Devijacije i promasaji. Etnografija domaceg socijalizma, a cura di Lada Cale Feldman e Ines Prica. Zagreb, Institut za etnologiju i folkloristiku (biblioteca Nova Etnografija) 2006, 267 pp. Mentre negli ambienti scientifici occidentali si va sempre piü sgonfiando la novita e l'attrattiva delle ricerche sui paesi in transizione, cresce l'interesse per l'analisi etnologica e antropologica dell'antecedente periodo del socialismo. Sembra pero che anche gli sforzi per la creazione di un'antropologia del socialismo vengano considerati una prerogativa degli studiosi occidentali, come afferma con vena polemica Ines Prica, l'autrice del saggio introduttivo a questa raccolta di studi e, accanto a Lada Cale Feldman, curatrice del volume. Allo sguardo occidentale Prica rimprovera soprattutto la fissazione, in senso tematico e metodologico, della cesura storica rappresentata dalla caduta del muro, come pure l'in-genua fede nell'immediata sprovincializzazione delle societa trovatesi improvvisamente senza la cortina. Osservati e osservatori allo stesso momento, le autrici e gli autori (questi ultimi in netta minoranza, 2 a 8) di questo volume definiscono la propria posizione come intermedia fra la continuita con le etnologie locali e la familiarita con i nuovi approcci occidentali. Caratteristica ormai consolidata fra gli studiosi di questo campo e la loro aperta teorizzazione della performativita del discorso dello studioso condizionato dalla propria posizione nella societa e dall'esperienza storica. Quest'ultima nel loro caso si riferisce sia alla vita nel socialismo sia al trauma della guerra che lo segui e le cui cause rappresentano una delle principali questioni dell'intero volume. Letnologia »di casa« precedente la caduta del muro si occupava prevalentemente di folclore e degli aspetti della cultura borghese rimasti invariati nel socialismo. Eppure, le obiezioni critiche sulla sua eccessiva attenzione per i singoli fenomeni nazionali, che qualche volta finivano in semplici accuse di nazionalismo, perdevano di vista la contrad-ditorieta ed eventuale sovversivita di un indirizzo nazionalistico della disciplina che pure esisteva e operava all'interno del regime socialista. A parte questo, la tradizione etnologica locale, in particolare dagli anni Settanta in poi, offre ai conoscitori che oggi sono in grado di attingervi una significativa seppur non abbondante letteratura sull'etnologia della contemporaneita. Alcuni esempi: gli studi sloveni sulla cultura della classe operaia, a suo tempo oggetto di critiche per l'eccessivo marxismo; oppure, i lavori di Dunja Rihtman Augustin sulla quotidianita degli anni Ottanta, al cui resoconto scritto nel 1992 si richia-ma il titolo del saggio introduttivo a questa raccolta (Ines Prica, Etnologija postsocijalizma i prije - L'etnologia del postsocialismo e di ció che lo precedette). E' proprio questo il filone che l'autrice dichiara di volere tenere a mente, per evitare di seguire esclusivamente le trac-ce della citata svolta tematica e metodologica occidentale, e per mantenere vivo l'interesse per i fenomeni sociali la cui durata supera la fatidica cesura storica. Le innovazioni metodologiche degli approcci presenti nel volume riguardano inve-ce gli incontri fra letnologia, l'antropologia culturale e gli studi culturali. Nei saggi spesso appare il materiale di ricerca tipico dei cultural studies, come i media, le riviste, o le canzo-ni. Dean Duda per esempio (»Uzas je moja furka«: socijalisticki urbani imaginarij Brani-mira Stulica - »L'orrore é il mio sballo": l'immaginario socialista urbano di Branimir Stulic) analizza i testi delle canzoni di B. Stulic, cercando di definire il posto della cultura popolare nel socialismo, tra l'accettazione e l'opposizione come i suoi poli estremi - disegnati, in riferimento alla societa capitalista, dai teorici degli studi culturali. Se Stuart Hall, citato da Duda, nel 1981 vedeva nell'opposizione della cultura di massa all'egemonia del potere il luogo del possibile avvento del socialismo, quale doveva essere il ruolo dell'opposizione in una societa che socialista lo era gia? Nelle canzoni di Štulic Duda intravede uno specifi-co "modernismo socialista della cultura popolare", caratterizzato da un continuo scambio fra la cultura "alta" nelle sue espressioni artistiche ed accademiche da una parte, e quella "bassa", popolare dall'altra. E' un pensiero critico e intransigente che sceglie i mezzi di co-municazione di massa perché li considera degni ed efficaci. Avallando i principi di fondo dell'ideologia dominante (soprattutto quelli riguardanti la liberta e l'emancipazione), esso e allo stesso tempo lontanissimo da ogni accettazione egemonica. Ma questa posizione, intellettuale ed elitaria nonostante la sua popolarita (e nonostante il revival odierno dei suoi prodotti musicali), e caduta presto in oblio, rimanendo una specie di promessa non mantenuta di una possibile uscita dalla crisi. Questo problema di fondo dell'applicazione degli studi culturali a una societa socialista e al centro del saggio di Reana Senjkovic (Izgubljeni u prijenosu. O kulturnim studiji-ma u uvjetima vladavine Ijevice - Lost in transmission. Sugli studi culturali nelle condizioni del governo socialista). Le dinamiche fra il potere governativo e l'eventuale sovversivita della cultura di massa proposte dalla scuola di Birmingham, in un sistema socialista si pre-sentano esattamente alla rovescia. Era possibile per gli ideologi di allora (come Stipe Šuvar, per esempio) riconoscere la forza progressiva nei fenomeni di massa che fuoriuscivano dal dettato della cultura ufficiale, progressiva anch'essa per (auto)definizione? Benché all'epo-ca gli articoli della scuola britannica venissero regolarmente tradotti, il pensiero ufficiale della sinistra jugoslava e rimasto fondamentalmente incapace di elaborare un'adeguata teoria dei media. Piü inclini alla scuola di Francoforte che a Gramsci, e generalmente sod-disfatti della definizione dei media come dell'"oppio delle masse" e della cultura popolare come di una nociva importazione occidentale, gli ideologi del socialismo, come si evince dall'analisi di Senjkovic, sono rimasti chiusi in un elitismo astratto e ripetitivo, che con-templava una futura alta cultura per tutti ed era incapace di pensare alle esigenze dei loro contemporanei. Lottica post-socialista permette all'autrice di rivelare, in dialogo con i teorici e i critici dei cultural studies (in particolare con i lavori pubblicati in Cultural Studies in Question, London, 1997), le debolezze del loro stesso pensiero, e di pensare, basandosi su alcuni dei piü rinomati teorici dei media (K. Askew, R. Wilk, F.Ginsburg, L. Abu-Lughod, B. Larkin) e antropologi culturali (M. Coman) una possibile antropologia dei media del socialismo e del postsocialismo. Le citate debolezze degli studi culturali riguardano, tra l'altro, la rigidita del paradigma che rende difficile l'individuazione di elementi conservatori all'interno dei fenomeni d'opposizione, cioe divergenti dalla prassi dominante. Proprio questa sembra essere una delle piü imbarazzanti esperienze degli ideologi jugoslavi, di cui testimonia un documento-fantasma (mai pubblicato in Croazia, eppure conosciuto e criticato da numerosi pub-blicisti), oggetto dell'analisi di Lada Čale Feldman (Bijela knjiga: nepocudna književnost u kulturnostudijskoj perspektivi - Il Libro bianco: la letteratura non gradita nellottica degli studi culturali). Il documento »segreto« del partito comunista, stilato nell'orwelliano 1984, era una specie di index di libri considerati antijugoslavi e antisocialisti, in prevalenza a causa delle loro idee nazionalistiche. Ma Čale Feldman non esamina le responsabili-ta degli intelettuali propagatori del nazionalismo. In controcorrente rispetto ai ben noti studi come quello di A.B.Wachtel, e in sintonia invece con le analisi dello scioglimento dell'Unione soviética sviluppate dall'antropologo russo Jurcak/Yurchak, l'autrice analizza i fenomeni della ricezione e della cultura di massa che succedevano intorno al Libro bianco, per arrivare a indicare, come principale responsabile della rovinosa caduta del sistema, lo stesso peccato originale dei governanti descritto nell'articolo di Senjkovic. All'origine della disgregazione non starebbe dunque l'ascesa dei nazionalismi, come la causa piü ovvia e generalmente citata, ma un decadimento interno delle strutture, uno svuotamento di si-gnificati e un'inutile eco dei significanti, il cui vacuum si offri in seguito anche a contenuti nazionalistici. Il procedimento argomentativo che evita di porre in diretto e inequivocabile rapporto di causa ed effetto i nazionalismi e la caduta del sistema jugoslavo, ma li rovescia, o comunque li tratta come fenomeni di contingenza storica e non di fatale necessita, credo possa avere un effetto di sollievo per qualsiasi lettore contemporaneo, e specialmente per chi ha assistito da vicino agli avvenimenti degli anni Novanta: certamente un amaro sollievo, ma comunque la possibilita di trovare anche nel periodo antecedente la guerra, e di non doverle quindi inventare dal nulla, vie alternative alla crisi dell'idea del progresso. Anche Svetlana Slapsak (Osveta slabih ucenika: stilistika i raspad predratne disiden-cije u Srbiji - La vendetta dei cattivi allievi: la stilistica e la decadenza della dissidenza serba dellanteguerra) arriva a una simile conclusione, seppure partendo dall'opposto punto di vista, ovvero dall'analisi retorica dei testi di quell'opposizione nazionalistica che le altre studiose avevano intenzionalmente messo in secondo piano. Sembra che Slapsak abbia bisogno di reintrodurre l'argomento delle cause nazionalistiche per poter riaccendere la discussione sulle responsabilita degli intellettuali, ma la sua dimostrazione dell'impressio-nante somiglianza fra la retorica dei dissidenti e il discorso dominante del socialismo la riporta al tema della lingua svuotata di significati. Per quanto riguarda gli obiettivi delle due propagande, lo stesso mezzo retorico, avverte Slapsak, non fu usato allo stesso modo dai maestri e dai loro cattivi allievi: mentre i primi ipnotizzavano le masse nella loro immobilita, i secondi le volevano portare all'estrema mobilitazione. Perché la dissidenza, ini-zialmente identificatasi con i valori come liberta d'espressione, rispetto dei diritti umani e democrazia, ha deviato sulla strada del progresso gia abbandonata dal regime, ed ha ammaliato le masse con un discorso mediatico ereditato e vuoto di significati? Da questa domanda deriva una delle parole chiavi del volume, quella della deviazione, che accanto al fallimento e allo svuotamento semantico appare in quasi tutti gli articoli, sia che trattino del discorso governativo, che di quello dell'opposizione. Della creazione di una memoria storica comune ai popoli jugoslavi attraverso riti pubblici, monumenti e manifestazioni commemorative riguardanti la Seconda guerra mondiale tratta l'articolo di Renata Jambresic Kirin (Politika sjecanja na drugi svjetski rat u doba medijske reprodukcije socijalisticke kulture - La politika del ricordo della seconda guerra mondiale ai tempi della riproduzione mediatica della cultura socialista), sempre con particolare attenzione alla cultura di massa. Sembra inevitabile che proprio in questo ar-ticolo, a proposito della memoria, vengano introdotti l'ottica e i metodi dei gender studies, dal momento che, come dice la citazione da John Gillis in apertura dell'articolo, »le elites degli uomini, portatori del progresso, avevano sentito come il passato stesse loro sfuggen-do molto piü velocemente che alle donne«. E' da citare a questo proposito un altro recente volume, la miscellanea Izmedu roda i naroda (Tra il genere e la nazione, Zagreb, 2004) curata da Renata Jambresic e Tea Skokic, in cui 20 autrici e autori hanno sperimentato i metodi degli studi femminili su temi etnologici tradizionali e moderni e sulla teoria della nazione. Ció che pero rende quest'ultimo lavoro di Jambresic parte integrante di Devijacije è la sintonía con gli altri saggi della raccolta nella costatazione del disagio, o addiritura di una certa avversione, del governo socialista nei confronti delle masse dei consumatori delle riviste e dei film prodotti sotto la più o meno vigile tutela del regime. Il disagio si riferiva soprattutto all'incontrollabile produttività della memoria personale che poteva provocare la frammentarizzazione della memoria collettiva, e con ció minacciare l'ideologia ufficiale della tolleranza. All'analisi degli articoli della rivista »Arena« proposti da Jambrešic Kirin non sfugge peró il processo opposto, cioè l'adattamento più o meno inconscio delle storie personali a quella ufficiale. Inoltre, l'importanza delle storie individuali e la loro azione sovversiva nei confronti della monodiscorsività della memoria ufficiale non vieta all'au-trice di tenere a mente i pericoli di un pensiero che, vicino al sentimento religioso, è poco incline a interrogarsi e tende invece a trasformarsi nell'imperativo del ricordo rivolto a tutta la comunità. Sulla memoria posttraumatica l'autrice si avvale dei saggi di Giorgio Agamben, e dei recenti studi anglosassoni, tra cui il volume Memory and Power in PostWar Europe, curato da J.W.Muller. Il lavoro della creazione di una memoria comune non si riferisce solo al passato traumatico ma anche, come dimostra l'articolo di Ivo Žanic (Podvučeno žutim: Raspad Jugoslavije i značenjsko-funkcionalne transformacije jedne krilatice - »Sottolineato in giallo«: Lo scioglimento della Jugoslavia e le trasformazioni semantico-funzionali di uno slogan), alle operazioni di marketing che accompagnavano la creazione di una nuova società di consumo. Il »comune tetto simbolico« qui è delineato attraverso uno slogan pubblicitario nato nel 1973, il »Podvučeno žutim« appunto, del mobilificio sloveno Lesnina. La storia dello slogan, dal linguaggio dei media alla cultura di massa, e dal messaggio economico a quello politico, rispecchia i cambiamenti dell'atteggiamento delle altre repubbliche federali verso la Slovenia, diventando un sintomo della perdita della memoria comune, fino alla creazio-ne di prospettive inconciliabili. Dopo averlo visto accompagnare i più crudi discorsi della guerra, Žanic segue questo sintomo fino ai nostri giorni quando, per i nuovi giornalisti ignari delle sue implicazioni storiche, lo slogan sopravvive svuotato di connotazioni poli-tiche, come una qualsiasi benigna e simpatica allusione alla Slovenia. Le difficoltà della memoria e l'ansia del progresso hanno portato la società jugoslava a idealizzare i bambini come esseri liberi dal peso del passato, e a creare una particolare variante socialista di quell'idea moderna sulla specificità dell'infanzia, la cui storia all'interno della civiltà occidentale è stata descritta da Philippe Aries. Maja Brkljačic (Svinjska glava. Priča o djetinjstvu - La testa del maiale. Una storia sull'infanzia) analizza le pietrificate forme narrative intorno all'infanzia di Tito, che dovevano servire alla costruzione di un paradigma della mobilità sociale (dalle umili origini alle alte cariche) e della continuità dello spiri-to eroico, ribelle e rivoluzionario, rappresentato come caratteristica peculiare della regione natale di Tito, dal tardo medioevo ad oggi. A questo proposito vengono citati i precedenti studi di Ivo Žanic, mentre l'accenno al tradizionalismo patriarcale e all'esclusione dei per-sonaggi e della memoria femminile corrisponde alle affermazioni di Jambrešic in questo stesso volume, la quale ne sottolineava anche la significativa differenza rispetto al modello sovietico, più radicale nella svolta con il passato. Sul tema delle donne nel socialismo vale la pena consultare anche il volume Ženski biografski leksikon. Sjecanje žena na život u soci-jalizmu (Dizionario biografico femminile. Il periodo socialista nel ricordo delle donne), edito nel 2004 dal Centar za ženske studije (Centro di studi femminili) di Zagabria. L'organizzazione jugoslava dei pionieri è invece l'oggetto dell'analisi di Ildiko Erdei (Odrastanje u poznom socijalizmu: od "pionira malenih" do "vojske potrošača« - Crescere nel tardo socialismo: dai »piccoli pionieri« all'«eseráto dei consumatori«), che esamina il pro-gressivo indebolimento dei contenuti ideologici nei programmi pedagogici dello stato. Il »comune tetto simbolico«, per dirla con Žanic, e qui rappresentato da un'infanzia jugosla-va che, come si evince anche dall'analisi dei racconti personali contenuti nel Leksikon ju-goslavenske mitologije (Dizionario della mitología jugoslava, Beograd-Zagreb, 2004), dagli anni '70 in poi si basava soprattutto su un mercato comune, e consisteva nel consumo degli stessi prodotti: giocattoli, abbigliamento, riviste per bambini, serie TV e dolciumi. Questo specifico "socialismo consumista" porta anche Erdei a concludere come le manifestazioni della cultura di massa per l'ideologia ufficiale rappresentassero una patata bollente, davan-ti alla quale il regime non seppe che assumere un atteggiamento ambivalente. Ne seguí una frammentarizzazione del mercato in cui la difesa del "nostro prodotto" comincia a segnare i confini fra noi e gli altri. Il risentimento, l'invidia del godimento degli altri e l'odio che ne deriva vengono dall'autrice brevemente delineati attraverso i concetti elaborati da Žižek. Conclude il volume il racconto della visita di un gruppo di studenti di etnologia, guidati dall'etnologa norvegese Kirsti Mathiesen Hjemdahl, a Kumrovec, in occasione del 112. anniversario della nascita di Josip Broz Tito (K. Mathiesen Hjemdahl e Nevena Škrbic Alempijevic, »Jesi li jedna od nas? S proslave Titova 112. rodjendana - Sei una di noi? Appunti dal festeggiamento del 112. compleanno di Tito). Andando alla ricerca delle trasformazioni dei riti commemorativi dopo che le parti della memoria da essi elaborate sono diventate non gradite, i giovani etnologi vi sperimentano la difficile posizione dell'os-servatore-partecipante, prendendo coscienza del condizionamento politico dell'etnologia stessa. La raccolta di saggi Devijacije i promašaji segnala, accanto ad alcuni altri recenti titoli qui citati, la crescita dell'interesse per lo studio dell'etnologia del socialismo, e il suo contemporaneo sviluppo metodologico in correlazione con gli studi culturali e l'antropo-logia culturale. Il volume si interroga, guardando ai fenomeni della quotidianita, su alcune questioni cruciali del periodo fra il 1945 e il 1991, proponendo delle ipotesi innovative sulle ragioni degli avvenimenti che hanno segnato la fine del milennio. Aggiornatissimo nei metodi e nella conoscenza degli studi anglosassoni sul campo, il lavoro delle autrici e degli autori e originale, indipendente nelle conclusioni, e caratterizzato da un coerente approccio postcoloniale. Natka Badurina