la lavanda delle processioni. In un angolo remoto, che guarda la valle del Risano, si annidano duecento famiglie tli pescatori. E il più rumoroso dei quartieri, il più sporco ed il più povero. Tuttavia vi sono dei vecchi che non lo hanno mai abbandonato e che si vantano di non aver ancora veduta la piazza del duomo. Un altare ili legno sulla strada raccoglie al rosario in certi giorni la vivace e turbolenta popolazione, che forse ') Mentre alcuni giustificano la parola paviani come una corruzione di popolani, Andrea Tomasich, uell1Elenco delle famiglie Capodistriane parenti, amiche ed avverse dtl vescovo /'• /' Vergerlo, la vorrebbe derivata dalla famiglia Paolan, estinta nel secolo scorso. «Esercitando alcuni di questa famiglia la professione d'agricoltori e servendo, secondo le tradizioni e le memorie inedite del minorità Cargnati, di trastullo agli agricoltori qui dimoranti che li berteggiavano con la parola Paolan; questi per rappresaglia rispondevano : Siete paolani come noi, esercitate la nostra professione, quindi siete pavolani. Tali scene terminavano con l'appellarsi ambe le partì paviani. Gli agricoltori vennero dal territorio ad abitare la città nei secoli XV e XVT. Il prefetto Calafati aveva manifestato nel 1S0S il suo intendimento di allontanare i paviani dalla citta e di confinarli nelle campagne.» Chiamato a Trieste non potò effettuare il disegno. *■ Un amico mi suggerisce che la voce pavolani potrebbe avere qualche attinenza con la voce latina pabulum e che i pavolani sarebbero stati i pascola tori. ignora come quella corona di preghiere ricordi la vittoria di Lepanto, e ripete con un canto dolcissimo le ora/ioni. Vedete in quel momento la folla inginocchiata; gli uomini in maniche di camicia, le giovani madri col seno scoperto che allattano davanti la Madonna gì' ignudi bambini. Capodistria ha dm- aspetti che si fondono insieme e da cui ritrai- la originalità che la distingue: è marinara e campagnola nel tempo stesso. Oliando l'alba sorgi' spandendo una perlagione brillante, alcune barche si staccano dal porto cariche di frutta: sembra il corteggio isolano che va a fornire i banchetti suntuosi di Paolo Veronese. Le persiche violette, lanugginose, fredde, le prugne con la polvere livida, i fichi con la gemma di miele, empiono le corbe frangiate di foglie ancora sporche di terriccio. Una peata scorre lenta, e s'accosta alla riva, senza susurro, accompagnata dal solo fruscio dei remi, sommersa sotto il peso dell'alta catasta di erba fresca tra cui rosseggiano i papaveri ancora vivi ; i contadini dormono sdraiati su quel letto morbido, con i rastrelli in asta. Il sole si annuncia con una piova di luce d'oro. Quella scena è' una poesia di Capodistria che nessuno ha scritto: la campagna in mare! VI. ISOLA DEI PESCATORI Una Ugge del 1740 contro i Chioggiotti — Il contrabbando — La riboia — Statuti contro Pirana — Vuccisione dell'ultimo podestà veneto — La città ~ Il mandracchio — Palazzo Bcsenghi degli Ughi — / merletti — Leggi suntuarie — La vita sulle strade — Gli squeri. Isola dei Pescatori T ULTIMO giorno del 1747, una torma di gente, dalla Spiaggia di un misero porto, guardava trepidante il mare senza orizzonte, che ingrossava sotto l'aria fosca e sconvolta, e veniva a frangersi sulla ghiaia, rigettando i rifiuti galleggianti. Nessuno curava la pioggia fredda, che le raffiche del brezzone buttavano sulla riva, sui sassi, sulle scarpate dei (divi, dove sorgevano gli scheletri anneriti degli alberi, le pergole secche, i cespugli asciutti e ridotti a sterponi da fuoco. Dietro alla gente, si apriva la città con la piazzetta e le casucce di pietre rugginose, accastellata sopra un largo scoglio, chiusa con mura e poche torri dalla parte di terra, riparo alle offese nemiche, ma esposta con la faccia a tutte le bufere dell'Adriatico. Aveva il suo piccolo cimitero alla spiaggia, con le croci rivolte verso il golfo. Il mal tempo veniva dalle paludi di Grado, con masse enormi di nubi, a guisa di fumane vaporose, radenti l'acqua. MAKI M'. [STRIANE Era chi un'ora che il mare aveva incominciato a gonfiarsi di sotto, e le ondate tonde, lunghe, si urtavano e si rimestavano senza direzione. I gabbiani riparavano tutti alle falde dei colli. II vento, fattosi crudo e veemente, rompeva a groppi sui grandi cavalloni che si travalcavano e li stroncava diffondendo la spuma nell'aria. Un lungo ululato aggiungeva orrore alla scena e dove la bufera pareva sfogasse tutti gì' impeti della lotta, apparivano ogni (piai tratto, fuor dal nebbione, alcune vele; ma non si potevano contare le barche: si mostravano all'improvviso sul collo alto delle onde, e sparivano trabalzate nel vuoto, tra due flutti. La gente aveva veduto una bandiera legata a nodo che chiamava soccorso. Quelli che con la mano si facevano visiera agli occhi, assicuravano di avere scòrto un bragozzo dibattersi e, come si dice nel gergo, gettarsi a testa bassa nell'uragano per tagliarlo, un altro a metter le vele in modo da fuggire davanti al vento e davanti alle onde. Ma nell'aria svolazzavano stracci bianchi e comparve sul fondo plumbeo, alla vista di tutti, un battello perso, sbattuto, con la manovra spiantata ed il cordame svolazzante. Allora si levò un grido: — I Chioggiotti, i Chioggiotti! Erano dunque là, a un miglio dalla costa. E perchè? Non era stata publicata il 17 settembre 1740 sulle scale di S. Marco e tli Rialto e nelle pescane, da Giacomo Ziani, comandador, la legge con cui si proibiva ai pescatori chioggiotti di pescare nelle acque dell'Istria, mentre si permetteva loro di salvarsi in quei porti soltanto quando vi lusserò portati dalle burrasche? Non avevano i Chioggiotti, dopo quel divieto, fatto dichiarazione che in caso di uragani avrebbero preferito perire, piuttosto di chiedere ospitalità e soccorso ai paesi della riviera istriana? isor.A ma PESCATOtU iU Eppure erano barche pellestrinotte e eli Chioggia quelle che si videro giungere di conserva ad Isola quando la burrasca quietò.1) Su quel lembo di terra s'era allora adunata tutta la popolazione. Una delle tartane trascinava a rimorchio un battello vuoto, col moncone dell'albero fulminato, col fasciame rotto, e l'acqua impozzata sino all'orlo della boccaporta. Il più vecchio dei Chioggiotti scese a terra: era un cencio bagnato, le sue vesti inzuppate colavano. Si rivolse alla folla silenziosa e disse con voce bassa e stanca: — Ci hanno proibito di pescare il pesce alla vostra costa, ma non la gente che sta per annegare. Ne abbiamo salvati tre dei vostri, uno purtroppo è perito. Il momento era straziante; il piovasco rigido tempestava sempre, più mite, ma insistente. Erano donne e fanciulli che chiamavano il morto. Non si vedevano le lagrime sui visi bagnati: urlava il dolore. Tirarono l'annegato, trascinandolo per i ciottoli, sulla riva: pareva un sacco d'acqua. Nessuno osava accostarsi, metteva orrore, solo il mare torvo, come un serpe, allungò un'onda e coprì con la sua bava il cadavere. La mattina seguente, le tartane chioggiotte, messe le vele a bandiera per asciugarle, acceso il fuoco nei fornelletti, abbandonarono il porto. ') Durarono lungamente i conflitti tra gl'Istriani ed i Chioggiotti per ragioni di pesca ; ciò prova che le ostilità e le violenze degl' Isolani contro i pescatori di Chioggia, che si rinnovarono anche ai nostri tempi, hanno origine antica e partono unicamente da un senso di egoismo: è il vero giudi/io che determina la causa delle gelosie. Del res'.o, tra la gente di Cit-tanova, l'arenzo e Rovigno si prolungarono le stesse contese per ragioni di pesca, Ciascheduna voleva serbato a sè il diritto del proprio mare. Dna legge sulla pesca, publicala il 17 settembre 1750, vietava ai Chiozzotti di pescar nelle acque dell'Istria, riservale ai pescatori della Provincia; un'altra legge-dei 18 febraio 1756, approvata l'anno seguente dal Senato, proibiva ai Chiog giotti la pesca nelle ncque tli Capodistria, con pena agl'inobbedienti della perdita della barca, delle reti, poi bando, prigione, corda e galera. La supciTicc del mari' era tutta cresposa e ili ini turchino che pareva smalto. Ila detto un poeta: «Lo spuntare del giorno ha una misteriosa grandezza che si compone di un resto di sogno e di un principio di pensiero.» E quei benefattori del mare partivano pieni di confidenza in se stessi, coi ricordi della giornata trascorsa tra i pericoli della morte e sorridendo al lavoro che dovevano riprendere. La vita marinara nella sua poesia è piena di agguati, come le melodie affascinanti e fatali delle sirene. Fuori, in alto mare, accesero la pipa e cantarono: Senu* zente da Chioza, pescami Che la sò vita se la passe i mare I' me/o a cento sturzie e baticuori Per davagnarse un puoco de magnare, Ni per questo envidiemo certi siori (li i se vede, test'alla, spasimare; ber ci, che mai de gnente 'i è cuontenti, Kl vivare l'è uu man1 de trumenti. No certo, nò vuóràve i pescaori Scambittre la sò vita co' ([liei siori. I versi della .Musa marinara volavano via per quel fondo d'immensa serenità invernale, e il sole illuminava sulla porta della città d'Isola lo stemma : una colomba col ramo di olivo. •X- * Ma la insegna cittadina mal rispondeva all'indole degli abitanti. Isola si dedicò a Venezia nel 1280, quando la Reptiblica veneta era un argine alla invadente feudalità tedesca. L'Istria marinara, che teneva in onore l'autonomia dei comuni, si votava a S. Marco perchè il Senato prometteva di non cangiare le leggi ; e tli fatto questo mantenne barche pescarecce. le promesse, rispettando i patti delle dedizioni, ') C'era nel carattere isolano una tenacità (piasi selvaggia; un senso di indisciplina verso il governo e di rivalità coi vicini. Onci gruppo di pescatori, rafforzato nel vivere duro, nelle inquietudini politiche, veniva tormentato dall'orgoglio e dalla grandezza dei vicini. Bruciava (piasi tra due fuochi : Capodistria, da una parte, accarezzata, andava illustrandosi nella storia ed aspirava al monopolio del commercio terrestre, mentre Tirano, dall'altra, inorgogliva per la resistenza contro ai Genovesi. Isola soffriva, perchè ristretta a vivere in quell'ombra che sopra lei gettavano queste due sorelle. Sino al 1200 non aveva acqua santa per i bambini e doveva mandare i neonati al battistero ili S. Xazario in Capodistria, per farli cristiani. Il vescovo di Trieste, Eriperto, il cui nome ricorda quello del prelato che benedi le bandiere della Lega lombarda, accordò finalmente ad Isola il diritto di una propria fonte battesimale. Gli statuti lasciavano al podestà ed alla cittadinanza l'amministrazione della libera e civile famiglia, ma bisognava mendicare con ricercatone e ambascerie il commercio dei grani, delle grasce e dei vini, perchè la Dominante non favoriva o meglio non curava lo sviluppo economico dannoso ai propri interessi. Isola divenne perciò un nido di contrabbandieri cosi valenti, che sgusciavano sotto lo spione dei galeoncini e portavano a Trieste, frodando il dazio, pesce marinato ed ') Venezia, da che aveva cominciato ad imperare sui mari ed a far rispettato il titolò di cittadini di S. Marco, inspirava così grande fiducia, così forte sicurezza che persino alcuni principi ambirono il titolo della sua protezione e chiesero di venir ascrilti alla cittadinanza, come Lodovico Gonzaga signore di Mantova, Az/.onc Visconti vicario generale di Milano, il duca d'Atene, Umberto II delfino di Vienna, Stefano imperatore dei ( ìreci ed Antonio della Scala signore di Verona, ecc. ecc. (P. G. Molmtnti. /.a Storia di Venezia nella vita privata, pag. 50.) A molti però ne incolse male, per esempio ai Carraresi di Padova, che pagarono cara la sommissione, MARINK IVj'RlAXF. olio. Per questo contrabbando si adoperavano piccoli legni, chiamati jisolcrc, rapide come t'uccello che vive nelle barene di Aquileia e di Mestre, donde avevano il nome. Rematori famosi, gl'Isolani sfidavano alle regate quei giovani che a forza di remi, da Venezia, come narra Defendente Sacchi, conducevano i gentiluomini a cacciare nei boschi istriani.1) Il canonico Tamar nelle sue Memorie dell'anno 1581 parlami:) d'Isola scrive: «Ha il territorio fertilissimo di vini, che in copia si fanno talmente buoni e dolci, che comprati da mercanti Todeschi, Cranzi e Ungheri, nauoni così chiamate, e portati con le some de cavalli in Allemagna, e paesi lontani sótto tramontana, vengono poi venduti, come si dice, un Kaines, ovvero un Talare il bicchiere; uè detto vino viene usato da altri che da signori, et uomini potenti e ricchi, e sogliono in dette parti, tirati dalla bontà de detti vini, dire, lacryma Christi, quare non fluisti in partibus nostris. Sono le donne di honestissima presenza et in fatti et in parole, e se bene da (cria semplice introduzione antica, attendono a far l'amore con loro innamorati, che con altro vernacolo parlare, si dice douiare, nondimeno il tutto passa con semplicità.» Monsignor Tamar aveva ragione tli lodare il vino d'Isola, la famosa riboia, celebre ai tempi del Boccaccio. I )a Monte bucino sino all'ultimo lembo della marina istriana, la vite ebbe rinomanza, ed il suo sugo prezioso passava i confini regionali e veniva ammesso all'onore delle tavole principesche; mutava e muta nome e gusto e colore, diventando vin doralo, o vermiglione, vin rosa, refosco, goccia d'oro, trebbiano, Coverà e vin re. Solo l'abate Cirillo chiamo il nostro l'rosecco, liquor grosso, piuttosto da zappa che da ') P. G Molmenti, nella Sforili ili l'i urilo urlio rilo privadi, scrive: * 1 nobili andavano a caccia in grande comitiva con molti servitori, non pttre nelle valli e nei piani del Trevisano, ma nelle campagne del Padovano, nei boschi del Vicentino e dell' Istria, » ISOLA DKl l'IX MOKI ,4, zuppa; per contrario, del Pucino fecero elogi l'umanista tedesco Corrado Celtes, ed Arborio di Gattinara, piemontese, gran cancelliere di Carlo V, e Andrea Contarmi veneziano.1) 11 vìn di Monte Moro e di Arzuoli, che cresce intorno al bel campanile guelfo di S. Nicolò d'Oltra, entrò in casa del duca Filippo Visconti e in ([nella della illustre famiglia latta; come il Cervera rallegrò un giorno le tavole reali di Bfus-sclles, ed il refosco i festevoli banchetti che si onorarono della presenza di Giosuè Carducci, di Pietro C'ossa, tli Edmondo De Amicis, di Paolo Ferrari, di Giuseppe Giacosa e tli Leopoldo Marenco. M •X- -X- Le contese e gli asti, che nel medioevo così lungamente durarono fra un luogo e l'altro, ad Isola trovavano forte e continuo alimento; c'era sempre della legna sul fuoco. La inimicizia senza misura contro Tirano, nata da differenze territoriali, s'inveleniva con le risse frequenti. Ciò dimostra che l'idea del Comune era nel sangue. Un sasso caduto da una parte o l'altra dei confini era motivo a provocazioni e rappresaglie, e la secchia rapita ai Bolognesi e la guerra con Modena ricordano troppo bene gli odi incessanti che rompevano in violènze, dovunque i municipi avevano incarnata nel popolo la propria indipendenza e la propria sovranità. I capitani inibivano di portare falciole e coltelli; Venezia rimproverava le rivalità disgraziate e fatali : Isola non curava gl'insegnamenti, sfidava gli avversari, e l'ira, trasmodando, dettava leggi ridicole. Gli statuti vietavano agli abitanti di vendere, impegnare, affittare e dare a mezzana terreni ai Tiranesi;-) e, peggio, non permetteva agli uomini di contrarre matrimonio con donne ') E. Pavani. La vi!:, appunti storici. Trieste, stal>. tip. (ì. Caprin, 1888. -') Legge esistente nello Statuto d'Isola del 1372; nel tempa del natile et sapiente homo Domine Nicolo Badoer honorando podestà della terra de Isola il dì cinque febraro, 1.12 M N KINI. [STRI \M di Pirano e viceversa. Cosicché, dice il canonico Tamar, «lauto angusto è il luoco e tanta la prossimità del sangue, che rare volte avviene che possi effettuarsi matrimonio alcuno senza la dispensa della Sede Santissima, Apostolica, Romana.» Naturalmente ripugnavano alle nozze con stretti congiunti e restava condannato alla Sterilità un buon numero di pulzellone ed ingrossava la cifra dei celibi, che a Natale venivano festeggiati, mentre si cercava, allora, di conchiudere matrimoni tra gente matura. Le donne ili .Sparta traevano al tempio in un dato giorno dell'anno gli uomini che non s'erano ammogliati e li schiaffeggiavano di santa ragione perchè non avessero a servire d'esempio. Ad Isola continuava pure un' usanza abbastanza spartana. La novizza si presentava davanti al parroco, e dopo le parole dello sposalizio, postole l'anello in dito, lo sposo, alla presenza de' parenti, degli amici e del popolo, le dava un bel bacione e poi uno schiaffo sonoro, in segno, dice un documento, della osservanza ch'essa deve tenere verso il marito, e per impegnarla forse a riceverne degli altri anche in avvenire! Isola restò fedele a Venezia sino all'ultima ora; quando fu decisa la sorte della Republica, il popolo, non prestando fede ai grandi fatti compiuti, credendo il podestà veneto, Nicola Pizzamano, complice, con alcuni maggiori cittadini, di un tradimento, lo uccise con un colpo di fucile, allorché fuggito dal Palazzo riparava in una via senza uscita e batteva alla porta di un amico. Mentre Napoleone detronizzava Lodovico Manin, ultimo doge, Isola uccideva l'ultimo suo rettore veneziano. * # Oggi non trovate più ad Isola il ponte a schiena di camello che univa la strada esterna con la città. Ogni leggera maretta portava un po' di sabbia e la deponeva, dimodoché si forme) un renaio fangoso e pian piano 1' acqua non fu più libera di girare attorno lo scoglio. isola lHI PESCATORI Quando rovinarono per vecchiezza le torri e le mura, il vomere giunse alle porte. Così la città vi sembra adesso da quella parte una campagnola quasi allegra per le sue strade coperte di pagliume, ingombrate dagli asinelli che si portano a casa una rastrellata di fieno, dagli agricoltori che battono e sgusciano liberamente la fava o che crivellano i piselli selvatici, da cui ricavano un caffè amaro ma a buon mercato. Si ravvisano subito le casupole villarecce, fatte di muro a secco, con la fogna scoperta che ammorba l'aria, e con un piccolo deposito di letame, mantenuto apposta per ingrassare nella sporcizia i pulcini e le anitre. Onesti tuguri conservano una rusticità primitiva, e sorgono proprio alla fossa esterna, (piasi casali di un villaggio, addossati al ceppo delle abitazioni cittadine. E dove si alzava l'antica porta si aprono davanti a chi arriva le due vie principali, come rughe a cento gambe, e si allungano e gettano ai lati i loro rami oscuri, con portici, volti e cavalcavia, che uniscono una casa con l'altra e rendono più cupi i chiassuoli bui e sudici del labirinto. Una delle arterie sbocca in piazza, dove fluisce la vita, dove la luce non ha più ingombri, dove la città interamente veneta spicca con palazzi di pietra, uno lombardesco dei nobili Manzuoli, con il bove scalpellato sulla fronte, l'altro ad arco acuto dei Lovisato, quindi la chiesa della Madonna ti'Alieto, e la casa del Comune, e il Mandracchio, e un fondo di ciclo libero sovra il piano tli una larga marina. Qui il mercato, le baracche con le frutta, che sono alveari di vespe, e che fanno di ogni bottega un moscaio; e qui il lavoro alla riva, sul porto, attorno la scuola di S. Andrea, che guarda con la sua facciata il fitto pergolato con le reti distese od affaldate a cortine. A tarila mattina, i pescatori seduti in cerchio rammendano le rezzòle, fissate su pali e distese come velari. Si aggruppano alle porte dei caffè, delle osterie e si servono delle aste rizzate per le tende a spiegare gli strascichi, 1 |(i MARINI', IS TRI ANI-! i 1 ungili e morbidi tessuti che scintillano con le squame dei pesci rimaste tra le maglie. Un'ora prima dei due crepuscoli, partono; si vedono salpare i cinquanta battelli un dopo l'altro. Ritornano (piasi tutti insieme, sbarcano allora presto presto i canestri di squille, di sogliole, tli passerini e di orate. VVlcune barche sembrano cariche di argento : guizza tutta la scala dei metalli, e le pescate tli polpi, di razze e di seppie spandono col sugo nero il fetore del muschio. Lentamente al meriggio il molo tli legno, la piazza maggiore si spopolano e restano quasi deserti. All'ombra di una tenda, di una casa, di un muro, dorme qualche vecchio col capo che gli cade sul petto e che rialza subito, avvezzo al sonno interrotto dal beccheggio della barca. Ma la città è piena di movimento; essa ha tutto il 1 carattere intimo dei paesotti lagunari, dove i puhlici luoghi servono ad usi privati, e ogni cadetta, ogni cortile è il soggettino di un quadro. V'internate nelle strade col lastrico a schiena tli testuggine, fra le abitazioni con scalette esterne e ballatoi di legno, e riuscite al duomo, isolato nell'alto piazzale, sopra un'ampia terrazza, tla cui si domina il panorama dei tetti che saltano giù da tutte le parti, e che formano dei pianerottoli di coppi, in giro, sino alla corona di spiaggia che l'onda bacia eternamente regalandole un vezzo di spuma. La casa dei Bcsenghi degli Ughi è la sola che fra tanti branchi di casuccc plebee abbia l'aria nobiliare. All'esterno una scaletta, come nelle ville palladiane, e le inferriate tli "» ferro battuto, in moda nel secolo di Luigi XIV; nell'interno tutto fatto per corrispondere alle esigenze ed ai Comodi di una ricca famiglia. I besenghi, congiunti degli Ughi, ricordati da Dante, si estinsero col poeta morto nel 1849 tn" colèra in Trieste e le cui ceneri andarono confuse in S.ta Anna. Ai Coppo, ai Contestai, ai Manzuoli, ai Tamaro, ai Goina, agli Ettore©, si legò il nome del lirico isolano, 1 pes* :at< >ri isolani. Isola DEI PEŠCATOkl >t<> che scrisse quasi il disgusto del mondo lo avesse costantemente tormentato. Larga intelligenza e gusto fine formavano il poeta gentile e forte, ma in pari tempo lo scettico che affilava bruscamente il taglio della satira. ') Il beli'edifi/.io, vuoto della mobiglia, va in rovina, le cassapanche nell'atrio sono tutu- lorde, ed i monelli regalarono un paio di mustacchi alle sirene dello stemma. Negli angoli delle travate i filati dei ragni pendono come grappoli di pipistrelli addormentati. La sala, con la bella galleria barocca, è abbandonata all' insulto continuo del tempo e dell'incuria, quasiché l'edificio non appartenesse a nessuno e fosse lasciato preda al vandalismo di tutti. Ridotto a scuola di merletti, s'anima di quel po' ili vita che vi portano le giovani allieve. Isola è il solo paese dove la lavorazione dei merletti continuò come un' orfana ricordanza, anche quando a Murano era cessata del tutto la gentile industria veneziana. E bisogna dire veneziana, inquantochè non v'ha più dubbio che Colbert carpì alla città delle lagune epici punto che venne ribattezzato col nome di Alcnam e da cui derivarono i pizzi e le blonde di Fiandra, di Lilla, di Courtray, e del quale s'informarono le produzioni meccaniche ilei telaio. I merletti si lavoravano a Venezia già nel XV secolo. «Essi compariscono, dice G. M. Urbani de Gheltof,'-') per la prima volta nei quadri del Carpaccio. » Dunque il nostro ') Accennai alla vita ed alla attività intellettuale del llescnghi nei Nostri Nonni; leggasi il volume di Oscar de Hassek che tratta dell'uomo e del poeta. Ho recentemente appreso che lo scrittore isolano aveva in pronto materiali ed abbozzi sulla storia del Patriarcato c del Friuli, che purtroppo andarono perduti come i preziosi appunti sulla storia della (Irecia moderna. -) Lts arte industriels à Venist au tnoyen àge et a la renaissance. Venezia, 1S85. MARINK ISTklA\K Vittore era il primo a riproilurli, forse perchè li aveva già veduti ornamento delle gentildonne capodistriane. Una leggenda gentile attribuisce la origine dei merletti alle città marinare. Un pilota tli ritorno da un lunghissimo viaggio aveva recato in dono alla sua fidanzata un ramo della pianta marina chiamata Ilaly media opitntia (Linneo). La fanciulla, meravigliata della bellezza ili quei piccoli rami, chiamati giustamente i merititi delle sirene, si provò ad imitarli con l'ago e trovò in questo modo il pnuto di Venezia, che destò l'ammirazione del mondo elegante. ') In Istria l'uso dei merletti si può fissarlo già nel XV secolo, prendendo a testimonianza i ritratti di nobildonne con abiti fregiati di ricchi pizzi d'oro e di filo. Allora la regina Anna, all'incoronazione di Riccardo III d'Inghilterra (1483), aveva fatta la sua comparsa con un mantello di drappo d'oro guarnito di merli in seta bianca e filo dorato. Dopo la caduta della Republica quella fine arte femminile scomparve affatto da Rurano, e rinàcque come scuola e lavoratorio nel 1S72 per opera della contessa Marcello e della principessa Chigi-Giovanelli. Una popolana buranese, certa Cernia Scarpai ioli, aveva conservato dei modelli imbastiti sopra carta e continuava nella solitudine della sua ca-succia a lavorare sul cilindro pieno di spilli e di fuselli.2) Posta a capo della scuola, essa ha, si può dire, fatto rivivere questa elegante industria femminile. Ad Isola, vuole la tradizione che si lavorasse continuamente; alcuni vecchi pescatori asseriscono che si eseguissero merletti al principio del secolo in molte famiglie, del pari che nella vicina Pirano, e la scuola non sarebbe che una risurrezione riordinata della fabricazione domestica che dava nomi vari ai punti, e li chiamava: a volto semplice, *) Palliser. Hìstoiy of Lace, London, 1S 7 5. *) Origina de la Denteile de Venite et l'e e ole itti poi ni de Ha rano en 1S7S. Vénise, imprimerle Antonelli, 1878. ISOLA — CASA DEI BESENGHI DEGLI UCIIIL ISOLA DEI PESCATORI |ej a volto doppio, ad osso di morto, a foglia d'olivo, reagitola, a scalpa ecc., nomi che non riscontrano riè con la recente riè con la vecchia nomenclatura veneziana. E i merletti furono compresi nelle leggi suntuarie, che bandivano le perle, le cinture d'argento, i ricami delle vesti e ogni costoso ornamento muliebre. A varie riprese tutti gli stati si accordarono nel voler domare la passione rovinosa del lusso, chiamato il flagello dissipatore delle sostanze famigliari; specie nel XVIII secolo seguì una lunga serie tli provvidenze. A Genova gì* inquisitori permettevano orecchini e vezzi di perle false, non tolleravano le vesti di colore in città e le guarnizioni ti'oro, determinavano la prammatica per equipaggi, servi e ponevano un freno ai conviti privati, I trasgressori puniti con multe pecuniarie, le donne condannate alla temporanea domestica relegazione, private delle visite, permesse soltanto quelle dei congiunti, ma se violassero le sentenze oltre la confiscazione delle robe, verrebbero tenute a continua vista da quattro soldati nelle proprie case e duplicazione della pena. Tu Austria si proscrivevano coi regolamenti tlel 1749 i drappi d'oro, le manifatture ed opere in argento, che si potrebbero far circolare, dice l'editto, con impiegarle in batter moneta. Vietate le dorature sui lavori di legno: cornici di quadri o di specchi. Nella Svezia l'editto del giugno [766 non permetteva « l'usi del caffè, del ciocolatte, del punch, nessun dessert a tavola, eccetto i frutti». Rigorosamente si puniva il fumar tabacco prima dei 21 anni, pervenuti ai quali occórreva il permesso del Magistrato alle taglie e bisognava pagare l'imposta annua di un tallero. Venezia non ebbe limite nell'allargare il codice suntuario. Colpì gli strascichi, le code, i merletti, estese tutti gli ordinamenti sovra te città e luoghi sudditi di terra e di mare}) ') Vittor Sjrdi. Principi di storia civile (ti Venetia dalla sua fondazione sino all'anno 1700. Venezia, Sebastiano Coletti, 1755. M VKINK IS IK I \Ni: Una terminazione voleva sopprimere le spese superflue che si fanno in adornamenti non necessari, come traverse, t'avari e maniche eoa straordinarii lavori di spesa che ascendi alla somma non pur di diesine ma centinaia di ducati.*) Un'altra terminazione limitava i pasti de nozze, il numero dei convitati. -) Già nel 1476 aveva tolto alle donne il portar zoje al collo, salvo una collana di 500 ducati, e anelli per 400 ducati; non grembiali con ricami d'oro, e vesti paonazze con maniche a cortellazzo, imperlade. E si dettò più tardi sino il modello della parrucca, che fu primo a portare il nobile veneziano Scipione Vinciguerra Collalto, nel 1668. I.a popolazione d'Isola è tutta sulle viuzze: le mamme giunge un rumore di pianelle di legno battute sulle cordonate tlel selciato tla una truppa di fanciulle che corrono coi secchi tli rame alla fontana. ') Deliberazione dei Provveditori niti' Pompe 2s Novembre 1616. 2j Terminatami degli III. Sopra pr&weditori et Provveditori alle Pompe in materia de Pasti de nozze, 21 genn. /S99- # pettinano i bambini, rammendano le vesti: si chiacchiera ad alta voce : cade una parola da una finestra e vien raccolta, e il vicinato fila il discorso, continua il racconto, e rompe in una chiassata senza che gli occhi si levino dal lavoro. ■ Sotto una nicchia di scala si prepara con un po' di pepe e di erbe il brodetto : una famiglia pranza all'aperto: scappa da un cortile una canzone e la segue l'accompagnamento di un coro, e [.sola nr.i PESCATORI 155 L'aria ha un odore di salamoia, e dalle case viene il tanfo della muffa delle botti, e la frescura del bucato che si fa nei portoni. Le vecchie hanno ancora le semplici pettinature veneziane, con le due rosette sotto le tempie, cioè i bezzi; portano gli orecchini di spuma d'oro, a ciocche, tempestati di perle, gli abiti turchini moschettati. E in fondo al Cantarano conservano il mania d'oro e lo scialle ranciato, coi fiori rossi, grandi come girasoli. Ricordano costantemente i bei tempi (piando, il giorno di S. Dona, facevano parte di quel mazzo di fanciulle, che ballava coi fazzoletti color fragola o limone, le scarpe di prunella, le calze rosse e il fiore sulle trecce dei capelli lucidi quanto l'ambra nera. Dal quartiere chiamato della Pena, si diffonde e trova eco nei muri rovinosi, sporchi di una grassa e lustra caligine, lo strepito dei piccoli cantieri in cui si costruiscono le barche o si carenano per calafatarle o si nettano dalla bruma cresciuta, e salgono le fiamme rosse dai fuochi delle canelle incatramate, tra le spirali di fumo negro e denso. Alle scogliere i fanciulli nuotano, si tuffano in mare, corvettano nudi e fanno le prime confidenze con l'infedele elemento, che riserba a loro chi sa quale stuolo lungo e triste di patimenti. Al tramonto la quiete: i più si coricano senza accendere il lume e incombe presto il silenzio gravi; della oscurità: non si vede più niente, ma solo nella tenebra lontana i fuochi dei pescatori notturni, alcuni lampanini vagolanti non si sa se nell' aria o sud' acqua. Isola ha intorno di sè sepolcri e reliquie di antichità romane; del suo medioevo conserva nel duomo un S. Sebastiano, capolavoro di Irene da Spilimbergo, allieva di Tiziano, srl e r. rv ifsninc. quindi la Madonna dei Battuti di l'alma il vecchio, ed un S. Giuseppe del Santa Croce. Il grande e fiero leone dalla facciata municipale guarda ancora l'avanzo del Fontico. Le famiglie dei nobili sono quasi tutte estinte; le sue scuole, dove poteva insegnare il greco nel scolo XVI Egidio Francesco, isolano, sono scomparse, e il codice della Divina Commedia, scritto in Isola negli ultimi anni del secolo XIV, ha fatto il viaggio sino a Parigi, dove si trova nella maggior biblioteca francese. Se però v'ingolfate in mezzo al pove-lìimc plebeo, vi ronzeranno intorno le voci grosse e sonore del veneto dialetto. La nazionalità, tramandata inviolabile, si estrinseca tutta e purissima nella poesia tli quella miseria. Allontanandovi da Isola, con l'impressione ritratta, dopo aver vissuto qualche giorno nella intimità della sua gente, voi salutandola le ripetete i versi tic! Vcnier: Sta pur cussi, che sta umiltà te iual/.a; Va povcrcta altiera. Cussi co i pie par tera, Che ti è più beiti quanto più ti è scalza! VII. LA S A LI NARO L A Le caste — Litigio per la campana dei morti — Importanza delle confraternite — Le roga/ioni urbane ed agrarie — La flotta dei Crociati — Arrivo del doge Morosità il Peloponnesiaco — Panorama della città — // vecchio palazzo pretorio — // duomo — Convento di S. Francesco — Carattere degli Istriani — Un aneddoto — Quartiere della Punta - La campana dell'acqua — Le cavane — La prima illuminazione — Tardili — Partenza per le saline — Siccioic e la cani/ingna. La Salinarola i^all'undecimo al sedicesimo secolo tutte le città italiane mantennero un ordinamento, clic senz'avere la severità delle caste tli alcuni popoli antichi, e la crudezza delle gilde germaniche, pure divideva non solo i nobili dal popolo, ma moltiplicava altre più artificiali differenze. Mentre le fraglie e le confraternite erano istituzioni per isminuzzare le cittadinanze in piccoli gruppi, che si amministravano separatamente, esistevano anche corporazioni rionali o per contrade con propria insegna e propria bandiera. Nel [483, quando Marin Sanudo si recò a Pirano, gli venne fatto di osservare sulla piazza i due stendardi tli Maržami e tli Punta, cioè dei due Corpi che formavano la città. 11 palazzo della l'odcstaria sorgeva sul terreno clic toccava l'uno e l'altro tlei due rioni.') Risulta chiaramente 'j Marin Sanudo. ftttietario dell'anno T48J. Un egregio istriano sostiene che le due aste servissero pet la bandiera di S. Giorgio, patrono del Comune, e per ].a Aveva il Comune acquistato una campana per gli uffici funebri, che venne collocata fuori del duomo, con la corda pendente sul publìCO piazzale. Siccome non si pagava alla cattedrale per epici funerali che andavano a S. Francesco, il pievano tirò sii la corda e proibì di sonar la campana. In fin dei conti, egli diceva, la campana è del Comune, ma la corda è nostra e l'abbiamo in mano noi; se il morto non paga andrà sotterra senza l'annunzio, e vengano a darglielo i signori se sono capaci. Nacque asprissima contesa tra il Consiglio ed il Capìtolo, e questi, indispettitosi, chiuse addirittura il duomo ; senonchè il Consiglio gl'interdisse la legna, eli proibì di confabulare coi cittadini e non permise si lavorassero le campagne del clero onde andassero tutte in erba da pascolo. Il Comune ebbe per sè i due quartieri e le corpora-zioni ; protestò, ma il principe veneto fece aprire il duomo ed ordinò di suonar a morto ogni qualvolta venisse fatta richiesta. ') Quando nel medioevo i cittadini andavano armati, le contese finivano nel sangue. 11 governo veneto vi portò rimedio, e nel 1307 «proibì di portar armi ed armature sia di giorno, che di notte-, (piali corazze, cappelli di ferro, bracciali, Spade, coltelli, mazze, roncoli, dardi, lance, clave di piombo ed ascie ; e vietò di mettersi sopra le torri delle proprie case per far ribellione e tenere divisa la città».2) I*] degno di considerazione il fatto, che tanto il culto religioso in Istria (pianto il carattere delle fraglie e confraternite era informato alla natura del paese, alla nazionalità della chiesa. Non riti, non feste, non santi forestieri. E le scuole o fraterne coi loro distintivi, bandiere, solennità e banchetti prendevano il posto di società di soccorso, di perfezionamento morale, di beneficenza, e talvolta, per (pianto permettessero q P. Kandler. L'Istria, anno V-YI, pag. 94. ■j Prof. Morteani Luigi. Aotizie sturi,tic della ritta di Pirana. Archeo-graf.., Triestino vol. \ll, XIII e XIV. i tempi, si mutavano in circoli politici, in cui, legalmente o rio, SÌ discuteva d'interessi cittadini e di questioni che andavano anche più in la del distretto e del mare,1) Nello scorso secolo Pirano contava trentacinque scuole e fraterne.-) L'importanza che il governo dava a queste consorterie si può dedurla dalla processione delle arti che duro in Venezia sino al 1750, i cui costumi si trovano in un codice conservato al museo Correr. Nel citato codice si vedono i gastaldi dei fruttatoli vestiti alla Spagnola. Sagredo determina bene i motivi che spingevano la Republica a proteggere le fraglie. « Al popolo, egli dice, volevasi lasciare alcune, non pericolose, immagini del governare sè stess;> in tante piccole republichettc. Così ave vano sfogo le menti e gli animi dei popolani. » Anche le rogazioni a Pirano erano doppie: le urbane che scendevano pompose dalla Cattedrale, accompagnate dal gariglione ci i tutti i campanili, magnifiche per lusso di arredi e per il concorsi) dei molti ordini cittadini, e le agrarie) che con diritto ristretto potevano, una volta ogni anno, partire dal porto ed entrare per il canale delle saline: commoventi nella semplicità della poesia onde si contornavano. Usciva la processione agraria dalla bocca del man-dracchio, fra le due torri che lo serravano. Scivolava primo un legno leggero, col crocefisso piantato a prora, sotto a cui la gente inginocchiata formava uno screziato piedestallo; i rematori all'estremo elevarsi della poppa assorgevano con le tuniche di un azzurro sbiadito. Seguivano le faste, una dopo l'altra, senza rompere l'ordine, da parer legate insieme, e sull'albero ondeggiavano i gonfaloni, circondati dalle torce gocciolanti nell'acqua la cera ardente; venivano quindi ') Tommaso Luciani. Prospetto delle scuole laiche dell' Istria, ecc. La Prevrneta, anno VI, 1S72, pag. 105. *) Le confraternite istriane, all' epoca della soppressione del 1806, erano (dire seicento. (C. De Franceschi. P Istria, note storiche; pag, 4(15. l'arcu/.o, tip. ti, Coaoa, 1879.) La salinarola ,^ le barche falcate con le oranti in zendado bianco, e gli ortolani in vestoni violacei e la Fraglia de' Battuti*) con la Madonna sul pennone- di porpora; per ultimo la peota dei fanciulli, in camici bianchi, l'officiante col piviale di scaglia d'oro; la musica di zampogne e di sambuche. La povertà rendeva solenne la cerimonia. Non suonavano che i bronzi minori delle piccole chiesette; squillava il martellamento leggero anche sui colli lontani nella deserta dislesa delle campagne, dove la processione appariva lontana lontana, come una striscia policroma sul fondo color vetro dell'aria e dell'acqua. Ma da vicino lo spettacolo commoveva: le barche erano tutte coperte di fiori; trecce di fresco fogliame s'attortigliavano agli alberi; ghirlande di rose accerchiavano le croci e i candelabri d'argento e scendevano festoni vagabondi sul mare piatto, che abbarbagliava coi ridessi del sole, avvolgendo il corteo in un raggiamento luminoso. Procedeva lenta lenta quella sfolgorante schiera, lasciando dietro di sè mazzetti di pervinche e di agrifoglio, nappi di gigli selvatici che restavano galleggianti, mentre la litania moriva come un mormoramento sordo e melanconico. -* # Pìrano era città di fortissima fede cristiana. Kssa ha dato un patriarca ad Aquileia ed a Grado; sei mitrati: a Lecce, a Forlì, a Chioggia, ad Antivari, a Paren/o ed a Tran; nei tempi della sua dedizione a Venezia, la sicurezza degli stati era incatenata alla religione, perchè ad essa ') Questa fraglia si trasporlo ila Chioggia nelle citta istriane. La chiesa madre era quella della Ss. Trinila di Chioggia. Alcune devote persone-si unirono in società sotto il comando di fra Paolo Barbieri, e vestite di sacco forato alla schiena uscivano a certi dì cantando processionahneute e disciplinandosi di continuo sopra la nuda carne. (Paoleiti. // Fiore di Venezia, vol. I, pag. 97.) 1\ da notarsi che la fraterna dei Battati tra anche in Trieste antichissima, ed esisteva certo alla metà ilei secolo XIV. t6* MARINE ISTklANÉ si innestava profondamente ogni atto e pensiero della vita politica e civile. Quando Innocenzo III bandì la quarta crociata, era salito al soglio dogale Enrico Dandolo, l'uomo più illustre di quel secolo. I crociati si dovevano imbarcare a Venezia e il doge, volendo trar partito dalla spedizione per ridurre ad obbedienza alcune città dell'Istria e togliere Zara al re d'Ungheria, penso ili associarsi ai militi di Cristo. Convocò il popolo, salì sul pulpito di S. Marco c domandò gli venisse concesso di prender parte alla gloriosa impresa. Ottantenne, quel suo indomito coraggio meravigliò la folla che trionfalmente lo condusse appiè dell'altare, ove gli venne posta la croce alla berretta ducale. L'armata spiegò le vele fra lo strepito delle trombe e le acclamazioni del popolo; giunta in Trieste, schieratasi poi nel golfo di Muggia, il doge dalle due città ottenne atto di giuramento che resterebbero fedeli a Venezia ; quindi getto le ancore innanzi a Pirano. Il golfo Adriatico, dice il Michaud,2) non aveva giammai vista una flotta più numerosa e più magnificamente allestita; il mare era coperto da cento novanta vascelli, che contenevano quarantamila combattenti fra cavalieri e fanti. La rada del Largone a Tirano, antico e sicuro rifugio dei navigli, pareva una selva di antenne; era completamente chiusa dalle navi che rivolgevano le frecce, fatte ad imitazione del rostro antico, contro la città. Era la leggera e semplice attrezzatura cadevano le bandiere di tafletà, sulle quali era ricamata la croce. Se alcuni Tiranesi prendessero parte agli orrori ed ai vituperi commessi alla presa di Costantinopoli, s'ignora: la storia ha talvolta le sue innocenti e pietose lacune. Sappiamo che, al tempo di Sanudo, Pirano contava 750 fuochi in case di pietre vive, 7000 anime sotto la sua giurisdizione e 600 uomini da fatti, cioè atti alle armi, e Storia delle doriate. Milano, iSjl. La salinarola ,65 che la Republica non disdegnava arruolare, poiché avevano dato molti bravi ufficiali di terra.1) Nel 13.H0, Vettor Pisani, avventuroso ed arditissimo capitano, a cui il grido del popolo spezzò le catene del carcere, partito da Chioggia si recò a Pirano a far gente: dopo aver combattuto, tornò a Venezia con la gloria di aver vinto i Genovesi.*) Nello stesso tempo i Pirancsi si trovavano all'assalto di Marano, e si frammischiavano alla soldatesca che combatteva le battaglie fratricide.3) Un secolo più tardi binino arma a proprie spese e con propria gente venticinque barconi per la guerra di Ferrara. Da un documento del sedicesimo secolo apprendo come si dividessi- allora la popolazione: marinai, pescatori, calafati e salinieri, «i quali attendono anche al governo delle vigne et olivati e sono in barca tutto il tempo dei-ranno et adoperano vela e remi, secondo le occasioni, anzi 1) Non è accertato quanto contingente militare fornisse l'Istria alla Republica. Nelle carte manoscritte inedite del Kandler trovo che l'obllgo era gravoso : su 50,000 abitanti, 4000 pedoni, 200 cannonieri, ciurma di due galere e 40 cavalli. Ma probabilmente in questo numero saranno comprese le temide, che secondo Nicolò Zeno, savio di terraferma (veggansi i codici di Antonio Svayer), corrispondono ad una specie di guardia campestre. 1 soldati erano inscritti lino a certa età. I comandanti si levavano da altri corpi militari. ( )gui domenica avevano luogo gli esercizi detti comunali, ogni mese i distrettuali. *) Nel 1377 contro Venezia si erano collegati tutti i suoi più fieri nemici: Francesco da Carrara, signore di Padova, il patriarca d'Aquileia, il signor di feneda, la repuldica di (a-nova e il re d'Ungheria. Carlo /eno e Vettor Pisani, i più arditi capitani del secolo, eroi della veneta marina, scorrevano i mari per dar la caccia alle galere genovesi. Pisani, sconfitto a Pola nel 1379, venne da giudici inesorabili condannato a cinque anni di carcere. n) I Piranesi erano bravi ed arditi uomini di mare. Salmon nella Storia moderna di tutti i popoli del mondo (Venezia, 175J, tomo XX), a pag. 295, dice di Pirano: »I suoi abitatori sono ottimi marinai, e nel dispregio del mare e delle procelle possono paragonarsi ai pai animosi Inglesi. * marine istriane le donne istesse sono pratiche di questo esercitio, sapendo quasi tutte vogare, in maniera che vanno loro sole senza alcun huomo in barca, sì che si possono dir tutte marinare». Una prova che le donne piranesi fossero valenti rematrici offre Alessandro Locatelli, che fu cancelliere dell'invitto principe Francesco Morosini, detto il Peloponnesiaco, nelle guerre contro l'impero ottomano. l) Nel giornale in cui raccoglie l'eroiche geste del più famoso capitano ili mare che vanti il XVII secolo, egli narra che quando il Morosini ammalò a Negroponte, lasciando il comando al cavaliere procuratore Cornaro, e si disponeva a ritornare a Venezia carico di gloria, per consiglio degli ammiragli riparò con la squadra sovrana al Porto delle Rose di Pirano. A Rovigno la flottiglia venne salutata in mancanza di cannoni con spari di muscoli, a Parenzo venne imbarcato il piloto Marco Nobili, e si spedì una feluca a Venezia per annunziare il prossimo arrivo del doge. A poca distanza da Umago mossero incontro alle navi tre brigantini, allestiti dai Piranesi, con addobbi di bandiere, coi remiganti in livrea rossa, e fecero i saluti con tiri di moschetto. Presso Pirano uno stuolo di barche «si diede a corseggiare attorno alla galera ducale con voci d'acclamazione al Serenissimo gloriosissimo principe Morosini, e tale fu la festività, che rese vaga vista, scorgendo d'esser quel popolo svisceratissimo per il Serenissimo Dominio ». Si recarono a bordo della galea sovrana i sindici della città con seguito di trombe e di staffieri, vestiti di livree ricamate. Poco di poi tre peotte giunsero da Capodistria con una comitiva in pomposi vestiti «e dal dottor Gravisi fu fatto un officio elevatissimo. Quindi le donne piranesi, che hanno del virile, armarono dodici barche, e regatando fecero conoscere la loro intrepidezza nelle fatiche del remo, non ') Acquisti tiri Strettissimo Doge Francesco Morosini dal 16S4 al iòSg, \vAg. 167. Venezia, 1705. desistendo ad alta voce d'acclamare il Doge e poscia con cimbali fecero vari balli». 1 .e saline in Istria furono dette a torto contemporanee allo estendersi della veneta influenza sulla nostra costa, è pero eerto che la Republica, comprendendo (pianto vantaggio dovesse derivare ad essa dal possesso di quella industria, nei primi anni la volle libera, giovandone il prosperamento, facendola poi oggetto di suo monopolio, limitando il prodotto, stimandolo di tanta importanza, da chiarire le condizioni sul commercio del sale in ogni trattato di pace.1) Pirano è tutt'ora la ricca salinarola istriana. M II Prof. Em. Nicolich, nei Cenni storici sulle Saline di Pirano, pone il principio della storia delle saline istriane tra l'ottavo e il dodicesimo secolo, al tempo in cui i pirati infestavano l'Adriatico ; ma rammenta che giii nel 5 < j il vescovi) Kufrasio ne fa menzione in atto donativo, e sospetta tutte le saline anteriori all' epoca storica da lui fissata, quali bacini irregolari, formazioni spontanee su bacini paludosi. 11 Prof. Nazario Gallo le dice, COI) la autorità di Antonio Maria, preesistenti alla comparsa dei Veneti primi e degli .Vpiilcicsi sulle lagune. Il Kandler asserisce che il sale era in Istria aulica industria romana e dice che per Pirano filino prova i nomi romani conservati nel complesso e nelle singole parti delle saline. K questa dovrebb'essere la Opinione più probabile. M A kl NT'. ISTRIANI'", Pare innalzata da muratori sopra il disegno di uno scenografo. Essa ha ancora in testa la corona medioevale: una cortina turrita, a creste di merli, che getta un po' di ombra sui vigneti, ma anche ripara dal vento quel delizioso fondo di scena, che scende giù con gli orti, tutti una fronda, e con alcuni negri cipressi, sino all'abitato disteso sulla riva. A sinistra, da un terrapieno, s'alza il duomo con la sua torre alta, elegante, il cui angelo, librato nel fondo opalino dell'aria, lascia scorgere i trafori dell'aureola e gira sempre come una vigile sentinella. Con le ali spiegate ora guarda il quartiere di l'unta, cuneo di povere case, spinto in mare e che s'ingrossa e si scagliona a' suoi piedi, ora si rivolge verso il quartiere di Marciana, lembo di edifizi moderni a due o tre piani, lindi e imbianchiti, che si prolunga orizzontalmente sotto la collina. Talvolta quella guardia aerea resta immobile con la faccia verso l'estremo svolto a destra, per chi viene dal mare, dove la strada, uscendo dalla città, s'incurva per farvi godere quello spettacolo di pace che è il l'orto Rose, e da essa il Mogorone s'erge melanconico, con la sua folta selva di olivi, col mantello di velluto grigio, che spande una passione di leggende pie. La piazza Tardili è nel centro di Pirano, sul Marni nicchio,1) chiuso da un ponte levatoio, costruito nel 157S, e che si ha intenzione di demolire interrando il bacino divenuto uno smaltitoio. Al posto dell'antico Palazzo comunale, che venne alzato sul principio del 1300, sorge il nuovo, di stile cccletico, il cui massimo pregio è un bellissimo leone veneto, serbato come reliquia sulla casa dei cittadini. Davanti si sono piantati i due pili, destinali a sostenere gli stendardi indicati dal Sanudo. Su quello a sinistra si scorge S. Giorgio scolpito ed ai lati due stemmi: uno ha la zampa di gallo con hi cresta, e la inscrizione: Nostris tuta niaiies precibus, Pvraiiea tellus. ') Nome latino elle s'incontra dalle rive della l'iovenza a quelle dell'Istria. HRANO — il PONTE SUL MANDRACCUIO. LA SAL1NAR0LA jji L'altro pilo ha il bassorilievo di un leone, due stemmi ed il motto: Aliger cere Leo, lorras, mare, sydera carpo. Il vecchio palazzo pretorile, demolito nel 1877, aveva una scala esterna che metteva al piano superiore, all'ala sinistra si ergeva una torre, poi rovinata, con gli archetti per le campane. La grande sala era in comunicazione con un lungo verone, detto liagò. La facciata era decorata di stemmi, busti, tavole scritte ed il grande leone. A piedi della scala erano poste le misure di capacità, quelle lineari erano state scalpellate sui due pili degli stendardi. All'angolo della via ertissima che conduce al duomo è rimasta in piedi una stupenda palazzina, di architettura archiacuta rigogliosa, con veroncino all'angolo e in alto della facciata uno stemma con il motto: Lassa par dir. La cattedrale venne dedicata a S. Giorgio, che ha molti tempietti consacrati al suo nome. S. Giorgio sarebbe apparso in Pirano il 21 luglio 1343, scssant' anni dopo la dedizione a Venezia. Nel duomo poco o nulla di pregevole, all' infuori dell' altare maggiore ; il battistero isolato, di forma ottagona dei primi tempi cristiani, VI o VII secolo, con fonte per immersione, è notevolissimo per l'arte e la storia. La vasca, di un pezzo, si ritiene parte di monumento funebre romano, giudicando dai geni piangenti che vi sono scolpiti, Secondo il Sacchetti nei primi nove secoli del Cristianesimo i battisteri furono edifìzi sempre separati dalle chiese. Nelle grandi città se ne erigevano due, uno per gli uomini, l'altro per le donne. La forma dei battisteri varia in Istria. Cit-tanova e Parenzo l'ebbero ottagono, Rovigno settagono, Pola in forma di croce greca. Il convento di S. Francesco, nel cui chiostro le fraglie si raccoglievano per protestare contro il Municipio, possiede una pala di Vettor Carpaccio, incassata nella nicchia piana di un altare lombardesco, costruito a tribuna, della più bella epoca, con pilastrini rabescati di fogliami, uccelletti, sfingi, aquile, leoncini, grifi, grappoli che compongono con eletto pensiero la cifra pura del rinascimento italiano. Onesto antico cenobio è la pinacoteca piranese. Vi troviamo una Orazione ne//' orto del Tintoretto, una Madonna del Sasso-ferrato, ed altre tele di Palma il giovine, di Andrea Celesti, del Lazzarini e di altri maestri. Sotto il coretto leggesi una epigrafe in onore del capitano di cavalleria Giovanni Battista de Castro, che servì valorosamente la Republica, morto in patria nel 1559; un'altra epigrafe sopra la porta della sagrestia è intitolata a Floreno Zaccaria, nobile di Maggia, ed una terza, sopra la porta del chiostro, alla illustre famiglia piranese dei nobili Caldana, a cui appartiene quel Marco Petronio, che trovandosi al servizio della corte di Francia scrisse 1' apologia di Clodovco in un poema eroico latino, e s'ebbe da Luigi XIV una lettera di elogio, stampata in fronte del libro, che porta la data del 1687. Un'altra pala di Benedetto Carpaccio, da porsi tra le più belle di (mesto autore, è quella del Consorzio dei PIK ANO — CASA di stile archiacuto. sali ; il Municipio possiede inoltre una grande tela del Tin-toretto. Insistono ancora poche altre antichità, fra cui gli avanzi di quella chiesetta di S. Andrea, dove il popolo deliberò di darsi alla republica tli Venezia, che serve oggi di ricovero ad otto invalide, e non ha più forma tli tempio. Le chiese servivano allora per le radunanze dei membri delle Arti e Mestieri, etl a Venezia e in Trieste talvolta i giudici e magistrati le usavano a sedi di giustizia; talora venivano convertite in ospizi, ed accoglievano le solenni e più importanti assemblee popolari, Pirano conserva nel suo archivio un tesoro tli patrie memorie: [68 ducali, 140 pergamene tutte tlel 1200, 1500 pergamene del 1300, che compongono «piasi l'ufficio notifiche di quel tempo; un astuccio di velluto con l'atto di dedizione originale dei Piranesi alla Republica veneta. Quindi carte del XV e XVI secolo con interruzioni sino al XVIII, statuti di Pirano, un libro delle famiglie piranesi dal 15110 al 1700, manoscritti tli Giuseppe Tartini, lettere autografe ti'illustri italiani: di Coppo, Pintlemonte, Rossetti, Hesenghi, Mcrca-dantc, Tommaseo ecc. L'ordinamento statutario di Pirano precede, per documenti eerti, quello di tutte le altre consorelle istriane, giacche sappiamo che nel i Kj2 il Comune stringeva trattato tli pace con Spalato, e dettava i propri statuti, non tenendo alcun conto tlel feudatario straniero. Pagavasi il tributo tli danaro e tli sangue al marchese, ma non si voleva rinunziare «alla sovranità municipale, ed affrancando questa s'indeboliva e s'infrenava la prepotenza del governo feudale. 11 carattere di Pirano e impresso nella sua fisionomia ed in quella del suo popolo, La natura ricalila la folta arazzerla verde sui merli della cinta e manda mi sorriso divino dalle vecchie rovine. L'indole schiettamente allegra, l'animo docile e il culto dei piiì nobili sentimenti sono pur tra lo squallore delle case fulminate dagli anni, tra la decrepitezza degli abitacoli, il secondo sorriso della povertà rassegnata, che all'ombra canta e lavora. Nel carattere degl'Istriani trovate ancor vive tutte le qualità dei nonni veneti, con i difetti tli temperamento che ne costituirono i tipi singolari sul teatro e nei libri. Ciò che ha scritto Goldoni del suo popolo e sentenza per il popolo nostro; egli notò: «Si canta per le piazze, per le strade, nei canali: cantano i mercatanti spacciando le loro mercanzie; cantano i lavoranti nell'escire dai loro lavori; cantami i barcaioli aspettando i loro padroni. Il (ondo della nazione è l'allegria, e il fondo del linguaggio veneto è la lepidezza.» Quei crocchi di gente che vivono nelle strade, sparsi per tutto, che mutano di posto così come cammina l'ombra del tetto, che fanno la storia dei vivi e dei morti, palesano una inclinazione naturale alla socievolezza, una ingenuità di costume, dal cui spirito derivarono gl'istituti tli ricreazione e tli coltura che resero celebre ed amata Venezia nei nomi più illustri delle armi, delle lettere e dell'arte. 11 medesimo sentimento del vivere insieme lo si scopre nella plebe e nell'aristocrazia. T.c maschere sulla piazza e il carnevale e i balli, che uno straniero chiamò la messe degli muovi, si riprodussero gaiamente anche nei piccoli nostri Comuni, i quali imitarono le baldorie del ziobci grasso della ricca Matrona. La casa reggevasi a sistema patriarcale, che tutti radunava ad un desco, che tutti faceva obbedire alla volontà «lei pili vecchio e che univa l'inesperta gioventù alla ponderatezza dei più anziani; quella poesia della famiglia che dava solennità a tutti gli avvenimenti con la disciplina naturale insegnata ed imposta dolcemente dall'amore; quella effusione d'affetto per cui l'uomo giungeva a quarantanni senza che dimenìi tasse di baciare ogni giorno sua madre. E questo costume dell'obbedienza e del rispetto ai maggiori di famiglia era una delle più belle virtù della società tli Venezia e dell'Istria. Z2 LA SALINARI ILA Lorenzo Celsi, eletto doge nel 1361 , era valente capitano di golfo, e ([nella nomina toglieva un brav'uomo alle sue occupazioni marinaresche e alle sue abitudini casalinghe, Nelle ore di pace e tli riposo egli viveva della felicità della sua famiglia. Il dogado gli cagionava un grande pensiero: bisognava rappresentare l'autorità suprema, diventare il Duca a palazzo e il Duca in casa, ed alla sua pietà figliale doleva che il padre dovesse scoprirsi al suo passaggio. Lorenzo Celsi ricorse allo stratagemma tli porre sul corno ducale una croce tli diamanti, concludendo: — Cosi mio padre non saluterà me, ma il segno di Cristo. # * -x- La città vecchia è ancora tutto un complesso di costruzioni venete: le straducce sono legate insieme da cavalcavia che formano «piasi un reticolato di cupi corridoi. 1 mestieri rumorosi annunziano festosamente che sono penetrati in quel centro operoso, dove le famiglie si addensano come in un formicaio. Qua e là si avverte il commercio ancor vivo del canape greggio, delle schiavine, dei cappotti di pelone, dei cotoni turchini, e si numerano le modeste botteghe che soccorrono all'agricoltura e provvedono ai bisogni della famiglia. Fiori a tutte le finestre, panni colorati sulle corde tese da un balcone all'altro nei cortili. Ogni tanto un piccolo ramo ili via laterale mostra il mare e s'illumina di una luce verde; e campielli e callette arieggiano gl'isolotti di Canareggio. Qui incontrate gli ultimi zendadi, che si conoscevano a Venezia già nel IX secolo, e qui abitavano le dame piranesi che ci hanno lasciati gì' inventari dei ricchi costumi, come ad esempio gli abiti di damasco dorato, i farsetti di stoffa con fornitura d' argento, te vesti di fanno veuestuo c/te venivano dotta Fratisa, gli agiti d' argento, i perosini d'oro e /e piane/line imperla de. In mezzo ni più denso abitato di l'unta c'è il publico cist iT none del I//6, che si rial/a suda piazzetta ed ha alle porte due statue barocche : la Forza e la J'igilanza, ed agli angoli opposti, piantati su esili co-onnini, due putti, i Éi \ quali portano in ispalla bocche di tutte le gronde, che raccolgono e versano dai tetti nella grande fossa murala l'acqua piovana, che si va ad attingere con le secchie nei due puteali. In tempi di sic-&j cita si usava dare alcuni tòcchi ili campana per avvertire la gente che i pozzi puhlici erano aperti. E quel'suono distinto a martellate si chiamava la campana dell'acqua. Alcune città dell'Istria a\ e\ ano lastrico di pietra già in tempi remotissimi; gli zoccoli adoperati dalle donne per ischivare il fango r..\ SALlNAROLA furono proibiti solamente a Venezia nel 1409 con decreto del Senato di data 2 inar/.o per fai- cessare il fastidio che Quella Calzatura recava di giorno 0 di notte, ai sani e molati, d<>po sfidate le stiade. Gli squeri a Pìrano occupavano le rive più estreme, e circondavano una volta, fuori le mura, l'abitato. Le cavane li dividevano l'uno dall'altro.1) Dal 1300 al 1500 il Comune aveva provveduto come le città venete e lombarde al così detto reposo dei viaggiatori, e manteneva una osteria data a pigione con l'obbligo di tenere sei buoni letti. Nel 146*9, visto il bisogno crescente, tirano decretò che « cadauno tegnente manzarie et pagante ducati tre all'anno» potesse alloggiare nella propria taverna qualche forestiero. '-') * # A Pirano in tutti i sottoportici vi sono delle madonnette o ancone con santi, davanti a cui s'accendono dei lampanini. Avrebbero avuto origine da questo uso devoto le illuminazioni delle città. E, secondo il Gallicciolli, Venezia ') Le cavane appartengono alle costruzioni primitive dei Veneti. Quando questi dovettero vincere la lotta del mare e dei fiumi sui lembi fangosi che sceglievano a dimora, frenarono le correnti con vinoni, prepararono approdi e ripari alle barche, cioè eressero le cavane, clic a Venezia, esistono ancora in buon numero e servono di ricovero notturno 0 in tempi di burrasca ai battelli. Ne parlano il Tcnlori, il l'aoletli ed il Molmenti. Il conini. A. Sagralo scrive che «piasi tutti i conventi di frali avevano ricetti coperti per accogliere le barche, detti cavane. A Capodistria esiste ancora oggi la l'avana dei frati, presso la porta S. Pietro, nel bacini» omonimo, eretta all'epoca della costruzione del convento di S.ta Marta nel 1622 e serviva a dar ricetto alla barca di quegli zoccolanti. Il nome della via l'avana si trova in Trieste già nei documenti del secolo XIV. '') Morteani prof. L. Op. cit. ig2 M a k i m. istriane ne avrebbe dato l'esempio, che poi si diffuse in tutti i paesi a lei soggetti.1) Un antico cronista dell'anno 112S narra: «Anciiia si itti 1 questo doge, Domenico Miehiel, se usava pur assai barbe posticce alla grega, de sorte che veniva fatto de gran male la notte, e massime nelli passi cantonieri, come calle della bissa, al ponte dei sassini, the si trovava molti ammazzati, et non si sapeva ehi fossero stati, perchè non si conoscevano i malfattori et per il Dominio furono banditi- dette barbe sotto pena della fona, che non le si portasse nè di dì uè ili notte et cosi si dismesse. Et fu ordinato che per le contrade mal sicure fossero posti cesendeh impizadi, che ardessero tutta la notte, dove furono poste le belle Ancone. Et questo tal cargo fu dato alli Piovani, e la Signoria pagava le spese.» Si collocarono dum pie nei posti mal sicuri 0 bui alcune immagini con lanternini, provveduti d'olio da volontarie oblazioni di persone caritatevoli, in tutto il dominio, sino a che nel 1732 il Senato ordinò la illuminazione di Venezia, escluse le sere dei pleniluni. Nelle piccole città dispose che un ferali' ardesse ad un angolo del palazzo pretorio. Carlo Goldoni rileva nelle sue Memorie la bellezza della novità introdotta in Venezia : « Non avevo, scrive, ancor veduto Parigi, avevo bensì veduto di fresco parecchie città, ove la sera si passeggia al buio; posso adunque dire che i fanali di Venezia formano una decorazione utile e piacevole, tanto più che i particolari non ne sono aggravati, mentre una estrazione di piti all'anno del giuoco del Lotto è destinata per farne la spesa. » -') ') Faber, frale tedesco, nel suo Evagatorium publicato a Stoccarda nel 1489, cosi scrive parlando di ipiesto uso delle terre venete: i Là di queste belle possessioni, ai pioventi delle due riviere si distendono i pascoli, (pandi le grillaie sterili, piene di cardi, con piante grumolose e sterpose, stracciate dalle lepri, che vi abbondano. Sentite sotto i piedi la rigidezza dell'erba dura come la paglia, e le teste delle bardane si appigliano alle vesti; qua e là alcune piante erranti si trascinano per il suolo, i rami nuovi riescono tante propaggini che mettono radici, i vecchi isteriliscono; così essi: camminano sempre, intrcfolan-dosi tra gli spini, come se non trovassero pace in quella costiera di arsure. I boschi cedui, divenuti semenzai naturali, invadono la parte centrale, e si sbandano con giovanissime fnstaie. È anche questa una legnaia istriana, che si decima ogni anno e si scalva per ricavarne buona e sicura rendita. II sottocomune di Salvore conta 550 abitanti, soggetti per la maggior parte a pochi proprietari; la popolazione venne importata dalla Republica veneta dopo le stragi epidemiche. Due soli villaggi, bassania e Zambrattia, formano gruppi di case, isolate, senza comunicazione con la citta di Umago die è il loro centro. I maggiori possedimenti da più secoli erano in mano di signori veneziani, passarono poi in quelle ilei tiranesi; oggi si contano ancora le stanzie dei Kota, Gabrielli, Furegoni e Venier. La riva, verso Umago, è una lista larga di ginestre e ili eriche, tutta gialla di fiori, orlata dagli scogli taglienti che spuntano dalle secche a guisa di moli, rósi dal flusso, cariati dalle conchiglie. l'I una ricorrenza di dentiere con sassi coverti di musco, spugnosi, nei cui foracchiamenti la spuma frigge e sparisce, assorbita dalle crepature del fondo. Da questa parte si vedono le tracce dell'antica città di Sipar, distrutta, com'è verisimile, dai corsari nel IX secolo 200 MAkINT, ISTRIANI1', e poi inghiottita dal mare. In una narra/ione del i " i leggesi: «che ml decembre dell'anno precedente una fiera marea scopri per lungi) tratto ili terreno un sotterraneo con Fabbriche antiche, quasi per due miglia, principiando dalla punta Catoro ininterrottamente. Consisteva in muraglie fatte di sassi di monte, tratto tratto divise da (lue pieeoli muri quasi formanti una camera. In talune vedevasi scalinate e finestre. Tutto il pavimento è a mosaico. Un'urna si trovò con alcune ossa. Fu creduto da alcuni che fossero ruìne del-1*antica citta di Sipana, testificando eziandio i pescatori di quelle acque, che in bonaccia, a mare chiaro, veggonsi dal fondò della punta di Catoro certe muraglie, e le vestigia di un molo, reputato ([nello di Siparia. città posta un tempo non lungi dal mare. Le rovine che si scorgono sulla spiaggia formerebbero lo scheletro di due porti artificiali e vi si trovarono frammenti di marmi e di cisterne. Il signor Nicolò Venier, uomo amante della patria e che ama giovare gli studi storici e le ricerche archeologiche, imprese nei suoi possedimenti, proprio a Catoro, gli scavi, e riuscì a denudare un avanzo di edificio romano, con mosaici, che è un primo passo verso più importanti scoprimenti. Sipar, secondo il Kandler, si estendeva in questa vasta proprietà. ') Intanto la immaginazione popolare intesse le sue fantasie poetiche, e si narra che la città con le contrade e i caseggiati fu veduta uscir dall'acqua un giorno di grande secca. E chissà qualcuno non venga a dirci d'avervi letto sui muri, come a Pompei, le raccomandazioni elettorali, le dichiarazioni d'amore, e gli avvisi coi caratteri rossi dell'anfiteatro! La solitudine del luogo e di quei pochi ruderi, in cui al posto dell'uomo s'annidarono le vipere, mette una tristezza, che la vista di Umago non riesce a consolare. Umago ha l'aspetto di una città lacustre. S'incantona davanti un limpido cerchio d'acqua trasparente e quieta. ') Kandler. /.' Istria cit. ; Laugier, Op. cit. UMAGO VEDUTA DAL MARE. DA SAIA i IR 1 \|i CMACO 203 Iti quel suo laghetto, che è un vero acquario, si vedono moversi nel sabbione e tra le alghe i pesci. Ila poche case alla riva, un campanile tozzo con intonaco greggio e il cappello a piramide acuta: alcune stradicciuole strette per modo che la gente può darsi quasi la mano sianolo ai balconi. ') Si fiuta la campagna da per tutto; sul lastrico sconnesso vedele le canne perdute dulie carrette, 111.mate di fieno, e i muli e i cavallini hanno lasciato le tracce del loro passaggio. (Juasi in ogni casa, al pianterreno, c'è urna macina a mano, che le donne mettono in moto prima di far la ]h denta. ') Umngo offre il' inverno il bellissimo spettacolo della racco'ta di barche del litorale veneto che aspettino il vento propizio per la traversata. MARINI. INTRIANK (ili uomini, fuori dalle porte, sgusciano fagiuoli o stacciano il seme dell'erba medica; scorgete delle grandi zucche esposte al sole, appese agli scuretti di legno; quindi ceste di cocomeri, e nelle piccole viuzze, mastelle e barili in cui si mette suolo a suolo il pesce per marinarlo. La popolazione è composta per la maggior parte di agricoltori, dal cuor largo e intelligenti; una società di mutuo soccorso è venuta, vera provvidenza fra loro, ad attutire i dolori della povertà e i crucci della miseria. I resti delle mura che sono ancora in piedi spiegano come la città avesse un giorno maggiore importanza ed estensione. Il palazzo del Comune, sulla piazza, è poverissimo, ha una scala esterna con parapetto di muro grossolano, ma il leone veneto e gli scudi, come tante gemme storiche, rimasero incastonati nella facciata nuda, liscia e che ha la tinta perlina che adoprauo gl'imbianchini. Un piccolo ridotto, che serve al mercato dei bozzoli, dove tutto l'anno conviene la gente a lavorare le reti o a chiacchierare sedendo sui banchi di pietra, vorrebbe essere la loggia paesana. * * l'mago ha parte in quella pia tradizione che identificò la Kcpubliea veneta in S. Marco Gli antichi annalisti DA SALV OR E \D UMAGO 205 raccontano come l'Evangelista fosse il primo banditore (Iella fede in Aquilcia, e di là si recasse in Alessandria d'Egitto, ove, morto, so ne deposero le spoglie in una custodia sotto l'altare della chiesa affidata alle cure del monaco Staurazio e del sacerdote Teodoro. Nei primi giorni 11 o 11 ' S 2 7 due veneziani, Imono da Torcello e Rustico di Malamocco, vennero gillali da una burrasca con le loro navi su (pici lido dei Califfi. Le reliquie dei santi non erano allora soltanto oggetto ili devozione, ma anche oggetto speculativo per attirare i pellegrini, che in massa giravano il mondo per venerare i morti apostoli della cristianità. T due mercatanti seppero indurre con astuzia i guardiani del tempio a consegnare loro il corpo di S. Marco, lusingandoli con la promessa che il doge li avrebbe colmati di ricchezze e di onori. Riusciti nell'intento, dovevano affrontare il maggior pericolo, nascondere il trafugamento alla vigile dogana saracena. Collocato il corpo in una corba, lo coprirono di erbami e carne porcina, talché i musulmani, inorriditi alla vista del cibo vietato ed abborrito, lasciarono passare il sacro contrabbando. Spiegate le vele la nave s'avvio felicemente a Venezia, ma sopraffatta da orribile burrasca, arrenò ad Umago, dove il pronto soccorso dei pochi abitanti marinari la trasse in sabo. La questo porto venne mandata la notizia al doge Giustiniano Partecipalo, che «col seguito del clero e del popolo si recò a ricevere il sacro pegno, La gente di Umago accompagnò proccssionalmente, con fiaccole di legni resinosi, il pietoso corteo. K da quel momento S. Marco tu acclamato il protettore della citta, la sua immagine ed il suo leone divennero i contrassegni di tutti i puhlici monumenti, lo stendardo delle (lotte, l'impronta delle monete, l'emblema più caro dei Veneziani».') Nel -nostre case, devastare le nostre eredità; ci resta ancora forza per seguitarvi dovunque vogliate condurci, credendoci felici nel sottrarci dalla schiavitù e dagli orrori di questo infelice soggiorno. La nostra, patria non è più quella che era, essa è per piegare il eolio al giogo degli infedeli; noi non la conosciamo più e l'abbandoniamo senza dolore. Di troppo affanno ci riuscirebbe il vivere in luoghi DA SALVORE A11 UMAGO 207 dove la tirannia e F empietà dovranno regnare. Vi supplichiamo assegnarci UIl ritiro, (lo\e possiamo morire tranquilli sotto l'obbedienza di ima Repubblica che adoriamo. Vogliamo tutti seguirvi, poiché una dina necessità ci discaccia da questa città, che ci fu per lungo tempo si cara, e che ci sarà, odiosa in avvenire. Ricevete favorevolmente questo ultimo sacrifizio della nostra lede; noi abbandoniamo tutto, per non cambiare uè di religione uè di si >\'ram 1. Nel [669, dopo ratificata la pace, una parte delle galere del Morosini imbarcò le famiglie italiane, ma cólta la dotta da terribile tempesta, naufragarono alcune navi, che rimasero preda ai pirati delle coste barbaresche. Si salvò un piccolissimo numero di profughi; giunto a Venezia, il Senato indicò quale asilo ai più poveri la città di barenzo, ai pochi nobili propose tutta l'Istria, terra di fortuna e di gente fedele. Fra i reduci di Candia si trovavano anche le famiglie Costantini oltre quella dei Franceschi, La prima si gloria discendere dai Cassii di Roma, che diede tribuni a Venezia, ove fiori ed ebbe ricca cappella nella chiesa della Carità, casa domenicale a S. Gregorio, ed i cui rami vivono ancora in R.o-vigno, in Venezia, Fiume e Pisino. La seconda continuò ad Umago ed a Seghetto e conserva i titoli della contea feudale candiotta.1) 'j Anche i ile Franceschi sono ili origine romana, (iilbcrto Marchi, nella sua opera Candid illustrata, ilice che l'anno ili Koma 1227, di Cristo .17.}, Feramondo de Franceschi, valorosissimo prefetto e capo di romana legione, si battè ostinatamente contro Odoacre re degli Fruii in difesa, del l'imperatore AugUStolo, e venne deposto dal suddetto Odoacre, per il che esso Feramondo abbandonò Koma e si porto a abitare in Padova, quindi in Venezia, ove la famiglia si segnalò per importantissimi servigi resi alla Rcpublica. fon l'occasione poi delle colonie venete mandate in Candia, venne questa ad essere infeudata dal Prìncipe. Nel 1538, durante la guerra turchese»., rassegnò 500 vassalli, soletti alla sua contea, formando due compagnie, e quindi ammassatine altri 400, difese col proprio denaro i porti di Calus, Lemiores e Sabionera. Antonio Queruli per la Serenissima Ucpuhlica, in data 30 dee. 15X1, con la ducal Autorità «confermava ai Nobili signori tonti durissimi de MARINE ISTRIANE Esposta allo scorrerie dei pirati, vittima tlellc rappresaglie durante le guerre ci i Chioggìa, sforzata dai venti australi,UmagO si spopolò e impoverì, ma nel lavoro rinvenne quel soccorso bastevole a campare una vita oscura, quieta, senza vergogne di fede mancata o di debolezze. Gl'Inglesi nel [Sii sbarcarono, invasero il palazzo del Comune, portarono sulla piazza lo carte della vicedorhineria, gli statuti, le pergamene ed accesero un grande falò. l'mago restava senza storia scritta. Non era la prima volta, clic un iniquo saccheggio forzasse l'archivio di una città, lo spogliasse dei suoi Suggelli e gettasse le ceneri degli annali al vento. Tra noi Umago e Grado soffersero questa irreparabile- iattura. Non devono punto destar meraviglia le rappresaglie, che senza necessità di guerra furono consumate da (piante genti bellicose infestarono l'Adriatico. (Juando nel 1354 scoppiò la guerra tra Genova e Venezia, i Genovesi misero a ruba barenzo, bruciarono i preziosi statuti e rapirono i corpi di S. Mauro 0 di S. Eleuterio, che tuttora si trovano nella cappella privata dei Dona; da Capodistria asportarono le reliquie di S. Nazario, mentre nel 1380 tolsero a Rovigno le spoglie di S. Eufemia. Volendo ferire il sentimento delle popolazioni entravano armati nelle cattedrali, manomettevano le arche o portavano via le urne che racchiudevano le ossa dei martiri. Franceschi, tutti li privilegi ili mero e misto impero che in vari tempi furono ad essi conceduti in vigor delti importantissimi servigi prestati alla ktpublica, nelle più ardue occorrenze, col somministrar gente, haveri et cavali, fSpOnetuio timoni se stessi ni fise/ti iti guerra per /,1 difesa del Regno*. Carlo, Giovanni Batt., Costantino e Domenico fratelli Franceschi, qui. Lodovico, donarono, addi ih luglio 171(1, al governo veneto per gli urgenti bisogni e le Critiche emergenze della Rcpublica, 100,000 ducati, inibì (piai cosa e per altri titoli veline dal Senato a pieni voli dall'Ordine de' Segretari innalzata la famiglia al Sovrano Ordine I'alriz:o ed inscritta nel libro d'oro. (Dalla Raccolta dei Decreti del Veneto Senato, privilegi, tetinimi zio/ti ecc., comprovanti le mare/te d'onore e gli specialissimi titoli della no/die famiglia dei Conti de Franceschi.) da saia< >kE ad UMAGO 209 Gli Uscocchi, terribili ed agguerriti ladroni di mare, che al principio del secolo XVI s'erano annidati negli scogli della Dalmazia, estesero le loro audaci ed inumane rapine anche sul territorio litorano, radendo al suolo i vigneti e gli ulivi, spargendo la miseria e la morte intorno ai castelli e- alle citta della costiera. Durante il secolo scorso le chiesette dell' Istria montana non avevano più arredi, nò campane: i Comuni se le prestavano fraternamente per le grandi solennità. La paura rimasta dopo gli eccessi degl' insaziati predoni, duro così lungamente che molti villaggi non pensarono di rialzare i campanili. rinvia, sulla strada di Capodistria, il cui nome ricorda il fiume che da Ampezzo scorre per Trevisana, aveva sino a pochi anni fa bilicato il suo modesto concerto tli bronzi sopra il tiglio, cresciuto largo e frondoso davanti la chiesa. E non lo sonava (pici concerto che a Natale ed a Pasqua. Un aneddoto racconta che qualcuno tagliasse ogni Inverno, e per tre anni di seguito, un pezzo di corda, perche-la trovavano accorciata. Fu posta allora attorno al grosso tronco una guardia costante di cani lupini. E nessuno aveva pensato che quel poetico e primitivo campanile cresceva con la vegetazione della primavera. Ancora Òggi ciascun luogo ricorda, che da (pianti, gelosi della signoria di S. Marco, invasero il paese, nulla fu rispettato, uè i santi, uè i libri sacri, uè i registri civili e nemmeno le donne. ') ') hi f:ilti la mattina ilei 24 maggio I0S7 due fusto tureheselie di Dulcigno entrarono nel porto di Cittanova; l'equipaggio sbarca, saccheggia le case e sequestra trent'otto persone, fra le quali il podestà Giov. Hate tarozzi eon la moglie e due figlie. Aveva un liei suonare a martello il Comune; una barca veneta, dur marciliane ed altre peote, dato dei remi in RCqua, non riuscirono a raggiungere le fusle. (ìli ostaggi vennero trascinati a Dnlcigno, e non ottennero la libertà che mediante un grosso riscatto pagalo dalla Kepublica. Ma nella fretta della fuga, dice una memoria scritta, i pirati avevano lasciato in terra due turchi, ma che razza di musulmani! uno era anconetano, l'altro pcllestriuolo, e il capo della spedizione, anch'esso turco, ira nientemeno che da Tirami! 2IÓ marini', istriani1. E fossero bastati i vandalismi di coloro cui movevano, in tempi di barbarie, odi brutali O fame di bottini o gelosia del veneto predominio sui mari d'Oriente! I Francesi nel (8i i tirarono col cannone sul duomo di Parenzo. Gl'Istriani stessi distrussero una quantità ili marmi c cimeli, coi quali si sarebbe potuto completare la storia della colonizzazione romana. I monumenti dell'antica Emonia sono dispersi nel territorio di Cittanova; i contadini si sono serviti degli archi, dei capitelli, dei fregi, delle pietre scritte per le fondamenta delle loro casucce. Uno storico asserisce che Cittanova fu trattata come una cava di pietra e le sue lapidi si trasportarono nell'agro per costruire miseri tuguri. IX. ALLA FOCE DEL QUIETO Le mura di Citta nova — /;/ chiesa — Un antico vescovato - Sotto la log-getta — La valle del Quieto — // bùSCO di Montana e l'arsenale di Venezia — // commercio istriano sulle lagune — Le peschiere — Nido marino. Alla Foce del Quieto Citando la barca vi mette alla riva di t'ittanova capite immediatamente come T utilitarismo moderno, disprez-zatore di ogni culto artistico, di ogni rispetto al passato, si giovò della fronte delle mura per farla servire di base ad una riga di piccole abitazioni, costrutte col materiale della demolizione, che al posto degli ammazzatoi e delle feritoie hanno le fmestrucce con le persiane a griglie verdi. Soltanto all'angolo sinistro una falda con merli ghibellini si addentra mostrando un fianco della cinta rimasto in piedi; e durano ancora i due sproni triangolari che dalle mura scendevano in acqua come due grandi pinne, e servivano a riparare i cittadini dagli assalti di terra Un arco, di fronte al molo, nel bastione deturpato ed indebolito, vi apre la città, con le straducce di terriccio, gli edilìzi senza intonaci), semplicissimi, tutti col proprio orticello chiuso, tla cui escono diritte le verghe dei gelsi o le palmette dei granati. Quella porta del XVII secolo aveva un'arma dei Pisani col leone, ora scomparsa. 2l4 Giungete tla ogni parte nella via principale, che taglia orizzontalmente il paese in due, e da un lato, a sinistra, corre per la campagna, e a destra sbocca sulla piazza larga, chiusa da un parapetto, con la vista libera e il duomo che guarda con la sua porta il mare. La facciata della chiesa è nuova, tli pietra squadrata e bianca; novissima la torre, ma il corpo del tempii» era un fabricato pagano ridotto al culto di Cristo. Lapidi romane, stemmi medioevali, liste di ornati bizantini, tavole epigrafiche, immurate nei fianchi del tempii», fanno testimonianza del poco che si salvò dalla depredazione consumata sugli augusti monumenti. L'interno è del pari una confusione di ristauri fatti in varie epoche successive. La cripta sotterranea, l'unica di questo genere che esista in tutta la provincia, ricorda le prime catacombe- in cui si trovarono le reliquie dei martiri. Ci sono due cellette scavate nel muro, che si chiamavano il conditorio, e nelle quali si rinvennero olle di terra, urne e cassette con ceneri. Nel centro della cripta sopra quattro colonne pòsa un'arca, il cui coperto va oltre il volto. Il pavimento dell'abside del tempio è perciò molto rialzato evi si accede per due bellissime gradinate laterali curve, con balaustre ornate tli grossi puttini, del seicento. Due altari uniti, uno aggiunto all'altro, dominano da quella specie di palco le tre navate ed hanno le impellicciature di marmi a colore, chiusi in cornici barocche, e si avverte subito 1" ibridismo che venne come ultima forma a deturpare l'antica basilica, dipingendo Ì bracciali tli ferro battuto delle lampade con i colori che non erano mai abbastanza chiassoni ai fabricieri della prima metà del nostro secolo. Evocate il ricordo severo dell'architettura medioevale, che curava di esporre sotto le mense, nelle cupe cantine, al lume di un fanalino, lo scheletro tlel protettore, mentre vi turba il pettegolezzo decorativo che si diffuse nel diciasettesimo secolo con le chiese fatte costruire dai Gesuiti. Al.l.A FOCE bit QUIETÒ 215 Ai lati dell'abside si trovano le due sagrestie; in una di queste si conserva un quadro attribuito al Mantegna, ed appesi in giro, sulle pareti, si schierano trenta 0 più ritratti apocrifi di vescovi cittanovesi, che dal 900 vanno al 1690 circa, tutti coi mustacchi o con la barba a coda ili rondine, a pizzo, come usarono gli ecclesiastici, dacché Giulio II, nel Secolo XVI, la fece adottare, e il clero amava accorciarla o ridurla affatto diversamente dai secolari. ') Sono fisionomie fatte a capriccio dal pittore, ma ricordano l'alta importanza della chiesa emonieuse, la quale fu sede vescovile, secondo alcuni scrittori, già tla S. Massimo, martirizzato sotto Uccio imperatore, nel 234, sino al ["95 con Teodoro Loredan dei conti Balbi, dopo di che venne aggregata alla diocesi terge-stina.2) Alcuni suoi vescovi diventarono patriarchi, cardinali e uomini di Stato della Corte pontifìcia. Diede pure i natali a Dioclito, che sali al vescovato di Torcello nell'851, eletto poscia patriarca di Aquileia. *'*) ') Il Gallicciolli nelle Memorie vene/e antiche (vol. I, pag. 347) scrive: «Erano dunque rasi la barba i nostri C'herici anticamente, e lino al secolo \ \ I. Ma o perone COSI tosse invalso il commi costume, o per ambi/ioni- di avere almeno tutta la testa simile a quella dei Nobili, e gareggiar seco loro in questa parie, non contenti del cappuccio e della berretta alla nobile, vollero ancora la barba, e la portavano tulli nel secolo Wl adulto, in guisa non meno diversa come appar dalle imagini e pitture. Conciossiackà altri la portavano con tulla la vanità secolaresca, altri ben folla e lunga alla greca, altri l'olia e breve alla Filippina, altri avevano leggermente barbuto soltanto il melilo, e un po' di mustacchio, come il Mari inioni nel sec. XVII, ed altri invece di mustacchio avevano come due piccole macchie di barba sotto il naso, che dicevano moschetti, . . . Sino dal 1509 i Prelati, i Patriarchi ed il terzo Sinodo vietò la barba ai Cherici. Ma 130 anni di repliche e di decreti non bastarono per toglierla al Clero sebbene 100 o 120 anni abbiano bastato a Noi per fabbricare l'Arca. E barbe, basette, mustacchi si viddero sul volto del clero sino al 1657, che l'aolo boscari fu l'ultimo Nobile Veneto che portò la barba, e L'esempio lini di persuadere gli Ecclesiastici.» '-') La soppressione per bolla papale del 1828 e avvenuta nel 1831, cioè dopo la morte del conte l.oredan. M) Cristoforo Tentori. Saggio sulla storia civile, politica, ecclesiastica della Repul'lica veneta. Tomo IV, pag. 228. marink istriani. Nell'altra sagrestìa si custodisce un antifonario in pergamena a caratteri gotici, con lettere miniate, tutto scucito, ridotto in due fascicoli, empiamente mutilati. Si narra che i preti tagliassero i margini dei preziosi evangelari per aggiungere ai loro collari un'animella flessuosa, e ila ciò fossero derivati i guasti che subirono tante pergamene alluminate, tanti manoscritti notevoli per la storia dell'arte. Due mitre di semplice damasco, con le fasce pendenti tli seta, ricordano la povertà in cui era caduto il vescovato, del (piale rimane un moncone di pastorale in foglia di rame inargentato. Di tutto il corredo della sede d'Equilio, donato da Paolo 11 pontefice, nulla più esiste; non il bastone d'avorio, non la mitra alba antiquo, non la coperta pontificale rubra di damasco, le borse di velluto vergato, preziose, la cassetta dipinta contenente la mitra fregiata d'oro, perle e smalti, fon otto campanellini di argento dorati e foderata di boc-t assillo. Uscite dalla basilica e non vi basta la ragione delle pestilenze e della malaria per giustificare limpo verimento di Cittanova. Nel palazzo del Comune si trova accatastato in un camerino tutto l'archivio, che un giorno qualche paziente studioso cercherà di consultare con profitto, e nella podestaria, in una cassettina col coperchio di vetro, si serba religiosamente' il bastoncino che veniva presentato ai podestà sotto il dominio della Republica veneta, nel momento solenne della investitura. Uno scrittore del XVII secolo narra: «Oramai di cento case di cittadini e duecento di plebe e pescatori, siamo ridotti a sei over sette case dei primi e venticinque degli altri, cosa invero miserabile quando si veda come era numeroso nel 1456 il Consiglio di Cittanova. Fuori ancora poco fa vi era un borgo con venticinque putte da ballo, e cosi sono andate peggiorando le cose.» ALLA POCE DEL QUIETO 217 La decadenza Oggi ta tonate con mano, e vi mette un po' ili melanconia nel cuore. Per fuggire dai quadri che la memoria va evocando sentite il bisogno di uno spettacolo della natura, e dal Municipio, per una viuzza, vi recate alla loggetta: una vera curiosità istriana. Sopra un torrione, alla parte opposta del porto e della citta, hanno cent'anni sono al/ali dei pilastrini di mattoni e poggiato al di sopra un tetto a padiglione. Ricorrono in giro al parapètto delle banche in pietra, e godete la vista della gratulo insenatura del (Juicio, dei colli parentini e dell'orizzonte che si perde nelle lagune di Caorle. Le onde, anche nei giorni di grande calma, si buttano talvolta stanche, ma senza riposo, sugli scogli, e mantengono il costante susurro della spuma che si dissolve, simile a (pičilo prodotto da un metallo rovente tuffato nell'acqua .Alcune brasseie entrano in quella grande bocca e Spariscono; si recano a Val di Torre 0 si dirigono a salire il fiume. Curiosa, incantevole scena hi valle del Quieto. Il golfo muore intorbidandosi in fondo col lavarone del fiume, per 71 2 iS mak ini istriani-: quanto una diga artificiale tenti tli arrestare la fanghiglia che scivola con la dolce corrente. Quella placidezza romantica, la solitudine, la gran-dezza del paesaggio vi attraggono: rimanete sopraffatti da un incantesimo. Net tranquillo bacino venivano spedite le galere della Republìca veneta per ricevere l'armamento, e la fiumara sfogava con larghissima foce, dando ricetto alle marciliane, fregadone e polacche. .Aurelio Rigo fa testimonianza di avervi veduto ancora nel (620 quaranta e più vascelli grossi, tra i «piali alcuni della regina d'Inghilterra, e diceva che (pici porto andava perdendo d'importanza dacché- s'istituirono i piloti d'Istria, con sede solo a Parendo ed a Rovigno. Sul principiare del iSoo ancorò nel porto di borre la fregata che trasportava Pio VII da Venezia ad Ancona, b.bbene, oggi non vedete una sola nave, uè potrebbe accostarsi, e la maremma violacea, in cui l'acqua sfavilla fra il tappeto tli limi fioriti, s'insacca intorno al fiume esalando vapori micidiali. Sul pantano, che ha le tinte dell'iride, stormi tli anitre selvatiche formano delle chiazze grige; i falcili volano e pescano i vermi, stridendo. Il Quieto fu imprigionato artificialmente in un canale; e dove esso gira e si asconde dietro all'incurvamento delle montagne, vedete comparire fra quel verde opaco le barche, che scendono una dopo 1' altra, con le vele Spiegate e bianche. Il bosco di Montona provvedeva in tutti i tempi all'arsenale di Venezia il legname per la costruzione dei navigli da guerra, per i fusti dell'artiglieria e quello per le fondamenta degli edilìzi, (ili alberi fatti tagliare dall' amministrazione a ciò delegata venivano trasportati giù per la c < ) r re n te nel 1 ' A ti ria t i co. 11 Sagredo scrive che chi guarda alle sebe della Tre visana ed a quelle dell'Istria deve stupirsi tlel materiale VI I V I i H I III I, Ot'Il'.TO 210 che hanno fornito; lo Stringa aggiungo che solo per sostenere il ponte di Rialto s'impiegarono dodicimila pali di olmo, ed il Martinioni narra che nei fondi della chiesa della Salute ne furono posti in opera per più di un milione.1) * * # Cittanova fu per qualche secolo il punto di riunione istriano delle caravane marittime, che viaggiavano di conserva, alla volta della Dominante. 11 commercio veniva fatto da piccole barche di trasporto. Sulla costa istriana I' arte navale era conosciuta ancora prima che sorgesse Venezia. Lungo tutto il perìodo del dominio romano c'era un piccolo cantiere a Pola; a Vene/da 81'architettura navale, se fu tra le prime arti, apprese da Ravenna, si sviluppo nei primi secoli lentamente». Venne consigliata subito dalla necessità, ma gli squeri di S. Alvise, di S. Rocco e di Canareggio cominciarono a lavorare appena nel settimo secolo, giovando più tardi la prosperità marinara in modo da accrescere miracolosamente la potenza dello Stato. E Venezia guadagno hi supremazia sui mari (piando miglioro le navi, mirando precipuamente all'aumento della flottiglia. Divenne la Signora d'Oriente, legando al proprio vassallaggio Ì re, gli emiri ed i sultani, che colmavano di ') A. Sagredo. Sulle consorterie dette orti edificative in l'enezia. Venezia, 1S56. Il governo veneto manteneva a Montona apposita magistratura per l'amministrazione del bosco, che i (agli irregolari e frequenti, e ]>iù tardi l'abbandono completo, danneggiarono grandemente, Montona, in vetta al colle, è chiusa cS5o. '-') Il signor I.ulule osserva clic il granile mosaico della calotta absidale è simile a quelli che si ammirano in koma, attribuiti all'arte musiva del VII secolo. La parete dell'abside, impellicciata di marmi a lista, a ligure geometriche come i disegni dei tappeti orientali, la definisce per composizione allora in voga e conosciuta oggi sotto il nome di tarsia fiorentina. Il ciborio, col bellissimo baldacchino, lo vuole composto in parte con frammenti di antico padiglione sacro (primitiva costruzione) ed innalzato (piando il vescovo Ottone fece costruire l'aitar maggiore, cioè nel 1277. Quei mosaici del pavimento mtejon fu mestieri mutare la disposizione basilicale della chiesa e far che la cupola lasciasse vedere le altre parti del monumento suddite ad essa. » ("osi si determinava la radicalo differenza di ciucilo stile, lui aggiunge che « sulle terre venete o nei paesi vicini all'estuario lagunare le chiese potranno mostrare le influenze bizantine; ma la maniera tecnica del murare sarà latina, imperciocché vissero troppo della storia di Aquileia per non aver fatto proprio il sistema di disporre e costruire che fu per tanti anni già fiorente in Roma». 11 dominio di Bisanzio non riusci a cancellare in Istria le gloriose e forti tradizioni dell'arte romana, ed il rito stesso, seppure si ammanto delle porpore e delle vesti fastose dell'Oriente, rimase tuttavia sino al secolo XV fedele alla liturgia latina tlel patriarcato aquileiese: in Trieste certamente fino al 1500; e (piando il rito aquileiese si dovette lasciare sottentrò quello di Roma. Le arti, figlie delle nazioni, sono lo specchio fedele delle loro vicende sociali. Appariscono talvolta fatte serve al genio straniero, ma conservano con ostinazione invincibile quella essenziale diversità che dimostra la loro natura e che le separa una dall'altra, che l'ima dall'altra le distingue, come il linguaggio le famiglie umane. Parenzo obbedì ai bizantini dal 569 al 789; già nei primi tempi di (pici dominio poteva murare il monumento, che illustrato anche tla stranieri venne compreso nella collezione a stampa dei primi templi cristiani conservati agli studi della dotta moderna curiosità. Nel tesoro si custodisce ancora un reliquario, opera attribuita da alcuni all'orefice Ezechiele, monaco del convento di Leuca, sul monte Athos, dove l'arte bizantina si annidò in una republiea monacale, sopravvissuta all'impero greco senza che i Musulmani abbiano voluto o potuto annientarla nemmeno ai nostri giorni. È veramente una pace di legno di finissimo intaglio, contornata di lamina d'argento dorato, ricca di piètre preziose, che ne forma (piasi una custodia. Nella sagrestia esiste una pala in legno, nel cui centro campeggia la Vergine, circondata da Santi chiusi in comparti. 244 MARINE Istri \\k Vi si legge sotto la firma Antonio d: Morano i.j . . Onesto lavoro è senza dubbio tli Antonio Vivarini, uno dei fondatori della scuola di Murano, che dipinse molto in comunione con loannes de Ateuiauia : la firma e la pittura con forti tradizioni bizantine bastano a stabilire la paternità del quadro, che trova riscontro nei lavori tli Antonio de Alarono esistenti all' Accademia tli belle arti nonché a S. Pau-taleone ed a S. Zaccaria di Venezia. In una cappella laterale del duomo si conservano due ale tli coro del XV secolo, bellissimi esemplari tli ([nelle sculture in legno che i frati lavoravano per gli altari delle loro chiese conventuali. * * * 1 .a città, eoi suo aspetto di modesta agiatezza, concentrata ancora nei grandi ceppi dei vecchi palazzi veneziani, impone a tutti la domanda se nel V o VI secolo non fiorisse per maggior ricchezza; se le sue relazioni marittime non fossero state th gran lunga più importanti che non sieno oggi, e spinge a cercare tla quali fonti traesse le somme occorrenti per erigere tpiel duomo, mentre ora non sarebbe al caso neppure tli sognarne il disegno. Quando essa poteva adornarsi del fasto cristiano, alcune sorelle istriane nelle miserabili chiesucce non avevano che calici e patene tli legno. Le sue antichità le danno nella storia un posto più ragguardevole di quello che occupa presentemente; la considerazione a cui ha diritto proviene interamente dalle ]■ \Ri;\tum 245 relìquie monumentali che essa possiede, illustrate oramai dalla archeologia. Sotto questo piccolo mondo clic oggi si agita, si nasconde uno più grande negli avanzi di pietre Sculte e scritte. La chiesa di S. Giorgio, dimessa ed abbandonata, ha le sue fondamenta su (piede del Comizio; il piedestallo che reggeva la statua di Massimiliano Erculeo venne adoperato (piale solido dado da fabrica. In piazza Marafor le casucce e gli orti si stendono sulle rovine dei templi; s'interrò il porto con le lapidi, si costruì con materiali storici, nei tempi di mezzo, il palazzo del podestà. Per tutto il territorio si discuoprono edicole, ossature di abitazioni, bagni, fornaci di anfore e vasi, impluvi, sepolcri. L'aratro ha mescolato la polvere degli antenati con la terrà, ed ha col solco disseppellito avanzi e documenti materiali di (piede epoche. Le spoglie disperse, poste in luce anche dal puro caso, guidarono la paziente indagine a tracciare la vita di nove secoli, dall'anno 17.S avanti l'era volgare all'ottocento, anno della occupazione di Carlo Magno, allorché, impoveriti i municipi dei loro diritti, subentrò il potere arbitrario dei conti e la potenza dei vescovi, donati di terre e castelli, già patrimonio delle città. La usurpazione metteva nelle mani di prepotenti mitrati e castellani molteplici diritti, che diventavano strumenti tli ostili persecuzioni contra il libero svolgersi della vita municipale. Il duca Giovanni, preposto al governo dell'Istria da Carlo Magno, (piando tentò di estendere le istituzioni baronali, trovò neir 804 una forte opposizione, specialmente al famoso Parlamento del Risano, ov'erano convenute le città istriane esautorate ed avvilite dai nuovi soprusi. Si accusarono i vescovi di adulterare le carte di enfiteusi, dì usar violenze ned'esercitare il diritto dell'erbatico, di voler usurpare la pesca nel mare aperto, tli aver sino maltrattato i cittadini. 246 marine Istriane Le lagnanze contro il duca erano rivolte a chiedere la espulsione degli Slavi importati, ai quali si davano terreni usurpati alle città, a voler intatti gli onori che venivano ai municipi dalla costituzione romana, ad avvertire il sovrano degli arbitri e soprusi che si commettevano in odio alla proprietà e alla stabilita coscienza di cittadinanza, che nessuno doveva intaccare. hai una protesta che rimase in gran parte platonica: le parziali concessioni non ripristinarono l'antica autonomia, gli Slavi non furono trasportati sulle terre derelitte, come era stato promesso; i feudatari difesero con maggior accanimento i privilegi goduti, gli ecclesiastici si fregiarono dei titoli e delle prerogative della nobiltà. Intorno a l'arenzo, dal secolo XI in poi, vasti e fertili terreni vennero successivamente infeudati alla Chiesa, che a sua volta li cedette ai signorotti. Erasi seminato il germe tli odi, che rompevano in frequenti rappresaglie. Bruttava la storia quest'aspra contesa, che terminò con separare la città dalla campagna: nemica l'una dell'altra. Al duca Giovanni succedettero i marchesi, genti- che se ne stava lontana a godersi le rapine legali delle rendite. l'arenzo, col viso al mare, con un passato che la ammaestrava a non sopportare i feudali reggimenti, seguiva ansiosa i fatti che si andavano compiendo. Pisa, Genova, Venezia si erano costituite nella indipendenza dei loro governi republicani. Lo spirito romano ritornava con queste marinare italiane ad illuminare la fosca aria dei domini barbarici, gettando come un fascio di raggi, nuovi pensieri e nuovi desideri di pace in libertà o di grandezza in guerra. Nel 997 Pietro Orseolo II, recandosi in Dalmazia con grossa flotta e truppe da sbarco per purgarla dai Narenlani, poggiò a Parenzo. Il vescovo lo invitò a venerare i corpi di S. Mauro e di S. LTeuterio ; egli adori, e i cittadini, lieti della visita del doge, lo presentarono di molti regali, che accettò, e si rinnovarono spesso. Se la generosa abitudine cadeva in PAREN i il M dimenticanza, Venezia scriveva subito che l'uso fa legge ed è nobiltà continuare le gentilezze. La spontanea offerta fu il primo anello della dedizione; nel i i \() Parenzo aveva assunto lrobligO di mandare 25 libbre di olio ogni anno per concorrere alla illuminazione di S. Marco e 20 anitre per i pranzi ducali. Nel 1267 era formalmente legata, la prima tli tutte, alla Serenissima, e spiegava sulle sue torri la bandiera rossa col bel leone ti' oro. Il corpo ecclesiastico cresceva intanto formidabile: abbazie, monasteri, chiese per tutto l'agro. I cavalieri di Rodi, con la spatla al fianco, si raccoglievano nel convènto tli S. Giovanni a Prato, i Templari a S. Michele tli Leme, frati Olivetani, benedettini, francescani a S. Stefano in Cimare, alla Madonna dei Campi. # La kepublica aveva già stabiliti) il suo possesso sull'Adriatico, in modo tla poter vietare a qualunque sovrano 0 nazione tli scorrerlo senza una permissione del Senato. lui ecco in qu.d modo chiudesse il commercio alle genti (die per fiumi o vie avevano sbocchi su (pusto mare. Alla foce del Po, nel castello di S. Alberto, presidiava un suo capitano tdie eseguiva gli ordini di permettere od arrestare il transito delle merci dirette per il fiume in Lombardia. La squadra delle galere al Po incrociava sul mare, visitava le barcacce, onde gli altri popoli nulla ricevessero senza l'assenso della Republica. Una seconda squadra percorreva la sponda orientale, guardava i porti di Umago e di Tirano e quella occidentale dei fiumi che scendevano dal Friuli. La terza squadra invigilava il Quarnaro e la Dalmazia. Verso la fine del secolo XV, la fatalissima battaglia del Zonchio aperse libero passo lungo la eosta istriana alle scorrerie dei Turchi. Questo combattimento navale ebbe il suo epilogo a Parenzo, dove l'ammiraglio .Antonio Grimani, deposta la dignità della carica, si costituì prigioniero. 24S MARINE ISTRI AVE Venezia aveva prima quale comandante della squadra Antonio Loredan; ma il Grimani, potentissimo per immense ricchezze e per le aderenze con l'alta aristocrazia, riuscì a sbalzarlo ed a farsi nominare in suo luogo capo della squadra che doveva combattere la flottiglia d'Ibrahim pascià, la (piale tentava di Occupare Lepanto, il punto donde partivano le venete operazioni. Furono poste agli ordini del Grimani novantanove vele; ma con tutto il forte assetto di guerra egli non seppe raccogliere che la vergogna dello stendardo di S. Marco e la propria. Alcuni lo dicono vittima della inimicizia dei suoi ufficiali subalterni; altri lo accusano d'inettitudine e viltà. • Sta il fatto che chiusi i Turchi nel porto di Longo, li lasciò fuggire, standosene inoperoso, permettendo che s'impadronissero del più importante possedimento della Republica. Venezia, che attendeva ansiosa le notizie della impresa, una volta, per falso annunzio di vittoria, improvvisò una dimostrazione di gioia, che risonò con le grida di viva (ìli-inani. Si suonarono tutte le campane, si accesero fuochi a Rialto ed a Canareggio. Ma (piando il 15 settembre 1499 si seppe tutta la verità scoppio intera la indignazione. Il Senato deliberò d'inviare immantinente Marco Trevisan ad arrestare l'ammiraglio, spedirlo alle prigioni di Venezia insieme col suo Stato maggiore, e assumere il comando della flotta. Quella gente, che con le bandiere rosse in mano aveva acclamato pochi giorni prima l'eroe del Zonchio, scriveva sui muri e sulle porte l'infamia del Grimani nini/a i/o Dio t J..\'.\.\'//. 20'} M A k i S'K ISTRI ANK Lo scoglio ài Orlando sporge come un enorme cranio di fronte ad ( )rsera. Spaccato per metà, la fantasia popolare, forse ben prima dei tempi in cui la poesia romantica rivestiva dell'immortale grazia del verso ariosteo le avventure meravigliose del paladino, lo battezzò col nome del più grande degli croi immaginari della epopea cavalleresca. Sappiamo che Orlando impazzito, leggendo l'epigramma di Medoro sulla fonte, trasse il brando dal fodero e I Pirenei avevano il passo di Orlando; Carcassona il famoso olifanto d'avorio, Ragusa la colonna, Pola la torre ed Orsera lo scoglio d'Orlando. Quando gli asinari di Firenze nascondevano nelle bisacce le liriche del Petrarca per impararle a memoria, i gondolieri veneziani, i pescatori ili Chioggia e quelli d'Istria ripetevano col verso armonioso del terzo grande poeta italiano gli ardimenti del famoso nipote di Carlo Magno, le fantasticherie dei cavalli alati e dei palazzi pieni d'incantesimo, II verso italico batteva la grande ala sulle marine ist liane. Tagliò lo scritto e il sasso e sino al cielo A volu alzar le' le minute SCheCfiie. XII. LA POPOLANA DEL MARE Una natte in mare — La storia narrata dal popolo ■— Canzoni rovii/msi — Musa morente Pesiti a spavento — La lillà vecchia — a m minisi razione veneta — Clero c Comune — / piloti istriani — Vita democratica — Macchiette artistiche — Poesia religiosa — L'assemblea a Sa nt1 Eufemia — "Ave slella del mare.,. La Popolana del Maki-: Non una stella, non filo di vento : una notte quieta, pesante, col silenzio esteso e profondo della sordità. 10 stavo seduto sui fasci di sughero delle reti nel primo bragozzo, le tre altre barche ci camminavano ai fianchi, di conserva: dovevamo imprendere di prima mattina la pesca a spavento. Le vele flosce ripiegavano sulle antenne; il fanalino, appeso ad una corda che correva attraverso i due alberi, dondolava buttando con intermittenza la luce sull'uno o l'altro dei vogatori, che curvandosi tutti ad una volta, macchinalmente, ad ogni mossa facevano sentire lo sfreneb lare ilei remi nel mare color del vischio. Erano Rovignesi; dai muscoli elastici, dalle persone robuste, con le facce pelose e le zazzere nerissime, cresciute selvaggiamente e crespose. Remando assiduamente per anni ed anni, inchiodati sempre a quei posto, avevano stampato l'impronta degli scarponi sul catrame del pagliolo. 11 padrone stava a poppa, con le gambe a cavallo della barra del timone, e raccontava a quando a (piando storielle ed aneddoti; nei lunghi intervalli di silenzio ricercava nelle "(•rt*?»if«*~ 212 MAK INF'. ISTRIANE suo memorie e riprendeva la narrazione, fregandosi le cosce con le palme. Aveva una loquacità tutt'altro che marinaresca. La sua Rovigno aveva ciato le sacttìc e le speronar piene di vele;, che rompevano una tramontanata, senza lasciarsi affaticare dalle tempeste negre o dal travaglio rabbioso dei flutti : piccoli legni, clic sguisciando come anguille, spazzarono l'Adriatico dai Narentani, abbordandoli, assaltando le ciurme con le rohche, passandole per le spade munite del bollo di S. Marco sulla lama. Il padrone parlava senza velare la vanità naturale, figlia di un nobile sentimento. A suo dire, non v'erano pescatori più scaltri, più infaticabili di quelli che approdavano alla gradinata di Valdibora o alle rive dell' Andana ; tanto è vero che i Savi alla Mercanzia avevano scelto tra il harchereccio rovignese coloro che dovevano recarsi in Dalmazia a strappare i coralli dalle rocce sottomarine. hai era rovignese, aggiungeva, Vincenzo beroaldo, comandante della nave La sacra Famìglia, che davanti ai forti di Genova, bloccato alle spalle, scaricò le batterie contro la città dei marmi illustri, contro la Superba predonn, che, dopo Spogliate le chiese istriane, tolse alla Palestina il catino, in cui, dicevasi, Gesù avesse mangiato l'agnello pasquale; quel Vincenzo beroaldo che per la vittoria sopra i legni tripolitani nelle acque di Samo venne creato cavaliere di S. Marco. ') Rovignese, continuava il padrone, era quel Nicola GarzOttO, onorato col comando del castello di S. Andrea del Lido e della fortezza di Légnago, inventore di un cannone da 500. Sino i podestà veneti ambivano l'onore di far tenere al sacro fonte i propri figli dal popolo di S. Eufemia. ') Il cavalierato di S. Marco veniva conferito a coloro che servendo la kepubliea nelle armale avevano acquistai" titoli di lienemereii/.a. Si Condii' cevauo al Senato ove, dopo prestato il giuramento in ginocchio, il doge batteva loro il dorso con una spada nuda; ad essi venivano quindi allacciati gli speroni d'oro e dal doge posta al collo una collana con medaglia, dal leone di S. Marco. la popolana del mark 27.? La sua città era stata il nascondiglio dei brulotti che si cacciavano ardendo tra le fuste turcheschc per incendiarle ed era la madre gelosa ed orgogliosa dei propri figli : fieri, turbolenti, irascibili, fossero piloti, soldati, marinai o contrabbandieri. ') Essa aveva sempre menato vanto della risolutezza, della tenacità, del temperamento facilmente accensibile della sua gente. Un giorno, con un salamandrone armato, venti uomini vanno a Vistro, sequestrano i doganieri, li portano in piazza e li gettano sopra un rog e Altra volta i suoi popolani ammazzano i birri, poi mettono in fuga gli uscieri del podestà, strappano anche le publicazioni ducali dai muri e nel loro sdegno popolaresco non riconoscono privilegi di cittadinanza e di patriziato. Tornavano dai viaggi più robusti, con le braccia tatuate, coi denti rotti, perchè quando non bastavano le dita li adoperavano nello snodare i groppi delle corde, improvvisavano feste al rullo dei tamburi vecchi ; vuotavano le casse del Comune per versarne il denaro alla Serenissima, (piando l'onore di essa era in pericolo; andavano cantando alla guerra, beati se toccasse loro di fare la sguaita nella gabbia o coffa, che era allora una Specie di cesta da fornaio fissata alla cima dell'albero, oppure ai sifoni di prora che lancia-Vano il fuoco greco; e si disputavano la consegna allo sperone nel momento dell'urto, per poter fissare i primi ganci e rizzoni, e si gettavano come gatti selvaggi all'arrembaggio, ') L'importanza dei piloti si può dedurre dal Codici per Ut Veneta Mercantile Marina, approvato dal Decreto dell' Eccellentissimo Senato 21 sett. ilei 178)». Al titolo ipiinto si leggono le norme per la professione dei /'iloti d'Istria. Esistevano quattro classi: piloti di rispetto, piccoli, grandi e giubilei, l'er passare nella prima categoria bisognava esser figli di Piloto d'Istria, Imprendere due viaggi all'anno dall'Istria a Venezia, scandagliare le foci dei porti di Lido, Malaniocco e (hioggia. Sei l'ilo!i, quattro grandi e due piccoli, dovevano trovarsi da settembre s marzo in Parenzo, dall'aprile all'agosto in Rovigno. Nessun capitano e padrone di bastimento poteva uscire dal porto di Venezia senza avere ottenuto i mandati di licenza dai Magistrali dell'Armar e Cinque Savi, oltre la fede dell'Esattore della Professione dei Piloti d' Istria. fulminando insieme coi Chioggiotti, con le genti di Castello e ili Rialto, i nemici, affiliando poi le immense vele insanguinate al vento, che portava e mesceva gli urli e le imprecazioni dei vinti alle preghiere che essi innalzavano, inginocchiati, a S. Nicola, protettore delle galere. * Quando tacque il padrone, dall'ultima gaeta, la più lontana, venne a noi una cantilena che modulava qualche stroia del d'asso, poi una canzone dialettale: F me vuoi mariilà cu un barearol Cù la sù vila i' me furiò un ninziol ; Cu la sù barca i' me lui iò ovina coùna Quisto xè el barearol de la fortuna. In quella oscurità folta, su quel mare dormente, in quella vasta solitudine mi vibrarono déntro quei versi e mi pareva volassero via per cercare di unirsi al fascio melodioso della rapsodia popolare italiana. Com'era pura, com'era gioconda la vita del nostro popoloI Spandeva l'eloquenza dell'anima nella strofa vagabonda, che Svolazzava col dialetto incolto, dai crudeli accenti, come lo designò Dante;1) ma tutta sentimento, passione, entusiasmo nazionale. ') «-Il dialetto di Kosigno, diverso dagli altri parlati dell'Istria, tranne forse quello di I Ugnano, sembra essere, da poche eccezioni in fuori, dovute al' contatto e alla mistione delle genti di differènte origine, simile mollo a quello usato anticamente nell'Italia di mezzo. La sua ricchezza ed eleganza, la gran Oppia di voci antiquate e di modi che i buoni scrittori del trecento ricordano, la pronuncia stessa, sembrano confermarlo. .Nella vita di Cola di Kienzi, ultimo tribuno di Roma, amico «li Petrarca, scrina da un contemporaneo, leggesi di continuo: pttopolo, nuotali, rampituoglio, wic-.zo, Stella, ed altre voci di suono simile al dialetto di Rovigno, » (V. Cazamia Carcr. Istria, anno I, N. 28-29, 1846.) Tomaso Luciani. Sui dialetti dell'Istria. Capodistria, 1S76. G. Ive. Canti popolari istriani ecc. Torino, Loescher, 1878. G. Ascoli. Archivio glottologico italiano, t. I, pag. 4,;.>-tt7- B. Benussi e G. Ive. Storia r dialetta di Rovigno. Trieste, 1S8S. LA POPOLANA DEL M A K K 2/-j Secondo Ermolao Rubieri, la regione che mostrò più aperta simpatia per il metro toscano fu la remota Istria. Ma su questa terra, come in ogni luogo, la onesta poesia popolare va morendo, per lasciar libero il passo alla musa taverniera e chiassi ma. Mi stringeva il cuori- pensando che quella canzone era conìe l'ultima farfalla d'autunno che vola, senza trovar fiori, nell'aria rigida e fosca che gelerà la sua bella ala bianca. * ;H ;l- L'alba si levò ([nasi furtivamente; una luminosa irradiazione violetta scacciava le nubi e scopriva sul fondo torbido i bragozzi neri, (piasi tutti col corpo fuor d'acqua. La brezza larga, soave, sbatteva il mare, che saltellando con una piccola, rapida e (piasi lieta inquietudine, veniva a scuotere i suoi fiotti attorno alle barche. I pescatori erano sempre al remo, coi camiciotti di tela rozza e cruda, un orecchino all'orecchio sinistro, una crocetta di ottone fermata con lo spago al collo, bibre tenaci (pianto le querce che si fortificano alle intemperie, anime piene di fede. L'onda del giorno veniva lentamente, la fumana notturna si diradava ed allontanandosi pareva s' insaccasse nelle falde nuvolose dell'opposto orizzonte. Montauro ancora cupo, col profilo pesante, la testa rovesciata, nascondeva la sua pietraia che ha dato i marmi per i murazzi della Laguna, per S. Marco, per le Procuratie, per la reggia e per i sepolcri dei dogi, per i palazzi dei patrizi, per i molti edifìci bizantini di Ravenna. ') Noi ci dirigevamo verso Val di Muschio, e le isole di S. Andrea e ilei Piloti sorgevano sud' immenso lago, che ') La diga clic parte da Malamocco s'avanza per una lunghezza di 2122 metri. L'enorme prisma, elio costituisce la parte subacquea, è composto di grossi macigni di pietra tolti dalle cave dell' Istria e del litorale di Trieste. Il minor volume di tali macigni è un terzo di metro cubo. (I'rof. G. Foscolo. M/tizie delia Inguini ili Veneti«,J 27S marini: is i kiwi: lustrava con la tinta verde azzurra del berillo, richiamando un quadro della tavolozza potente tli Dal Bono. Piccoli battelli uscivano dai porti con le vele ritte a lancia, c le tartane aggruppate a sciami pareva formassero le mattutine assemblee pescarecce. I marinai che dormivano nelle brazzcre, messe in secco sulla spiaggia, si alzavano al raggio del sole che veniva a piovere loro sul viso e a destarli. Due delle nostre barche, venute accosto, presi i capi del Indro, si allargarono, calandolo in mare. Onesto attrezzo era formato da una lunga corda, munita di piombi, sulla quale ad ogni metro di distanza era legata una grossa frasca, che movendosi con la rotta dei bragozzi doveva spaventare il pesce e cacciarlo a terra. Quando eravamo poco distanti dalla riva, le gaffe che ci seguivano, accomodando una lunga e buie reticella alle spuntiere, la lasciarono scendere, seguendo il nostro cammino a tutta forza di voga, sino a che cacciandosi tra noi ci tagliarono fuori e serrarono la pesca. Dalla breve chiusa cominciò a sollevarsi il fruscio tlel pesce che voleva sguizzar via, e salpata in terra la rezzola, si vedeva tra le maglie il luccichio degli argenti rosati dei poveri prigionieri, che cercavano di farsi una strada per {sfuggire alla mano dell' uomo. Allorché partimmo, boccheggiavano nella sentina le salpe pavonazze righettate d' oro, le scoimene rosse con gli spontoni irti a tlifesa, le orate tutta una corazza ili acciaio. Erano le otto della piii bella mattina di settembre, e Rovigno se ne stava adagiata sugli immensi campi ulivati, tuffando i piedi del Monte-rosso e le fondamenta di un dimoio ili case nelle onde fresche. La città vecchia è un accozzamento piramidale di edifici fabricati sullo sccglio, con i due fianchi di abitacoli ROVIGNO — LA CITTÀ VECCHIA. LA POPOLANA DEL MARE laterali eretti sopra le rocce vive bagnate dal mare, le quali formano proprio le morse delle fondamenta; è un accastellamento denso, confuso, di case che si saltano addosso, che s'incavallano le une sulle altre per tutto lo scheletro sassoso del monte. Oliando, dopo il quinto secolo, la campagna, infestata dalle invasioni, non era più tranquilla nei suoi lavori, per le scorrerie dei Visigoti, degli Unni, dei Longobardi e dei Fran. hi, un pugno di gente riparò sull'isola sperando di trovarsi al sicuro da ogni nuova spogliazione, sapendo che gì invasori avevano paura del mare. Fabricò le casipole in alto, sul centro orientale, formando un nuovo borgo urbano. Ail ogni incursione barbarica nuovi fuggitivi correvano a chiedere pace all'isolotto, e le case crebbero, s'attaccarono una presso all'altra, saltando giù, strette, abbracciate insieme, pigiandosi, contendendosi l'aria e la Iure, sorgendo persino sull'ultimo orlo ilei massi calcarei che dovevano ripararle dalla rotta dei cavalloni, i (piali qualche volta urlando vengono tuttavia a rompersi, ad investirle, slanciando le volute schiumose sotto le finestre e un polviscolo salso sino all'alta terrazza del tempio di S.te Eufemia. Accresciutasi la popolazione si acchiocciolò sotto il castello sorto più tardi per proteggerla, cercò riparo con una muraglia che la coprisse dagli assalti di terra, mentre lasciò libera la fronte dell'isola già fortificata con i denti aguzzi c formidabili della scogliera tuffata nel mare. Dentro, gli abituri aumentarono a mano a mano, occuparono i più piccoli spazi, s'attaccarono alla cinta, e finalmente, un bel giorno, quando erano cessati i pericoli, la scalzarono, non potendo vivere soffocati, compressi da (pud bastioni, e le famiglie troppo addensate si ridussero ad abitare una sola stanza, in cui si costruiva un focolare, murando la canna esternamente, prolungando il fumaiolo sui tetti vecchi e negri, formando un mostruoso bosco tli pinacoli fumanti. In tempi migliori, il ponte levatoio, che dal torrione dava passaggio e faceva capo alla riva dell'opposto colle 28a marink istriani: tli S. Francesco, lo si cosi russe di pietra, c crebbe al ili là un borgo tra gli orti e le campagne, diviso da un canale, che nel 1703 Venne interrato per congiungere i due corpi insieme sotto l'unico stemma di Rovigno: la croce inclinata tra un ulivo ed una palma. S'erano raccolte insieme, in maggior numero, due classi: una di agricoltori, l'altra tli nomini tli mare. 1 .e occupazioni diverse, le opposte abitudini, i differenti metodi tli vita, tutto ciò non cancellava i ricordi delle difficoltà superate per stabilirsi insieme, non distruggeva il dovere della mutua difesa, non l'amore per la terra che le aveva albergate. Sapevano che Venezia, scorrendo i mari, le proteggeva indirettamente dalle piraterie, per cui, superati con coraggio i saccheggi degli Slavi, la loro dedizione alla Republica, nel 1283, diventava sicura malleveria di prosperità duratura. La opulenta regina lagunare, legittima erede delle istituzioni romane, prosperosa mercantessa, come ilice uno storico, ota p irgli 11 do, ora pagando, sposso romba fiondo, manteneva il monopolio commerciale. Possedeva all'epoca del suo splendore 3300 navi mercantili e le sue squadre volanti esercitavano il traffico sulle coste della Barberia, dell'Egitto, della Grecia, della Spagna, delle Fiandre; toccavano tutti i porti, tutte le coste, tulle le isole, tutte le fortezze soggette, facendo il servizio postale. L'Istria somministrava allora piti di ogni altra provincia del Dogado gli uomini di remo e gli esperti negli altri uffici marittimi. Rovigno era il porto che più di Ogni altro forniva la ciurma delle galere e dei navigli commerciali , ritraendo benefici considerevoli, giacché i marinai godevano il diritto di portare, escute di dazio, molte merci per proprio conto, ed i suoi piloti e capitani avevano dato tali prove di valentia da meritare speciali favori in premio di tante benemerenze. Erano obligati per legge di ascriversi alla scuola di S. Nicolò de' marinari e dopo dieci anni di navigazione godevano le grazie di collocamento per le figliole. La fi >r< »laka del mare :.\ ; I robusti figli dei pescatori erano abilissimi nel gettare i sassi e nel rompere i remi ai nemici. Ogni nave <> vascello, prima dell'uso delle armi da fuoco, teneva a bordo il carico di due battelli di ciottoli, che servivano per offendere l'inimico. «i marinai duravano in servi/io diciotto anni, ed Ognuno era tenuto ad avere un elmo di ferro o di cuoio, uno scudo, una spada, una lorica, un coltello, Se lo stipendio oltrepassava le trenta lire dovevano avere un terreo usbergo, una lancia, una balestra con cento quadrelli e un rampone per ghermire i remi.»') Durante la guerra di Chioggia, Vcttor Pisani cominciò ad.adoperare le bombarde di legno accerchiate e coperte di cuoio che tiravano palle di pietra; a Lepanto nel i 570 le galeazze tli Giannaiulrea badoero portavano trenta pezzi di artiglieria di bronzo e molte archibusiere detle tla posta, simili alle spingarde. * * * La modesta fortuna cominciava dunque a sorridere a Rovigno, che alzava il suo palazzo pretorile con toire e campana, lo fregiava di quadri e pitture; apriva la loggia perchè il podestà potesse rendere solennemente ragione. Spettava a questo lo scioglimento dei litigi, ed essendo giudice civile e criminale ad un tempo, pronunciava le sentenze contro i colpevoli, assistito da due giudici tli professione, i (piali dovevano accompagnarlo sempre quando usciva. L'amministrazione, scrupolosamente regolata, aveva per oggetto il bene start; del popolo; il senno del veneto governo carezzava le passioni orgogliose delle cittadinanze, e cercava, per (pianto era possibile, di non rendere duro o scarso il pane tlel popolo. Voleva l'ordine, il rispetto, il ') Sino alla metk del XVI secolo i remalori delle galee erano liberi Cittadini di Venezia e delle varie provincie della Republica, ciascuna delle «piali doveva fornire un numero proporzionalo ai suoi abitanti. Col crescere dell'agiatezza e della civiltà l'inscrizione dei remalori o galeotti, come allora chiamavansi, andò diventando più difficile e si lini col trarli quasi esclusivamente ilei poveri territori di Grecia e della Dalmazia. Cosi il contrammiraglio della R. marina italiana L. Fincati nel suo volume: /.<■ TWremi; Roma, l8Si. 2^4 MARINI'. ISTRIANI-: fasto in ogni movimento dell'autorità, ma le leggi di puhlica economia, uguali per tutto lo Slato, poggiavano su fondamenti benevoli per le masse. 11 consiglio maggiore rappresentava la volontà del paese; l'arengo del popolo, convocato raramente, quella delle classi inferiori. Il sindaco vegliava sull'amministrazione; il camerlengo spendeva, incassava, lasciando i registri aperti a tutti; il cancelliere curava gli archivi; il fonticaro fissava i limiti nel prezzo di vendita delle derrate: i giustizieri erano sopra i pesi e le misure; i saltari invigilavano le guardie campèstri; il massaro delle armi ed il puhlico nodaro completavano la gerarchia maggiore di questo meccanismo che Venezia ordinava nelle province. Se accadevano adusi, il Senato rimediava presto con la sua rigida mano; il governo era da per tutto; il leone dormiva con gli occhi aperti. I popolani vedevano ili mal animo che soltanto i cittadini disponessero della facoltà rappresentativa e sedessero nel maggior Consiglio, e con i torbidi e con la insistenza riuscirono ad ottenere che due eletti da loro potessero assistere alle adunanze senza diritto di voto e di parola. S'erano vendicati i osi della ingiustizia che li proscriveva dalle aule consigliali, e quei due muti ma vigili guardiani erano una perpetua offesa al corpo deliberativo, posto sotto il sindacato dispettoso e fazioso della moltitudine. Ma anche col clero s'impegnavano litigi, per quanto fosse determinato il confine oltre al quale non dovevano andare le attribuzioni e 1' autorità dei corpi morali. Nelle carte di pace stipulata dopo finita una controversia, si legge questa nota curiosa: «Che in tempo ili lite tra ('oinuiie e Capitolo, la parte vittoriosa non potesse suonare Campano, briniti si canzonavano annunziando il buon successo di una eausa, sostenuta uno in odio dell'altro, scampanottando a tutta festa.» E mi piace qui aggiungere che La parola campano era in uso a Venezia. Il Gallicciolli dice che far campano valeva suo naie a festa. A 1,A l'Oi'i »LAN \ DEL M vin- 1 litigi tra la Magistratura c gli ecclesiastici erano frequenti in ogni luogo. E il veneto Senato doveva molte volte intervenire per metter fine alle ire dei contendenti. Per troncare una contesa nel 1620 ordinò, per esempio, che in tutto lo Stato si usino due turiboli, sì che, salva la prerogativa episcopale, con uno s'incensino i ministri, canonici e clero e con l'altro contemporaneamente il Magistrato e persone onorate. I podestà veneti, la cui nomina partiva dal palazzo ducale, non incontravano sempre le simpatie,de' soggetti, e la mordacità metteva il dente sul loro strascico di servi armati, sud equipaggio, che si doveva mantenere con le publiche spese, sulla dubbia scrupolosità amministrativa, sulle curiose prebende che godevano e che bisognava rispettare. Avevano, tra altro, verso la fine del 1500, diritto a tutte le lingue degli animali grossi macellati, e quello di pagare la carne ed il pesce per proprio uso, ad un soldo la libbra. ') Venivano festeggiati per lo più all'arrivo, e salutati qualche volta alla partenza con un frizzo un po' franco e triviale: Evviva el podestà novo Perchè el vecio ri gera un lovo.2) Rovigno viveva tuttavia lieta; era semplicemente una agiata popolana, perchè il lavoro tlel braccio non dà ricchezza. Contava pochissimi nobili, non troppo grande la classe ilei cittadini; e le concessioni della Republica avi-vano messo in rilievo la personalità dei suoi marinari e dei suoi campngnuoli, e le fraglie, che esercitavano tanta influenza in ogni publico fatto, giovavano a mantenerle il carattere per natura, decisamente, democratico. Aveva anch'essa i suoi bombardieri, militi urbani, in cappello tricuspidale, abito turchino soppannai > ili rosso, brache e farsetto di dante, e in mano la corta alabarda. ') Anche a Trieste i lomboU di manzo dovevano essere rendati prima a certi uffizi idi. •) B. Benussi e G. Ive. Op. eil. 286 marini; i m1 k i \\r; Non poteva imprendere di grandi ed importanti opere pitbliche perchè lo spazi*) non io permetteva nò consigliava, e le reudite comunali erano appena sufficenti a tenere bassi i balzelli. Là piccola chiesa di S. Giorgio, sulla maggiore altezza dello scoglio, non bastava a contenere l'arca marmorea di S. Eufemia; che nell'Soo, secondo la pia leggenda, giunse galleggiando a quella costa; si murò net 950 un nuovo tehipiò a tre cùpole, intitolandolo alla martire calcedonese, e si riedificò completamente il duomo attuale portandolo a compimento nel 1756. Ebbene, per tutte queste costruzioni occorse l'obolo dei lavoratori, le cui donne, quando si fuse una delle campane, gettarono nel crogiuolo i bottoni d'argento delle vesti dei mariti, i loro aghi da testa e sino gli ornamenti ti'oro. La imposta volontaria contribuiva alla edificazione dell'unico cospicuo monumento, che col suo campanile isolato giova a documentare la nazionalità istriana anche nella architettura religiosa. Questo particolare artistico della torre discosta e separata dal tempio bisogna notarlo, dacché 10 incontriamo a Parenzo, a Cittanova, ad Umago, a binino, ad Isola, a Capodistria ed a Muggia, e dacché ha dato motivo a Thédphile Gautier di scrivere: Histria veneril. Le tracce di questa iscrizione sono ancora visibili. 11 dott. Pietro Pervanoglù Areheografo triestino, 4 febbraio 1880) dimostrò chiaramente l'erroneità della supposizione, provando che gl1 Istri non erano ballerini o saltatori, ma piuttosto danzatori sacri, e punto provenivano dall' Istria. l'ol,\ 331 Risanate le paludi, s'era condotta una ricca fonte d'acqua : questi i primi provvedimenti che si prendevano in riguardo alla puhlica salute. L'aria dicevasi sana, il luogo delizioso. Sappiamo poi come presiedessero all'edilizia propri ufficiali perchè il decoro o la sicurezza non venissero posti in compromesso dalla grettezza o dalla inscienza dei costruttori. L'imperatore Adriano, consumando sedici anni, percorse a piedi ed a cavallo tutte le province, affine di suggerire gli abbellimenti e correggere gli errori dell'architettura. Si spandevano per la spiaggia e sui lontani rialti piramidi, archi, sepolcri, colonne funerarie e votive. Le isole, dette più tardi degli Olivi, S.u Caterina, S. Pietro dell'Orazion, S. Andrea e Serra, davanti al porto, erano occupate da ville adagiate su tappeti di giacinti e narcisi, sotto la frescura delle palme e l'ombrìa dei platani, adornate di calerà, dipinte col verde delle rampicanti e con le ciocche dei fiori che pendevano tra le ghirlande correnti da una chioma all'altra degli alberi. Il Giachi scrive che i Romani nel disegno dei parchi ebbero presente non la natura vergine, ma la natura lavorata. « Stradoni con massicce pareti vegetali, lunghi e dritti come i solchi ; prati circolari o quadri, ma sempre regolari e piani, come l'aia domestica; cunicoli di verzura come pergole di viti. La natura vergine dissimulavano, o meglio sforzavano in mille modi, tanto che i topiari romani sapevano tagliare in guisa le piante frondose da rappresentare con esse le lettere componenti il nome del padrone della villa, e arnesi di guerra e animali. Depravazioni del gusto, ma insieme esprimenti l'ingenito abbonimento del selvaggio e di epici non so che di vago c d'indefinito, che svolgendosi con eterno moto par che metta la natura nelle opere sue ».]) *) Amori e costumi latini; pag. 344. Città di Castello, S. Lapi tip. edit. 1885. Agli epuloni non bastavano i ridenti golfi di Taranto, di Sorrento, di Napoli, i laghi dolci del Nord: avevano invasa la riviera dell'Adriatico. Sontuose ville, simili a quella recentemente scoperta a Barcola presso Trieste, ricorrevano per la costa istriana, e in numero maggiore nel territorio pclese. Kbbero qui poderi splendidi le famiglie imperiali, e vi convennero gli stessi imperatori. Antonia minore, ritiratasi, dopo la morte del marito, a Pola, vi educò il figlio Claudio, quell' imbecille che fu strumento di Messalina, e Germanico, il vincitore di Arminio. Costantino, che vestì negli ultimi anni all'asiatica, imbellettandosi il viso, divenuto dopo tanta gloria un pupazzo bizantino, relegò a boia il figlio Crispo e ne ordino la uccisione nel 326 sulle false accuse della moglie Fausta, che fecegli credere la sollecitasse a turpe infedeltà. Crispo, il vincitore dei Franchi in Occidente, era figlio di Minervina, prima moglie di- Costantino, odiato dalla matrigna Fausta II, che temeva togliesse il trono ai suoi figli siccome primogenito. Accusò il figliastro, che tradotto in catene a Pola venne condannato a bere il reietto. La città gli fece solenni funerali e sparse fiori sulla sua tomba. Eletta (S.u Elena), madre di Costantino, scoprì la iniquità della nuora e ne rese consapevole il figlio, che fece soffocare Fausta in un bagno di acqua bollente. Allorché durante la dominazione francese si eresse sull'isola di S. Andrea il forte Napoleone, venne in luce la pietra sepolcrale di Crispo. * * * Giungevano in Pola i magistrati spediti nelle colonie e i capitani delle legioni, che avevano 1' ufficio di perlustrare i confini con le minori biremi, condotte da valenti rematori del Napoletano e della Dalmazia. Al movimento del porto sopraintendeva il prefetto marittimo; la flotta romana, che teneva stazione nelle acque ■ ... VOLA. 33j di Grado, veniva a gettare le ancore, con le scrilU, navi da trasporto ad una sola vela latina, i divinali, veri colossi, coi mangani da rovesciar mura, quindi le galee svelte, a due timoni, armate di due torri mobili, catapulte e il corvo di Duilio, specie di lungo ponte, girante nella base attorno 1' albero, alla cui estremità opposta era fissato un rampone che inchiodava i due navigli insieme e rendeva con ciò possibile il combattimento della ciurma corpo a corpo. Pola aveva grosso numero di artieri, fra questi i den-drofori per la costruzione delle navi: sede del procuratore, occupava il primo rango fra le città istriane. Era porto militare, e se a Ravenna, dove stanziavano grosse flottiglie, si trovavano i grandi bacini per le costruzioni, officine per le vele e l'armamento, dunque un vero arsenale, Pola era il porto in cui si eseguivano le riparazioni sui legni che stavano a guardia nelle acque gradensi o ravennati. La ciurma marinara, tenuta in minor conto dei legionari di terra, veniva tolta dalle basse classi ; le città istriane fornivano un grosso contingente alle trieri ed alle liburniche, che allora portavano il nome secondo le figure dorate, le sirene, i mascheroni che sorgevano sotto lo sprone di prua. E quanta parte prendessero le nostre città per la natura litorale al movimento marittimo romano, lo prova il fatto che il tempio delle divinità Capitoline eretto a Trieste venne dedicato dall'ammiraglio di Ravenna Godio Quirinale, e quello di Nettuno a Parenzo, dopo rifatto, da Tito Abudio Vero Postumo, vice ammiraglio di Ravenna. In Albona esiste una pietra di Vesclevesi Petronio, con una mezza figura di uomo che tiene una corda a cui sta attaccata un'ancora. Il Luciani ed il Kandler ') dicono che la lapide abbia voluto onorare un capo dei piloti della costiera istriana, cioè uno del corpo dei ferentan marini. Di Fianona ') L'Istitit, anno IV, N. i, 1849. marini: [STRIANE poi si rileva da manoscritto del 1796, che in una chiesetta vi era una lastra di marmo dedicata ad un comandante di quinquereme ed a sua moglie, indizio certo che stazionava la qualche bastimento romano. Abbondavano lungo la costa i pescatori di conchiglie porporifere per le tintorie che esistevano presso la punta Barba riga sull'isola di Cissa ed altrove. Si raccoglievano i murici (in dialetto garttsej, che macinati davano un sugo in cui s'immergevano le lane ed i tessuti, oppure si toglieva alle porpore quella vena del collo che conteneva il fior rosso. Nel territorio di Valle i gusci di questi crostacei coprono un intero campo, con lo spessore di oltre due piedi. * Dodici porte davano uscita, sette dalla parte del mare, cinque dalla parte di terra. Porta Gemina metteva alla strada militare, che attraversando b Arsa scavalcava Albona e s' inoltrava nella Liburnia. Essa esiste tutt'ora, spoglia degli ornamenti di bronzo che l'arricchivano, e viene a ricordare come i Romani inventassero l'arco, questa costrutlura che legando insieme i muri o i pilastri alleggeriva la massa e formava quell'organismo donde si svolse più tardi la eleganza meravigliosa delle chiese romanze e lombarde e la leggerezza incantevole dei templi gotici. La porta d'Ercole è piccola, ha la rozza scultura della testa dell'eroico figlio di Giove e di una clava. La inscrizione ricorda i duumviri che governavano Pola a quel tempo. Lo Stancovich è d'opinione che servisse di passaggio al tempio eretto sul cqlle a quella divinità. Porta Minerva conduceva al teatro, del (piale rimane poca traccia; ma il nome si conserva ancora nella parola Zaro, corruzione di Theatrotl. Al suo posto sursero nuovi edifici, e due colonne con stupendi capitelli lo ricordano nella incassatura della scala che mette in comunicazione un POLA — PORTA GEMINA. cortile interno con il giardino del sig. Schram. Era disposto a semicerchio. Il vescovo di Trieste Andrea Rapido nel suo poema \'Histria, dell'anno 1556, lo chiamava un miracolo. Sebastiano Serbo ne cavò i disegni nella prima metà del XVI secolo e lo illustrò. Scrive che era di stile corintio, con ricchi colonnami ed ornamenti di pietra viva, giudicando dalle spoglie e rovine rimaste ancora in piedi. Dopo i danni di un terremoto, ne avrebbero precipuamente iniziata la distruzione i capitani di Venezia per ri-Btaurare le mura della città dopo gli assedi frequenti, e b avrebbe compiuta 1' architetto della Republica veneta, Antonio Dcvillc, che adoperò (pianto restava per costruire il castello sul Campidoglio. Molte delle splendide colonne che si ammirano nella chiesa della Salute in Venezia appartenevano al teatro, capace di diecimila spettatori. ') La porta Minerva venne distrutta prima, ma non si sa quando, se al tempo delle guerre o dei vandalismi, bua la maggiore; da essa partiva la via Flavia, grande arteria commerciale, che faceva capo al porto Flalìatico, cioè a MedoHilO, sul Guam aro. Si chiama anche porta Aurea. Alcuni dicono pelle scolture dorate nei fondi; altri sostengono che questo nome le venisse dai bei cancelli gialli che la chiudevano. Consisteva di tre grandi archi: il centrale destinato al movimento dei carriaggi, i due laterali al passaggio dei pedoni. In alto, sopra l'attico, sovraneggiava la statua ') 11 provveditore di Pola Vincenzo Bragadin nella relazione al Senato della Republica, 26 aprile i6jS, scrive: «Quattordici colonne ili marmoro greco sono stale di ordine mio ritrovale fuori della città di Pola, in una chiesa antica, già precipitata et abbandonata dalla spiritual cura, sepolte fra quelle cadute mine, et per parte pur ancora incalcinate nel muro, delle quali diedi con mie lettere parte a Vostra Serenità, et da lei anco commissione con Ducali che siano come proprie preservate, come si ò seguito puntualmente per 1' impiego della Madonna della Salute. » in marmo di Minerva. Distrutta la porta, restò libero il famoso Arco dei Sergi, ch'essa mascherava e che sino al 1857 aveva i borni fissi in un avanzo dell'antica cinta romana. Alcune catapecchie si stringevano intorno a questa magnifica opera d'arte. La ingombravano, soffocandola nella angustia dello spazio, e la offendevano con la miseria dei muri sudici e poveri. Un giorno si atterrò tutta quella bordaglia di topaie e stamberghe e l'arco spiccò sul campo largo dell'aria; sembrò allora maggiormente degno di rivaleggiare in bellezza con quelli che si ammirano a Benevento, a Susa, a Rimitii, a Cavaillon e ad Orange, illustrati e comparati da Durand e Tiranesi. L'ostentazione di omaggio ai Sergi non bisogna cercarla nei publici fatti della vita romana; l'arco di Pola è la privata onoranza di una moglie amorosa al marito quando tornò vittorioso dalle battaglie; le parole incise sul fregio dicono: SALVIA POSTUMA SERGI! Ut: SUA PECUNIA Ciò vuol dire eretto con suo proprio denaro alla memoria di LUCIUS SERGIUS LÈPIDUS, edile tribuno militare della ventinovesima legione ; l'arco ricorda però in pari tempo due altri membri della famiglia. I Sergi occupavano ancora sotto la Republica cariche importanti; sembra che un ramo di loro famiglia venisse mandato a Pola per dar lustro alla colonia. L' arco è dei tempi di Traiano, di stile corintio, con doppie colonne scannellate e bassorilievi di fina esecuzione. Kohl lo chiama «ta quarta gemina di Pota, scampata alla ira degli Illirici, alle barbarie degli Slavi, al bombardamento dei Genovesi». ') Tutti i particolari sono di fattura gentilissima, e benché il tempo abbia distrutto buona parte del lavoro ornamentale, ') A'i'isi- initli fs/r/t/t, Dalniiitii-ii timi Mo}ittfUg~rO, Dresda), Anioldischc lUtchandlung, 1856. FOLA — ARCO DEI SERGI. sì scorgono i delicati intrecci di viticci, le bighe ai lati delle inscrizioni, nonché due vittorie con le destre distese ed una corona in mano negli angoli, formati dalla curva dell'arco, e le colonne; nel centro della vòlta vi ha una serpe alle prese con un'aquila; v'è poi sparsa una quantità di altri attributi e disegni di carattere simbolico. Quando un vincitore entrava in Roma sulla quadriga, con la toga trapunta d'oro, lo scettro in pugno, preceduto dal bottino di guerra e dai prigionieri, doveva passare sotto l'arco di trionfo, di legno, eretto per la occasione, addobbato di panni color porpora, fregiato con i pugioni, i gladi, le insegne legionarie sovra l'attico, e i rostri di galera se era marino. Due vittorie sospese, con un movimento di molle, poggiavano rapidamente il lauro sulla testa del generale. Tutte queste decorazioni ed ogni apparato della solennità passarono quindi nella scoltura monumentale destinata a celebrare soltanto le memorie degb imperatori. l'Arco dei Sergi è uno dei modelli più perfetti che eternino il ricordo dei portici occasionali, elevati per i tre-centocinquanta trionfi di cui mena vanto la epopea romana, ed è una rarità, inquantochè magnificava un edile, seppur eroe e vittorioso, con monumento destinato soltanto alla gloria dei Cesari. * * I Romani, ch'erano giunti ad eminente civiltà, sapevano sfruttare i paesi allora soggetti. De strade erano a quel tempo animatissime : vi [lassavano i mercanti provenienti dalle terre più lontane, dove si recavano ad acquistare gli oggetti richiesti dal gusto raffinato e dal lusso eccessivo. Alcune Centurie apposta guardavano questi veicoli del commercio. Pola era lo scalo dei prodotti di tutti i paesi al di qua dei Balcani, mentre le regioni conquistate al di là del-l'Arsia dovevano fornire a lor volta una speciale qualità di mercanzia alla Roma golosa e lasciva, la quale, secondo j42 marini', isikiank Macrobio, voleva nei suoi banchetti fiori ti' inverno e neve d'estate. Dalla Palinodia giungevano l'oro, l'argento, il cuoio, la lana finissima; veniva il ghiaccio dai Carpazi; dalla Libumia l'ambra gialla, non bastando al consumo quella della costa Orientale dell'Adriatico. Da Pola una strada conduceva a Parenzo, si diramava a Cittanova, a Pirano, facendo capo a Trieste, la città rappresentata nella colonna Traiana di Roma. ') Quindi la grande arteria si prolungava sino ad Aquilcia, procedeva per la vallata di Monfalcone e per Ronchi sopra un ponte, i cui avanzi s'impiegarono nella fabrica del campanile di Campolongo,-) quindi, prendendo nome di strada Emilia Attillate, s'inoltrava a Concordia, di là a Padova e Milano. Le lapidi rinvenute spiegarono che non solo le imperatrici, come Fausta, Placidia e la moglie di Tiberio, venivano a far campagna da queste parti, ma che gl'imperatori vi mandavano anche le loro amanti, (piando volevano apparentemente rispettare il pudore, o stanchi di esse cercavano sbarazzarsene confinandole in una specie di pensionato. Si godeva allora molta libertà nel fatto di scacciare un J) Bartoli, Colonna Trajana; Roma, 1072. Piranesi, La Colonna Trajana; Roma, 1770. In uno dei bassorilievi, secondo Piranesi e molti altri che spiegarono le a/ioni scolpite sulla colonna, * si vede Traiano che avendo felicemente terminala la guerra 1 lacica s'imbarca col suo esercito a Trieste e il popolo glj fa acclamazioni festive per la vittoria e sacrili/,? per l'augurio di UH buon viaggio*. l)i fatti chi esamina quella scultura vede a sinistra in fondo un'ara ardente con un toro che aspetta di venir immolalo; emergono subito sulle onde inquiete due biremi coj rostro; di fronte, sulla riva, si scorgono undici figure, volle verso le navi, due delle (piali si baciano; vi sono am he alcune donne. Sid corpo centrale s'aggruppa la folla dei senatori e dei cittadini, in atlo di salutare l'imperatore; vent'una figura poi sogliono significare tanta gente (pianta ne può capire Io spazio, chiuso di dietro da una Curia, bell'edilizio a colonne di ordine dorico. A sinistra sorge il faro, presso a questo un ponte di pietra e due biremi coi remiganti. j Alcune pietre bellissime sono conservate nel Museo di Trieste. ___^_34J chiodo con un altro, di licenziare un vecchio amore con uno novello e di ripudiare anche per semplice capriccio la moglie. Sappiamo che nei tempi dell' impero fu così straordinariamente grande il numero dei divorzi, che narrasi una donna avesse sposati ventitre mariti, mentre per il ventesimoterzo era la ventiduesima moglie. Una lapide, posseduta dalla nostra provincia, ci mostra come Cesonio facesse scolpire i) proprio busto insieme con (piedi della moglie Cinzia e dell'amante Cilla. A boia viveva la celebre Ccnidc, che fu la concubina di Vespasiano. Questo imperatore, che scacciò i filosofi ed i poeti da Roma, che viveva come un umile cittadino, che volle reggere un impero senza feste, che mutò il trono dei Cesari in quella rozza sedia su cui sedeva da mattina a sera per dedicarsi ai publici affari, fu detto da alcuni un sordido avaro, ed aggiunsero che Cenide, quando era già vecchia, e non serviva più ai lubrici amori, vendesse cariche, sacerdozi, magistrature, per ingrossai^ il proprio patrimonio privato e quello dell'augusto amante. Non è accertato se Cenide fosse istriana o venisse da Roma a Pola; si sostiene che l'imperatore, a cui piacevano gli abbellimenti publici e che aveva nella capitale fatto costruire il Campidoglio ed erigere il tempio della Pace ed il grande Colosseo, per compiacere l'amanza che portava affetto al luogo scelto per il tardo riposo, facesse innalzare il grandioso Anfiteatro, che ancora esiste. Qualche scrittore appone data anteriore a questa Arena, facendo rimontare a due mila anni la sua costruzione; e il popolo, che ama dir la sua, creò una leggenda. L'Anfiteatro sarebbe opera di una fata, cui venne concessa una breve notte estiva per fabricarsi la reggia con tutta la maggiore suntuosità ed il più grande incanto; la fata lavorò senza riposo, quando ad un tratto udì il canto del gallo e vide il primo nastro di luce mattutina all'orizzonte. La sua opera era rimasta imperfetta ed il palazzo scoperto. Questa fola proviene dai tempi di mezzo, quando il sorprendente edilìzio aveva subiti i guasti prodotti dal dente dei secoli e dalla mano degli uomini. Già nel primo fiorire del cristianesimo i discepoli della nuova religione mal soffrivano che quel monumento pagano rimanesse alto ed incrollabile ; i Bizantini lo ridussero a bazar, dove accedeva il popolo pigiandosi ai banchi dei venditori di profumi, di sorbetti, di crema e di eccitanti leccornie. Sopravvennero i Templari e lo mutarono in campo di esercizi delle milizie; nel 1400 s'incominciarono a demolire i gradini per fortificare la città; poi si spiombarono gli arpesi di ferro che legavano pietra con pietra, cd i poveri barcaroli caricavano le barche con gli storici sassi e li portavano a vendere in Venezia. Si fabricavano casucce con quel materiale che cadeva sotto ai colpi del piccone vandalico, ed un patrizio veneziano propose al Senato della Serenissima di far trasportare a proprie spese quella mole per riedificarla sulla spianata degli attuali giardini publici, affinchè: «dalle navi, ch'entravano nel canale di S. Marco, si ammirasse innanzi ad ogni altra cosa quel potente saggio dell'audacia e della ricchezza veneziana ». ') E la si voleva rialzare secondo alcuni in fianco all'eremo famoso che custodiva in pace le ceneri di Veltor l'isani, secondo altri nel campo dei S.lì Giovanni e Paolo.2) ') L. Seguso. I giardini publici ili Venezia. Venezia, 1SS7. ') Nella parte seconda delle A/c Morie socie e profane dell Istria, del dott. Prospero Petronio, manoscritto esistente nell'archivio di Stato a Venezia si legge: «A ricordo di alcuni ingegneri volevano per il passato disfar la Rena, e riporla nella piazzagli S. Giovanni e Paolo in Venetia, dicendo che in occasione di guerra poteva esser riempita di terra dall'esercito nemico, e da quella parie batter la citta, il che mostri1) rincontrarlo il signor De Ville nel libro accennato, esortando la Serenissima Republica a non disfar cosa cosi riguardevole e maestosa, e che non si poteva altrimenti riempir di terra pei la debolezza dei muri, di immensa fatica e spesa e tempo.» Pola — Anfiteatro POLA .149 Nella seconda metà del secolo XVI il Senato di Venezia si era adunato per deliberare sopra un'altra strana proposta: quella di demolire l'Arena per adoperarne le pietre nelle costruzioni. Ma questo triste pensiero venne sventato dal senatore Gabriele Emo, che propugnò efficacemente la sua conservazione. I Polesi allora, commossi, la dedicarono allo strenuo difensore, ponendovi la seguente epìgrafe : D. 0. M. Antiquissitnttm Urbis Atnphitheatrwn — Gabrieli Emo — Petri Fitto Veneto Senatori Optimo — Ae Piaccia-rissimo — Universa Polae Civitas — Perpetua e Obscrvantiae Monumcnt • J)icavi( — MDLXXXIV, Ma a noi non deve giunger novo il poco amore ed il disprezzo delle antichità nel medio evo, nò deve maravigliarci se molte urne vennero convertite in pile da olio, e si fusero oggetti di metallo d' indubitato valore artistico, e conche dell'epoca imperiale si mutassero in truogoli por cini, e le epìgrafi servissero da lastrico alle cantine, e il campanile attuale del Duomo polese venisse alzato con pietre storiate. Marcello nella Siria, alla testa di una truppa di monaci ignoranti, atterrò i templi più cospicui del paganesimo e distrusse l'antica libreria dei re di Pergamo. Carlo Magno decorò il palazzo di Aquisgrana coi marmi di Ravenna e di Roma. Il Petrarca rimbrottava sdegnosamente ([negli Italiani che fecero con l'ariete più danno, che non ne avesse recato Cartagine con la spada dei suoi soldati, e deplorava che i marmi sacri dell1 antica capitale del mondo andassero a formare il palazzo di re Roberto e ad abbellire la oziosa città di Napoli. Al tempo dei Farnesi il Colosseo continua ad essere cava di pietre; il mausoleo tli Adriano è già il forte S. Angelo, da cui sbucano i cannoni dei papi, Urbano Vili coi bronzi dei bassorilievi e della porta del Pantheon ordinò si fondesse l'immenso baldacchino di S, Pietro. La porta Aurea di Ravenna fu spogliata di tutti i suoi ornamenti tla Federico II ed atterrata nel 1582 dal cardinale Ferrano, clic si servì dei marmi per altre costruzioni. Una lettera nobilissima di Raffaello a Leone X attesta la iniqua distruzióne che si consumava insensatamente da tutti. * * * Non ostante gì' insulti subiti per quasi un millennio, l'Anfiteatro di Pola è tuttavia il documento più completo di quel genere di fabriche che protrassero così lungamente la mostruosa caccia agli uomini. 11 Colosseo tli Roma è diroccato; la parte interna dell'Arena di Verona venne ricostruita con denaro degli Scaligeri. La nostra ha 72 arcate come quest'ultima, ma è di alquanti metri più piccola, potendo contenere 21,000 persone e 26,000 riempiendo l'ambulano, ossia la galleria superiore; dove la veronese era capace di 30,000 spettatori e di 99,000 il Colosseo. Colui che la disegnò si valse destramente del pendìo della collina, sopprimendo nella parte alta un ordine di arcate; ma certamente la volle più stilizzata tli quante altre esistevano. Tutta di pietra viva, con quadrelli quasi conformi, è unii massa a bugile o bozze; tra i fori vi ha una colonnetta piana, che tagliando i capitelli dei pilastrini e l'imposta degli archi va a reggere l'architrave in ogni piano. L'ultimo ordine si chiude con la ricorrenza di finestre (piatire, come nel Colosseo. Lo stile sarebbe ([nello determinato da Palladio, come toscano; inni il dorico, indicato dal Serlio. Già nel 1621 cominciarono gli archeologi a studiare questa opera monumentale, tutta un elegante traforo e così candida da parer appena murata. Aprì la schiera * il Lipsio, lo seguirono Spolm e Wheller, T erudito Carlo Fontana e il Montfaucon; tutti occupandosene largamente asserirono che l'interno doveva essere di legno, distrutto probabilmente tla un incendio o dall'età. Il celebre Malici la giudicò un teatro; vi fu persino chi la credette un acquedotto. 351 Gian Rinaldo Carli si recò sopra luogo c cominciò ad intraprendere scavi sui monti di macerie accumulati, clic coprivano il campo dei combattimenti e seppellivano il podio, e trasse in luce alcuni indizi di scale, l'ubiicò una memoria che confutava e distruggeva tutte le anteriori asserzioni. Nel ] 816 il maresciallo Marmont e la sua signora fecero asportare una grande quantità di macerie e scopri rono un gradino. Nel 1826 Pietro Nobile rendeva possibili, mercè nuovi scavi, le induzioni del canonico Pietro Stancovich. Completati gli studi, venimmo a conoscere che oltre al posto destinato ai magistrati, ai sacerdoti, ai patrizi, ascendevano in giro i gradi divisi e numerati, a cui corrispondevano le tessere-, equivalenti queste ai nostri biglietti di scanno. Sembrò il parapetto del podio troppo basso perchè l'Arena avesse potuto servire agli spettacoli delle fiere, e si riscontrò una carcere sotterranea che non provvedeva alla divisione necessaria delle belve in tante celle; ma è noto come gli spettatori fossero divisi dal pozzo della bitta mediante ringhiere di ferro, fatte a guisa di reti, munite di denti ricurvi, taglienti e più lunghi di un aratro; del resto i leoni, le tigri, le pantere, gli elefanti non stavano chiusi nelle cave sotterranee, ma si custodivano nei vivarì o serragli e venivano condotti in gabbie nel Circo. Ce lapidi raccolte nei Musei ci narrano che avessero nomi di valenti un certo Decoralo, gladiatore triestino, un Jh'/v/eo, capodistriaiio, famosi quanto il Pontino di Prescia ed il Ceneroso, reziario di Verona. Non dobbiamo ammettere che a Pola s' imitassero le grandi cacce di Augusto, in cui si uccidevano tremile bestie feroci, nò che emulando la dilapidazione dell1 ottavo consolato si offrissero al puhlico le naitntacltii, specie di combattimenti navali e contro animali marini; ma anche qui pugnarono uomini, volontari come i pretoriani, costretti come gli schiavi, condannati cerne i prigionieri di gueira POI.A c i delinquenti. K lottava a cavallo, a piedi, in duello, a truppe, gente fatta nemica in quel momento, spinta ad uccidere pur di uscir, salva ed applaudita, dalla tenzone. Quando vi trovate nel centro di quella bianca ghirlanda di marmo, che corre in giro con le ampie arcate, oltre le (piali di giorno il sole manda, camminando in giro, il suo strascico di fiamme d' oro, e di notte passano le stelle come lumi di Dio, vi sorprende un pensiero per dirvi 1 che sarebbe stata una rivendicazione umana distruggere sasso per sasso quel circo, dove gli applausi pari ad una folata di vento salutavano il gladiatore, die scannava, sotto gli occhi di tanto popolo in festa, un fratello; ma poi vi sopravviene in una vampa superba l'altro pensiero : che siete voi, fra i pochi, a possedere ancora intatte le mura di un monumento dell'antica madre della civiltà che sovrastando a tutte le nazioni, come disse un poeta, «su ogni altra risplende per quella sua indole eroica, spirante un orgoglio immenso,.5) Là dove il lauro incoronava la fronte del vincitore, oggi cresce un' erba folta che cerca ogni screpolo, ogni fessura, e mette fiori alle prime arie calde del maggio. L'archeologo vi entra e non vi studia che i materiali della sua scienza; la curiosità volgare si compiace dell'effetto prodotto dall' ammirabile carcassa. Passa come un sogno l'atrocità degli spettacoli, in cui Roma mostravasi lieta di palpitare nel sangue, e sino all' ultima ora della sua grandezza negava ai feriti la spugna e 1' aceto perchè dessero esempio di fortezza, e, se anco vissuti schiavi disprezzati, morissero eroi. Viene un ruggito dai rottami e dalle caverne, viene dalle vostre memorie, ^e vi accompagna fuori; le chiese diroccate e il palazzo del Municipio vi annunziano che, caduto l'impero occidentale, Pola passava per seicento anni sotto la doppia feudalità della ciresa e dei conti e marchesi stranieri. ') Alessandro Verri, Ir Xol/i roiinim-. P< )!. \ 5.? Il Cristianesimo incalzava la Roma pagana a scomparire, camminava libero le strade e s' imponeva. Era come la luce del giorno che caccia all'opposto orizzonte la cortina delle nebbie notturne. Aveva trionfato e trionfava effondendosi da per tutto. Doveva essere un gran giorno quello, in cui l'imperatore Teodosio propose al Senato di deliberare sul quesito: Se il culto di Giove o quello di Cristo avesse ad essere la religione dei Romani. — Truden/.io mura che il Cristianesimo ebbe un maggior numero di voti. Ma fuori dell'augusto palagio vi era ancora il partito pagano che non poteva rassegnarsi a distruggere tutto l'onore dei collegi sacerdotali. C era una gente che si recava sconsolata davanti agl'idoli, mentre un'altra accorreva alle nuove chiese. Ma già i templi che onoravano Marte, Giove e Mercurio o Venere, prestavano i loro muri o davano, rovinando sotto il martello vendicatore, ai santuari cristiani le preziose decorazioni di bronzo e d'argento che li avevano fatti suntuosi. Gli altari con la loro forma ricordavano i sepolcri dei martiri su cui ufficiarono i primi Cristiani. T bagni fornirono il disegno ai battisteri, e non si tenne conto se una vasca destinata alla immersione dei neofiti avesse servito ai lavacri delle belle romane. A Fola si adoperava quale pila di acqua santa nel duomo una bacinella di marmo, con figure di donne tutt'altro che religiosamente composte, dedicata a Venere ed alle sue sacerdotesse. Nel 1860 venne tolta per ordine del vescovo di Paren/.o. La Peata Vergine del Canneto, che sorgeva a Pola e che va, per i ricordi scritti su quella abbazia, più in là del 546, venne murata coi resti del tempio di Minerva. I por« fidi, la breccia africana, il rosso d' Egitto, erano passati dall'edificio degli Auguri a quello dei sacerdoti di Gesù. MARINE ISTRI k.NE Quando entrate nella Metropolitana di Ravenna, rimanete colpiti dalla sfolgorante ricchezza ; vedete le colonne di verde antico, di alabastro cotognino, di marmo così raro nella vena da somigliare a code di pavoni. Là sono incancellabili le tracce del tempio di Giove capitolino. Visitando la sagrestia, scoprite un trono pastorale, chiamato la cattedra di S. Massimiano; è tutto di dente d'elefante: S. Giovanni battista ed i quattro evangelisti occupano cinque nicchie, chiuse da due fasce, con ramo di vite ed uccelletti; vi si scorge pure il monogramma di qucll' arcivescovo. Nelle pareti del coro di S. Vitale vi mostreranno incrostato nei mosaici l'atto della consacrazione pontificato da S. Massimiano. Un povero diacono, nativo di Vistro, borgata polese, mentre vangava la terra per gettare la semenza del grano, rinvenne un deposito d'oro sotterrato nelle zolle del suo campiceli©, Riempì una grande pelle di bove con tutte quelle monete e si recò a deporlo a'piedi dell'imperatore Costantino. Egli giungeva con gli ambasciatori che recavano la notizia della morte di Vittore da Ravenna, e subito, premiò a quella sua tanta onestà e devozione, veniva mandato ad occupare la vacante sedia arcivescovile. Era quel Massimiano di cui parla la cattedra d' avorio, celebrato nei più preziosi mosaici del mondo. Per onorare la terra che gli aveva dato i natali, giunto all'alta dignità della gerarchia ecclesiastica, con proprio denaro fece costruire la chiesa della Beata Vergine del Canneto e la dotò. Pola sino alla conquista di Carlo Magno conservava intera la sua forma, meno le modificazioni recate dall'arte cristiana, che (pianto più s'allargavano le conquiste della religione, tanto maggiormente si spiegava nell'architettura dei monasteri, delle abbazie e delle chiese. Intanto venivano, per la scala degli anni, uno dopo l'altro, gli ordini monastici: Agostiniani, Zoccolanti, Benedettini, Templari, Cavalieri di Kotli, Cistercensi, Camaldolesi: una turba di cappe e cappucci, di teste nude e rase, di cappelli a barchetta, di cocolle e tonache, che distinguevano i diversi istituti. E dietro a questi, i pellegrini, che si fermavano sulle piazze e cantavano davanti ai curiosi le avventure del loro vagabondaggio. Si fabricarono allora templi, oratori e cappelle in ogni dove. Surse una chiesa poco lungi dalla porta d'Ercole, dedicata a S. Stefano; un'altra a S. Francesco sul colle del Castello, una terza a S. Michele sul colle dello stesso nome; e le case di Dio, nello splendore della prima età, occuparono le isole del mare e montarono i poggi più lontani. Il duomo più tardi raccolse intorno di sè tutte queste stazioni della fede.1) La città sotto l'impero d'Oriente ubbidisce al maestro dei militi, governatore civile e militare, che resiede nel maggior palazzo, ed essa accoglie nel suo seno il Primate di tutti i vescovi istriani. E la capitale dell'Istria bizantina, ancora in fortuna, con tutte le libertà delle leggi romane, e Io spirito di esse incarnato nel popolo. Ed ecco, a soffocarlo con le sue mani questo municipalismo, la dominazione dei Franchi, mostruosa prepotenza di stranieruirie, maledizione di conti e marchesi che accende il foco delle contese nei comuni, e divide terre, e dona castelli, ed impone tributi, e minaccia e condanna chi si ribella e chi non rispetta con la umiltà il ladroneccio dei malvenuti oppressori. I vescovi erano partecipi delle spogliazioni; ebbero da Carlo Magno baronìe, poteri di giudicatura civile e criminale, ') Distrutto dai Genovesi nel iJ 79, venne ricostruito nel 1450 a tre navi, in forma di basilica; nel 1695 PLT opera del vescovo Bottari venne trasformato con quel miscuglio di stili che oggi presenta con i capitelli romani, alcuni archi a tutto sesto ed altri acuti. •j5ó iMAKIN'I. istriani; diritto di armamento nel dominio a loro ceduto. Il vescovo di Trieste portava il titolo di conte di Trieste, quello di Capodistria di conte di Antignana, (niello di Cittanova di conte di S. Lorenzo di Dada, quello di Parenzo di conte di Orsera e quello di Pola di conte di Galesana ; fatti potenti subinfeudavano dei propri diritti i signori di Duino, i Walsee ed altri; Votchcro, patriarca d'Aquileia, nomino propri vicari i Sergi di boia, derivati dal ceppo romano, ardita gente, nobile per coraggio, ma tiranna. Onesti i capitani che ressero Pola senza gloria e consolazione: impossessandosi dell'antica rocca del Campido glio, la mutarono in castello, tla cui fecero sventolare la bandiera con lo stemma formato da semplici fasce traversali gialle e verdi. Lassù i Sergi diventarono i conti di Castropola. E da quel momento incominciarono le lotte di due fazioni, tra quella cioè devota ai cavalieri della lunga spada che s'erano imposti alla città ed i Ionatasi che pretendevano il rispetto alle tradizioni, il libero voto popolare nei fatti maggiori della patria. Sbandita la pace interna, non v'era alcuna sicurtà di salute cittadina; l'odio inveleniva sempre più, Opponevansi ad ogni desiderio d'indipendenza i conti, gente d'arme, che voleva mantenere nella successione della dinastia la fierezza della nobiltà militare; basta il fatto che il loro Monfiorito, per risolvere una lite col vescovo di l'arenzo, si recò alla testa di un'accozzaglia di soldati a quella sede, vi entrò a mano armata, s'impossessò delle carte che giustificavano il diritto del prelato e le gettò in mare, sciogliendo con tanta brutalità la contesa. Dalla parte opposta, più che amore ad innovamenti o rimpianti per le perdute costumanze di libertà latina, si nutriva odio contro ai signorotti, e lo si spargeva perchè preparasse una rappresaglia, capace di spegnerli tutti col loro orgoglio. I Polesi di natura fiera si erano arruolati volontari alle crociate e si associarono a tutte le imprese che tormentarono le contee dei Franchi; studiarono la vendetta, maturarono il disegno. Era il venerdì santo del 1271. Dalla chiesa di S. Stefano s'avviava la processione con la lunga fila di sacerdoti, di cenobiti. di monache. Quella striscia luminosa di ceri scendeva con fantastico effetto nella notte, giù dal colle, illuminando le fogge uniformi ma varie di colore delle numerose confraternite, che cantavano le litanie, dietro ai ricchi pennelli e agli stendardi di broccato e di damasco. Ad un tratto il corteo si spezzò e gli uomini dalle cappe verdi buono addosso ai Castropola e li uccisero, mentre un altro manipolo di congiurati, penetrando in castello, compiva la strage. Un solo fanciullo venne salvato dalla pietà di un francescano, che lo calò mediante una corda dai bastioni, tenendolo poi celato nel convento. Questi fu Sergio II dei Castropola, che per gratitudine fece erigere di suo denaro la stupenda chiesa ed il chiostro presso le mura del Castello, ciò che viene a spiegare come quella famiglia ritornasse più potente di prima a signoreggiare. * * l'isa intanto prosperava; Vene/da e Genova portavano lungi la fama delle loro marine; un insigne spettacolo dava Firenze col fiorire delle arti e delle lettere, mentre Pola immiseriva sotto il guanto di ferro del rinnovato dominio; le case spante per le borgate si facevano deserte; la vita si restringeva al colle primitivo. Lo stesso palazzo di città, che i patriarchi innalzarono, non le dava nò lustro, uè speranza di prospcrazione. Lentamente deperiva: aveva nell'anima il desiderio di migliori destini e di rivendicazioni, e questo suo spirito lampeggiava come gli occhi ardenti di una moribonda. Mentre Dante arriva e va ad abitare nell' abbazia di S. Michele, Pola è uno splendido scheletro romano; intatti gì'innumerevoli sepolcri per la strada che usciva dall'Arco dei Sergi, per cui esclama il poeta: Sì come a Pola presso del Quarnaro Fanno i sepolcri tutto il loco varo. Nulla la rasserenava, nulla assopiva Ì litigi e le discordie. I Veneziani che tenevano d'occhio la decadenza istriana, e che attendevano il buon momento per allargare il loro raggio ducale, prima castigarono Pola con saccheggi perchè corseggiava il mare ed era amica dei nemici suoi, quindi patteggiarono coi Polesi l'obligo di tener purgati i mari dalla pirateria e vennero a scacciare i Pisani che l'avevano occupata. I Castropola tentarono di escludere Venezia; ma essa s'impose alle città litoranee che ad una ad una fecero atto di dedizione: così Pola nel 1331 dà alla Serenissima la sua fortezza, i suoi beni, la sua giurisdizione, ed afferma con la volontà popolare la sommissione a S. Marco, chiedendo come una tarda ma attesa riparazione il bando dei Castropola, che vengono relegati a Treviso. Si risvegliò e visse un secolo occupata nei traffici, come se la Republica le avesse trasfuso per breve ora parte del suo sangue. # Pola aveva già dato due dogi alla Republica e molte delle sue famiglie erano andate ad accasarsi in Venezia. Pietro Tradonico o Pier Tradomenego, rampollo di gente illustre passata in Equilio, poi a Rialto, è uno di (pici prìncipi di S. Marco che finirono la vita per vendetta delle fazioni. Strana società quella, che obbediva al Tradonico e nel medesimo tempo lo rendeva schiavo ai propri voleri; informe costituzione politica stretta ancora da barbare POLA 359 leggi, le (mali punivano con 300 soldi chi uccideva un uomo libero e con 50 soldi chi uccideva uno schiavo, mentre introducevano una riforma civile nel proibire le sino allora usate oppignora/ioni di femmine e fanciulle, di cavalli e di porci, sotto pena di 50 soldi. Il famoso corno d'oro, con le 24 perle orientali in forma di pera e il diamante mirabile ad otto facce e 23 smeraldi, che costava, secondo un più tardo apprezzamento, 150 mila ducati, e che sparì dal tesoro di S. Marco assieme coi corsaletti d'oro, che servivano per la festa delle Marie, e le corone dei re di Cipro e di Candia, venne regalato dalla badessa del monastero di S. Zaccaria al doge Tra-donico. Vero uomo di Stato, Tradonico sviluppò la marina, che doveva formare la massima potenza dello Stato, e dell' epoca del suo reggimento è notizia di due navi uscite dai cantieri, chiamate grecamente palami rie, così grandi come non se n'erano ancora vedute. Ma intorno all'astuto duca, che credeva di sapersi destreggiare, serpeggiavano passioni inasprite ed orgogli mal repressi. Le fazioni delle famiglie istriane Baseggio, Polani e della veneta Giustiniani, vennero in lotta con i Selvi, i Barbolani e gl'Iscoli. Il doge non piegò verso gli uni uè verso gli altri e cadde in odio a tutti. Il 13 settembre dell'864, mentre usciva processionalmentc dalla chiesa di S. Zaccaria, i congiurati con alla testa Stefano Candiano ed Orso Grugnario «nascosti dentro burchi di sabbia, presso la riva degli Schiavoni, uscirono disperatamente, dispersero la guardia e trucidarono il doge. Rimase lunga pezza il lacerato cadavere giacente sul suolo; ma sopravvenuta la notte, le monache di S. Zaccaria lo fecero togliere di là e seppellire sotto l'altare della chiesa». I servi e gli schiavi del morto si asserragliarono nel palazzo ducale, respingendo gli assalti per quaranta giorni e affermando che non avrebbero ceduto il luogo se non venisse fatta giustizia. Il popolo bandì alcuni dei complici e condanno a morte gli assassini, ed allora i domestici eli Tradonico restituirono il palazzo in cui s'insediò Orso Parteciparlo, ed ottennero l1 isola di Poveglia e molti privilegi, che durarono benché modificati dai tempi. Non pagavano imposte, dovevano nella vigilia di Pasqua presentare al doge con gran cerimonia la offerta di La vita s'era fatta malagevole e stentata per gli abitanti, e s'aggiungeva a decimarli la malaria. Sotto il monte Zaro, in un larghissimo stagno, marciva un'acqua ferma che spandeva il veleno delle febbri durate due secoli. I rettori studiavano tutti i rimedi per togliere la causa della morìa e talvolta ricorrevano ad espedienti quasi puerili. Il provveditore dell'Istria, Giacomo Renier, nella sua relazione Ietta in Senato li 8 ottobre 1585, suggeriva di sbarazzare le contrade dal rottami di muri e dai sassi che le ingombravano, causa i casali minati in numero straordinario, e che formavano, col letame trasportato dalla pioggia, cloache scoperte e perenni, e continuava: [q neirinvestigar quelle cause che potessero nuocer all'ha* bilatione della città tra l'altre che mi si fecero inaliti et ch'io scopersi esser potente per la sua parte a render insalubre quell'aria, fu la molta quantità dell'etera clic nata nelle fissure et ruine ih;' muri, et gita a poco a poco serpendo, si come è la natura di queirherba, havea empita la maggior parte, anzi (piasi tulli li muri della città, di qui nasceva clic bagnata dalle acque celesti et poco di poi percossa dal sole, generava certa fumosità di vapori, clic aggregati et multiplicati apportavano COUSÙlcral«ih- danno a gì'ha* bitatori, et oltre il dispiacevole odore che pure asciutta rendeva, anco veduta nel lontano nonché d'appresso, faceva borrendo et infelice spettacolo; rap] i resen la ndo agli occhi di cadauno maggiore desolatone di quella che in lei s'attrovava: onde co'I mezzo de denari cavati di pene de trasgressori et a questo particolarmente da me applicati, et COTI il buon ordine che diedi, fu con consolatane di tutti quei populi sradicata e talmente distrutta, che si può sperare che non sia pei molto tempo più per risorgere nò nU( ivamente pullulare____» «Condonerà Vostra Serenità con l'alto di lei sapere 1 diletti del mio zelante ardore, che d'altro non deriva che da una since-rissima applicatione verso il puhlico bene, et in. un punto slesso iscuserà, come la. Supplico, se prima di bora non ho portato questi umilissimi sensi a di lei notizia, per essere1 stato, come tuttavia mi attrovo, in una rigorosa purga per l'indispositioni contratte et accresciute in quell'aria____» il dott. Prospero Petronio nelle sue Memorie Sacre e Profane dell'Istria, delle quali esiste la seconda patte nell'Archivio di Stato in Venezia, faceva in sullo scorcio del secolo XVII questo triste ritratto di Pola: «Fa la città ,VS<> anime e fra queste vi possono essere quattro ovvero cinque persone civili con gli Ecclesiastici. K la povera città ridotta per l'aria pessima da un secolo o poco più in qua alla totale sua mina, e ne dà segno l'immense sue mine delle sue »ase e chiese, eh* a vederle irmorridisce l'animo: queste impedivano le strade e rendevano impraticabile il luogo, onde gli anni addietro d'ordine publico furono trasportate fuori, e resta al presente) qualche nettezza, che si stima assai coadiuvare gli abitanti dell'aria insalubre. Il palazzo del Rettore è caduto a terra.» La città aveva allora quattro porte al mare, una delle quali chiusa, e due verso terra. Il provveditore Vincenzo Bragadin inviava a Venezia il 26 aprile 1638 un rapporto annunciando che era riuscito a trovare le chiavi delle porte della città che stavano presso un vile ufficiale con ninna sicurezza o riputazione custodite, e concludeva: «No veglio passar sotto silentio che in questa città, oltre I. .1 l'aria nociva, quando alcuno s'ammala, come frequente succede in molte persone, anco dell'abituato paese, non ritrovandosi ivi uè medico barbiero, nò spinale ove per opportuni rimedi SÌ possa ricorrere, si Conviene per necessità dell'improvviso Insogno mandar a Rovigno, e ben spesso non poterlo fare per la fortuna del mare, se non per terra, con rischio, ritardo, spesa et incomodò; onde per questo essential mancamento molte persone da miseria periscono. » Convien notare che Benedetto Marcello, uno dei più illustri geni musicali d'Italia, patrizio veneto che tenne uffizi di magistrato, e per quattordici anni formò parte-dei Consiglio dei Quaranta, venne mandato nel 1730 provveditore a Pola, ove non rimase che poco tempo, .immillatosi, per l'aria insalubre. Non appena fece ritorno a Venezia perdette tutti i denti. Pola si trascinò lottando contro l'aria mortifera sino dopo la metà del nostro secolo, e quando Napoleone la occupò, dovendo scegliere un porto da guerra nell'Adriatico, preferì il canale delle Bocche di Cattalo. Ma la 364 marine Istriane sua popolazione s'era aumentata. Sviluppò la pesca nel Quaniaro divenendo una delle attive marmare dell'Istria, mostrando sui forti e per le rive colubrine e moschettoni da cavaletto abbandonati dai Veneti e schiene e celate da campo, brandistocchi e partigiane che la ruggine rodeva nei deserti cortili. Ancora oggi sono manifeste le distruzioni consumate dal ferro e dal fuoco. Il palazzo di città, riedificato nel 1651, è una fabrica alzata con gli avanzi di tante nobili rovine. Archetti romani, capitelli di stile romanzo sostengono l'edificio che alterna i suoi quadri di pietra con le lastre sciatte e gli scudi. Un bassorilievo, rappresentante uno dei conti d'Istria, vestito di ferro sul cavallo corazzato, sta presso lo stemma dogale e s'incastona tra l'epigrafi pietose di quel medio evo. che affratellava i santi ai guerrieri, e dipìngeva ai lati di una Madonna l'oppresso in ginocchio ed il tiranno in piedi. Quella casa del popolo, come una cronaca, ammaestra dello storico svolgimento; e lascia leggere a frammenti il diario di boia, a cui mancano delle pagine, perchè la vita s' infosca nella oscurità delle epoche dei Franchi e dei marchesi. Venne rifatta la podestarìa con tante diverse qualità di ruderi, con tante reliquie quanti furono i periodi delle varie dominazioni politiche. Nella (irande illustrazione del Lombardo Veneto, diretta da Cesare Cantò, si legge, dove si parla dell'Istria: 'Certo v'era fior d'arti, giacché moltissime antichità vi rimangono anche dopo altre che d'assai si arricchirono i musei di Venezia,. * * Voi cercate la famosa abbazia del Canneto e vi mostrano una piccola Cappella rimasta salva dalla distruzione; póla ma non segno dei marmi, dei porfidi, dei serpentini, dei mosaici. ^ ') L'anonimo che scrisse i Dialoghi due sulle antichità di Poht ile! lùoo potò veliere quella parte della basilica che ancora esisteva e la confermò tutta di opere ornatissime, «come dimostrano i fittissimi marmi dell'altare maggiore, le pitture illustri et la inscrizione greca nel sopracielo, 1' intaglio vaghissimo del pavimento et un pergolotto (probabilmente pulpito) che c'era ancora»;conclude: «panni di potei- dire, che sia stata di compita architettura». N'arra poi che (piatirò cotonile furono portate a Venezia ad ornare la cappella del Ss. Sacramento in S. .Marco. Un documento del 1545 informa che il celebre Sanso-vino venne spedito dalla RcpubllCa veneta a togliere le colonne di marmo dalla I!. V. del Canneto ed a sostituirvi pilastri di cotto. Jacopo Sansovino nella Veneti a città nobilissimo e singolare (pag. 310), dove parla della fabrica della libreria, dice: * Le scale in due rami, larghe, comode, belle, lavorate di sopra di stucchi con orb et pitture, furono per sculture fatte dal dello Vittoria, Et per pittura la prima fu di mano di battista Se-molelli, la seconda di Uattista del Moro veronese: sul primo patto si trovano alitine colonne ili cos) fatta qualità, clic partecipano della gioia et furono portate d'Istria per questo edijitio. » Tomaso Temanza nelle l'ite ilei più celebri architetti e scultori veneziani ecc. (pag. 224), suppone che le colonne trasferite a Venezia sieno ipielle di marmo africano poste sul pianerottolo della scala della libreria, dirimpetto, nelle due salile della stessa. Narra poi «che Jacopo Sansovino sul principio dell'anno 1550 passò nell'Istria per l'istaurare l'abbadia di Santa Maria di t'anedolo, juspadronato dei Procuratori de Supra». Abbiamo una lettera dell'Aretino con la ipiale lo ringrazia del capretto di latte e della gelatina di pesce. Lo loda poi delle colonne trasferite a Venezia rhe I'antirhitade /enea ciane sepolte a /'ola. Il Teinanza continua : «Ho qualche traccia che sieno state tolte all'antico tempio della predetta Abbadia. Fu Jacopo in Cola anche l'anno dopo, e di là fece nuovamente asportare altre colonne ed altri marini che furono i 1111 legati anch'essi nella Chiesa di S. Marco e nel palazzo Ducale.» Ermolao Paoletti nel Piove di Venezia dice che a pie della torre di S. Vitale vi sono due inscrizioni romane portate, secondo Sansovino, da l'ola ed esistenti l'una all'esterno e l'altra all'interno, ma ad avviso di qualche erudito formanti 36i> Marine istriane Voi cercate l'abbazia di S. Michele, doV ebbe sepoltura quel Salomone re di Ungheria, cui tre volte venne strappata la corona da un fratello e dai cugini, e in una caverna si ritirò agonizzante nelle asprezze delle penitenze. Voi cercate questo S. Michele per rivedere almeno i resti dei muri che ospitarono Dante e in vece ritrovate un forte; voi cercate l'abbazia sull'isola di S. Andrea e vedete sorgere un altro forte. Dove il tempio di S. d'eodoro levava la sua facciata al mare e il tempio di Venere scendeva con le sue gradinate a ricevere il bacio dell' onda, si allarga e torreggia una grande caserma. Sul colle, il convento e la chiesa di S. Francesco, dal portale a ricamo e il rosone a traforo, gentile fantasia gotica, vennero convertiti in un forno, militare e in un magazzino di proviande. Nel cortile del chiostro, verdeggiava un lauro che la leggenda voleva avesse date le foglie per intessere una corona ad Augusto. Pochi anni fa un solo pezzo io onore di un Cajo Numario. Paolo Tedeschi, nell'articolo intitolalo Cenili sulla storia iteti'arte cristiana hi /stria (♦t'orla Orientale», anno 1859), scrive, che nel 1605 si trasportarono a Venezia quattro magnifiche colonne d' alabastro orientale che sorgono ora nel fondo dell' abside di S. Marco, sull'altare che fu già del Ss. dietro al Maggiore; e che da Pola vennero pure le quattro colonne che sorreggono il Ciborio dell'aliai- maggiore e la pila d'acqua lustrale con tridenti e delfini nel piedestallo, che sarebbe appartenuta al 1 empio ili Nettuno. la bella chioma cominciò a disseccarsi e l'albero isterilì crivellato dai vermi. Il tronco non venne tolto per rispetto alla tradizione. Quando tanti monumenti distrutti evocano un passato insigne nasce in noi forte la curiosità di conoscere intere le vicende del luogo, (piasi che ogni rocca, ogni torre, ogni falda di caduto edificio celasse una delle parti che compendiano il vivere e morire dei popoli, fra la vicenda eterna della gioia e delle lagrime. Ma la storia di Pola non si completerà forse mai più. Gli ultimi avanzi del suo archivio arsero nella soffitta del palazzo Razzo; gli annali, che aveva raccolto il Negli, furono, dicesi, venduti a Venezia ai friggitori di pesce ed ai salumai. Restano tuttavia orfane carte per conoscere la tua fiera natura, o vecchia leonessa istriana ! XV. SUL CARNARO Il canale di Venula Gli Uscocchi - 'ire ritta scomparse — Fio nona — // tonfine: Pax tecum —Albana — Matteo Flacio — La scolta alpina — Un saluto. Sul Carnaro e< (o« i alle ultime pagine del libro. L'estrema punta dell'Istria si spinge davanti a noi nell'ampia vallata marina, ed allunga il suo corno di scabri macigni che rappresenta la tumultuaria conformazione geologica della svolta al Quarnaro. Sulla costa si scorgono gli effetti della rabbia del mare, che morde gli spalti. Il canal di Venula s'interna tra poggi erbosi e va torcendosi come una biscia sotto le alture, che racchiudono nel proprio seno le cave romane di Vincural, da cui usci la cupola di trentaquattro piedi di diametro, tutta di un pezzo, per il mausoleo di Teodorico in Ravenna. La isoletta distesa innanzi al porto è un argine naturale: sino alla fine del secolo scorso solitaria dimora di monaci, oggi pascolo di una mandria di bovi, che passa a nuoto, e brucata l'erba, sull'imbrunire ripassa l'acqua, preceduta dalla barchetta del pastore. 37* MARINI' i-I ki a N'I- Si si).uni,i per la campagna senz' alberi qualche casa tra le baracche militari ed ultimo stacca sul colore del cielo Promontore, a cavalcione dei due golfi, adagiato sul dorso dell'alta lingua. Il Ouarnaro vien fuori ad ondate distese, a creste ritte, torbido. Onesto frastagliamento di costiera si prestava alle ladronerie degli Uscocchi, predatori di barche, saccheggiatori di castella e città, che delle vele facevano tende da campo, e scannavano i capretti con le spade curve, con cui avevano reciso le teste dei nobili istriani. Il Carnaio gettava quei ladroni talvolta sui banchi, dove aspettavano affamati la crescente marea macchinando nuove rapine. ( )ggi non troviamo più un solo paese alla costa; eppure in questa parte dovevano sorgere le tre scomparse citta preromane. Quando i contadini di Medolino scendono nei loro campi per ismuovere il fango rosso, trovano armi, simboli, cocci, stucchi dipinti, pietre ornate, malte incise e bronzi. Due mollili a vento girano allegri in quella melanconia di impaludamenti marini. E si stendeva qui la fiorente Mutila. Presso ad Altura, di sopra del porto di Badò, prosperava la forte colonia e la città di Nesazio, importante quanto allora Trieste, nominata da Plinio, da Tolomeo e dall' anonimo ravennate. A Momorano, dove sino a poco fa nella cappella di S. Dionigi si vendevano le raschiature del catenaccio della porta per farmaco sicuro contro la rabbia canina, vuoisi che sorgesse la ricca Faveria. Ora appena qualche casolare di piloti, di guardie doganali, qualche tugurio pescareccio, le spie delle tonnare ; e tra i diroccamenti delle rive porti di salvataggio, conche tranquille ed ospitali, e finalmente l'Arsa che mette al sicuro i navigatori inesperti. Mentre il Quarnaro salta urlando alla prua dei navigli, la riviera apre frequenti asili di calma, dove le sferzate dei cavalloni fermandosi alle bocche scavalcano i greppi, lambiscono le lastre di pietra nutrendo con il limo i bei muschi vetrini color lapislazzuli. A Fianona l'Istria è al suo termine. Da questo punto abbracciate, volgendovi a sinistra, tutto il suo fianco orientale e davanti a voi l'ultimo scaglione dell'Alpe Giulia precipita al mare, segnando con il monte ( abliera il muro di confine della nostra provìncia. Come levate l'occhio su per i vertici, dove la linea divide due paesi, due terre, la natura stessa comincia a perdere la sua vaghezza. Non è più lieta. E visibile il primo conflitto delle piante: una vegetazione legnosa, cruda, fredda, si manifesta e monta tra i sassi e va a consolare con le robuste fronde dei roveri l'aspra Liburnia. Abbasso sul mare una forte selva di lauri e di mirti, in alto una sterilità, un mutamento improvviso. E con la terra cangia la gente e il linguaggio. In quel golfo oscuro che si gonfia di molte acque anche la varietà del barchereccio ne avverte che il viaggio è finito. Le gatte ad un solo albero, i lenti col lungo rostro, le luminiere, destinate alla pesca notturna, con la graticola a prora per il fuoco, si confondono con tutte le altre barche delle (.lue coste adriatiche. Accanto al legno senza eleganza, dalla forma falcata delle antiche corsare, spicca la vela rossa o striata di Chioggia, di (/rado e di Rovigno, come una vagante poesia che rinnova i lieti quadri dei nostri lidi, veduti per tanti anni dalla cornice delle nostre finestre e che non hanno perduto mai l'incanto della loro bellezza. In alto, come posta a vedetta, di (pia dall' Alpe, con le case serrate insieme, torreggia Albona, patria di Flacìo. E la città dall'antichissima origine, ricordata da Plinio e da molti autori latini : ai tempi romani colonia agricola e militare. 374 MARINI'. ISTRIANE Il suo territorio è chiuso tra l'Arsa, il Monte Mag gioie e il Chiarii aro; ha per estremo limite ad Oriente la punta Pax teatina) Comprende il lago d'Arsa, i cui contorni sono abitati da colonia romanica. Possiede nella valle Carpano, diramazione della Val-larsa, la sola miniera di carbon fossile che si lavori in Istria, e da quasi cento anni. La strada militare della Pola romana attraversava il suo agro, e si vedono tuttora rovine di fortilizi e di sepolcreti. Albona, vecchio gruppo di edilìzi, serrata da mura, fortificata da bastioni, chiusa da porte, custodita da controporte, pareva inattaccabile fortezza, posta a tutela della marina. Comune romano italico, dall'ottocento in poi fu terra soggetta alle violenze di quanti corsero l'Istria. Li ricacciava con le armi (mei prepotenti, e risorgeva libera per il coraggio dei suoi figli. Incatenata alla obbedienza, rompeva i ferri. Nel 1330 venne invasa da Pietro di Pietrapelosa e dal capitano di Gorizia, cinquantanni più tardi fu assoggettata di bel nuovo ai patriarchi di Aquileia, sotto la cui padronanza rimase sino al 1420, epoca della dedizione a Venezia. Ebbe come le altre città statuti propri, monte frunientario, collegio di notai, fraglie, abbazie ed obbligo di servizio militare. ') Il vero contine naturale dell' .Istria è quella punta estrema del Monte Maggiore (Caldiera) che si spinge nel Quarnaro, poco discosto, ma di là dal porto di Finnona, e porta il nome di l\tx lecitili. Tulli i molti scrittóri di storia, geografia ed etnografia così precisarono il confine istriano, e lo si trova pur segnato nella (', 89 Battito]........................ , 93 Piazza del duomo................... t 102-103 La loggia...................... » 100 Quartiere S. Pietro ................. „ 107 Casa di stile archiacuto in piazza di porta Maggiore .... „ 111 Cassetta d'avorio nel tesoro del duomo......... „ li j Tavola del Cima da Conegliano............. » 117 Padani ........................ » 125 1.3.3 '.37 M3 •47 •5' l54-'55 159 M>7 1Ù9 17« «73 177 Un vicolo a sacco nel quartiere di 1S0 Campiello presso la casa Tarli ni iS3 187 189 192 Salvore : la Chiesa di S. Giovanni . • ■ • » •95 Umago : la città veduta dal mare • • • ■ » 201 203 • 204 213 216 217 225 227 Mosaico nella facciata del duomo 231 234-235 344 La città voluta dallo scoglio di S. Nicolò . . . . 249 2 53 259 263 Rovigno : Assemblee pescarecce . . .... » 271 liaica da pesca........ . . . . » 275 279 2S7 289 291 293 Giovane donna rovignese .... » 295 Scena marinaresca....... > 299 Alle Brioni.......................PaE- 3<>S Contadina dtgnanese..................» 3M Fasana........................» 3*5 Pola: Palazzo del Municipio...............« 323 Tempio d'Augusto.................» 325 Porta Gemina.....................» 335 L' Arco dei Sergi....... ..........» 339 L'Arena...................... 346-3- Colonna di S. M. del Canneto............ 3°5 L'ex Convento di S. Francesco............ , 3m Sul Carnaro......................■ 37 Albonn............... ....... » 37! Un saluto....................» 38< cooperatori artistici Il disegno della copertina (frontispizio) è lavoro di R. Mainella «li Venezia. La Usta di pagina al capitolo S. Michele
  • al fotografo L. Mioni di Pola : Il tipo di contadina dignanese, L' interno del duomo di Parenzo, L'Arena di Pola, L'Arco dei Sergi, Il Portale del Convento di S. Francesco di Fola, 11 tempio di Augusto di Pola, Il Palazzo del Municipio di Pola, La veduta di Fasana, La veduta di Albona. Le incisioni con il sistema della fotomeccanica sullo zinco vennero fatte dallo Stabilimento artistico Vittorio Turati di Milano.