L' ASSOCIAZIONE per un anno anticipati f. 4. Semestre c trimeslrein proporzione Si pubblica ogni sabato. I. ANNO. Sabato 31 Ottobre 1846. M tfS—8>3. Avviamento della navigazione e del commercio nell'Austria Interiore. IV ei precedenti numeri di questo foglio abbiamo dato il primo decreto imperiale emanato da Carlo VI per introdurre e proteggere la navigazione ed il commercio nell' Austria interiore, e Io abbiamo pubblicato con piacere, dacché se al Dr. G. C. Platner non fosse riuscito di ricuperarlo, comperandolo, forse passava gran tempo prima che fosse conosciuto fra noi a chi desidera di conoscere per quali vie si fosse attivato un movimento che oggidì ci sembra facile e naturale, ma che all' invece era difficile, e soggetto di moltissime contraddizioni. Ricorderemo alcune condizioni di quei tempi, cioè del 1717. La Repubblica di Venezia vantava il dominio del mare Adriatico; e facilmente poteva sostenerlo, dacché padrona di un' estremità del golfo di Venezia, padrona delle coste istriane e dalmate lungo le quali è la via naturale marittima, padrona di Corfù (e lo fu di Otranto e Gallipoli) all'imboccatura del mare, poteva colle sue flottiglie chiuderlo e custodirlo tutto. V' ha chi pensa che il dominio fosse stato a lei conceduto da papa Alessandro III nel secolo XII e fosse preservato colla solennità annua dello sposalizio del mare che facevasi il dì dell' Ascensione di N. S. con molta pompa, alla presenza degli ambasciatori di tutta Europa. Altri però, e fra questi il governo medesimo, pensavano spettante il dominio per altro titolo, per quel diritto di spiaggia che alcuni giureconsulti estendevano a 40 e fino a 100 miglia nel mare, per la purgazione dei mari dai pirati, operata in tempi remoti, pel consenso dei comuni marittimi nell' Adriatico che pagavano tributo a Venezia, ed eransi obbligati di unirsi allo stolo (flottiglia di spedizione) destinato a purgare di quando in quando il golfo. Noi pensiamo che deducessero questo diritto storico dal dominio degli imperatori bizantini sull'Adriatico, dei quali i Veneti furono gli eredi (se è lecito dire cosi), e più che tutto dal possesso. Trieste annoverava nei suoi fasti municipali l'aver dato il nome al Golfo, che fra Pirano e Grado s'interna nelle intimità dell' Adriatico ; annoverava nei suoi fasti l'averne conservato fino a' tempi recenti il nome (sembra però non essere stata conscia che il nome accennava ad un dominio delle acque); chè il mare fu considerato, non meno della terra ferma, formante territorio; Trieste aveva promesso tributo al doge Enrico Dandolo nel 1202 allorquando dirigevasi coi crocesegnati alla conquista di Costantinopoli, e lo pagava anche dopo essersi data alla Serenissima casa d'Austria, cento orne cioè di vino bianco di Prosecco; e lo pagò fino al secolo XV a tempi di Massimiliano, che molte collisioni ebbe colla Repubblica. Allorquando in questo tempo si volle venire in chiaro del titolo, i Veneti adducevano essere ciò in compenso di alcuni benefizi di commercio e di navigazione che i Triestini godevano in Venezia, nella quale ebbero propria riva per barche; però il governo austriaco non sembra avere creduta la cosa; il tributo dovette cessare, non cessò del pari la navigazione nel golfo. La quale navigazione era soggetta alle seguenti discipline. Non era lecito inalberare nell' Adriatico altra bandiera che la veneta; i Triestini che non potevano inalberarla, navigavano senza bandiera, in condizione di protetti. Non era lecito di uscire dal porto senza licenza del Rettore di Capodistria, dal quale dovevasi impetrarla e la si dava per iscritto pagando le sportole prescritte e le vietate. La licenza non davasi che ben conoscendo il luogo di destinazione ed il carico, e vi era modo di adoperare soprusi. Articoli di privativa veneta non si ammettevano alla navigazione, specialmente sale. Alle navi destinate a custodia del golfo (e v' era legno grosso a Pirano, altro al Quieto) dovevansi permettere le visite; al capitano del golfo dovevasi prestare obbedienza. Il navigare senza licenza veneta e senza pagamento di tasse era punito almeno colla confisca della nave e del carico, seppure non si presumevano corsari. Però d' altro canto (e si dica la verità) godevano i naviganti sicurezza contro pericolo di corsari, pericolo che noi abituati a' tempi odierni appena sappiamo valutare. L' acqua in tutto l'Adriatico era dominio di S. Marco, a segno che se testa coronata o principe di sangue reale dovesse attraversarlo, non su altri legni il faceva che su legni veneti, od almeno scortato da squadra veneta. Non era sì facile nel 1717 di proclamare libero il mare Adriatico contro la pratica di tanti secoli, meno da un principe che non era in guerra coi Veneti, e che non poteva ragionevolmente porsi in guerra colla Repubblica per cose che in allora non si sarebbero riguardate siccome ragionevole motivo di ostilità. Era quindi necessaria assai prudenza e saviezza per rivendicare un diritto sì naturale del principato; e Carlo VI, che era T ultimo degli Abs-burgici, trepidava per la figlia sua chiamata a succedergli, quantunque la figlia sua siasi poi mostrata più che uomo per saggezza e per forza d' animo in difficili circostanze. Carlo VI aprì i mari ai sudditi suoi non per manifesto di guerra, ma per quel diritto che è naturale di principe non astretto da patti positivi e speciali. La patente che pubblichiamo è l'atto solenne che segna la nuova èra, e la rarità sua sembra indicare che seguisse piuttosto per ordine ad offici, che per prochiama affisso dovunque; il che viene confermato dalle mosse che prese il governo veneto. E comunque in quella patente non entrasse in contrastare ad altro potentato il dominio dell' Adriatico, esso parlava veramente da principe, certo del suo diritto; e l'assicurazione data di guarentire i sudditi ed i protetti contro le molestie di altre potenze, era un parlare chiaro a chi intendeva le cose. Per quali vie quella patente avesse il suo effetto, come avvenisse che, ad onta della personale perseveranza dell' imperatore, appena Maria Teresa inalberasse 1' austriaco vessillo sui legni mercantili, non è cosa da dirsi oggidì, contenti noi di dare soltanto il documento che apre la storia della prosperità mercantile dell' impero e di queste regioni meridionali. « Noi Carlo VI per la Dio grazia Imperatore dei Romani, sempre Augusto, re di Germania, delle Spagne, di Ungheria, di Boemia, di Dalmazia, di Croazia e di Slavonia ecc., arciduca d' Austria, duca di Borgogna, del Braban-tc, di Milano, di Sliria, di Carintia, del Carnio, di Wtìr-temberga, conte di Absburgo, di Fiandra, del Tirolo, di Gorizia e di Gradisca ecc. ecc. — Annunciamo la nostra grazia imperiale a tutti i fedeli abitanti e sudditi, di qualunque rango e dignità, officio, o condizione, i quali domiciliano nell'Austria interiore, cioè a dire nella Stiria, Carintia, Carnio, Gorizia, Gradisca, Trieste, S. Vito di Fiume ed a quanti abitano nelli nostri stati ereditari, coste e porti di mare o che in seguito vorranno prendere domicilio. « E facciamo loro sapere; Che per promovere, regolare ed aumentare il commercio nei nostri stati credi-tari, e precipuamente nell' Austria interiore e nei porti di mare abbiamo considerato conveniente ed utile di provvedere ai mezzi essenziali e convenienti, di accogliere e di favorire quelli che vorranno domiciliarvi, e di avervi riconosciuto fra i mezzi più adatti la sicura e libera navigazione per l'Adriatico, la quale senza concedere alcune franchigie non potrebbe avere luogo. « Quindi è che sulla circostanziata proposizione fattaci rassegnare, abbiamo deliberato quanto segue: « Ai nostri sudditi del confine militare marittimo ungarico e croato ed a tutti e singoli gli abitanti sudditi e fedeli nei nostri porti e spiagge marittime dell' Austria intcriore, ed a tutti quelli che vorranno fissarvisi in questi porti e coste, e porsi sotto la nostra sovrana potestà, e che volessero attivare e promuovere nel miglior modo il commercio col darsi alla navigazione, permettiamo graziosamente che possano liberamente armare navigli e trattare il commercio. « A tutti quelli che desiderassero di prendere domicìlio, accordiamo terreni in Porto Re nuovo e vecchio, oppure nel distretto di Vinodol, che è provveduto d' acque salse e dolci "utili alla tintura delle sete e delle lane; ed è chiuso da un lato con alte montagne, provveduto di molte castella e case in muro adatte a buone abitazioni e fabbriche, provveduto di molini utilizzabili per opifizi ad acqua. « Ai nostri abitanti ed altri fedeli, nostri i quali per attivare il commercio e la navigazione, salperanno dai nostri porti dell' Austria interiore, accordiamo 1' uso della nostra bandiera imperiale ed arciducale, e concediamo loro le occorrenti lettere patenti che a richiesta verranno rilasciate dalla Nostra cancelleria aulica segreta dell' Austria interiore. « Promettiamo di difendere le loro persone, i navigli ed i carichi contro qualunque potentato che li arrestasse, turbasse, o pregiudicasse, promettiamo di rivendicare o-gni torto e pregiudizio che venisse loro arrecato, e che considereremo come arrecato alla nostra provincia medesima, e sapremo adoperare ogni mezzo conveniente perchè abbiano pronta soddisfazione. « Concediamo la nostra grazia imperiale ed arciducale, ed immunità a quelli che si recheranno nei nostri porti con navi, anche da luoghi forestieri, per cominciare il commercio nel mare Adriatico. « Ci affretteremo ad introdurre regole ed ordinanze pei trafficanti affinchè venga loro fatta buona giustizia, senza stancheggi, quindi sommarissima e di pronta esecuzione, come è pratica in ben regolate città mercantili, e come è di diritto mercantile, affinchè possano continuare il libero commercio. « A questo oggetto faremo rivedere, adattare e pubblicare per la nostra provincia dell' Austria interiore il Codice cambiario già da noi approvato. «Faremo adattare le vie e le strade attraverso tutti i nostri stati ereditari fino ai porti di mare, affichè sieno accessibili ai carri larghi, e sieno vantaggiose al commercio; le terremo purgate da ladri, da vagabondi e malintenzionati. «Abbiamo già intimato questa nostra risoluzione al nostro Consiglio reale delle Spagne, al nostro Consiglio aulico di guerra, ed alla nostra Camera aulica affinchè provvedano alla esecuzione dettagliata di questa nostra volontà. « Siamo poi intenzionati di aumentare le manifatture esistenti nei nostri stati ereditari, di migliorarle, di erigerne di nuove, e di accordare a tale effetto privilegi ed immunità a quegli artefici nazionali e forestieri che li chiedessero, e di accordare agli artefici stessi abitazioni adatte. « Queste nostre disposizioni vengono fatte note ai sopraindicati nostri fedeli sudditi ed abitanti ad alle altre sopraindicate persone cui può interessare, di qualunque dignità, stato, officio o condizioni, ad effetto che sappiano conformarsi alla presente risoluzione, sì vantaggiosa alla pubblica prosperità, e godere così del potente nostro patrocinio. « Imperciocché così si adempirà la nostra sovrana graziosa volontà. « Dato nella nostra città di residenza Vienna, il secondo giorno del mese di giugno, del millesettecento e diecisette; sesto anno del nostro impero romano, decimoquarto del regno spagnuolo, settimo del regno ungarico e boemo. « CARLO. « Ludovico conte de Sinzendorf. « Ad espresso proprio comando di Sua Sacra Cesarea e Cattolica Maestà Giov. Gius, de Lvidl ». Palazzo pubblico di Trieste. Ogni città, la quale goda il beneficio di amministrare sè medesima nelle cose che sono di cannine, ebbe sempre pubblico palazzo destinato a luogo di radunanza dei rappresentanti del comune, a sede dei dicasteri amministrativi, e se il comune ebbe anche l'amministrazione della giustizia punitiva e della giustizia civile, a sede di tribunali. Quanto maggiore si fu l'importanza delle città, quanto maggiore il progresso, tanto più grandioso, magnifico, sfarzoso si fu il palazzo pùbblico, il quale rappresentava materialmente il rango che aveva la città, e superava gli altri edifizi, come gli interessi di comune utilità superavano gli interessi individuali. Siffatti pubblici edifizi si dissero in Germania ed in Francia case del comune, case della città ; in Italia si dissero piuttosto palazzi, dacché la voce casa originariamente indicava in latino ciò che diciamo casolare; e la voce duomo venne esclusivamente riservata al duomo per eccellenza, alla casa di Dio. E Germania e Francia e Italia mostrano ancora siccome monumenti d'arte i pubblici palazzi, i quali sono di maraviglia agli intelligenti, di decoro alle città che li eressero, e spesso somministrano nel genere di costruzione, nelle scolture, nelle pitture, preziosi materiali alle istorie dei municipi, non meno che le antiche chiese lo facciano nelle tombe, nelle onorificenze sepolcrali, nelle onorevoli leggende incise sui marmi. I palazzi municipali non di rado imitavano ciò che la chiesa costumava pei propri duomi, ed ebbero campanili, ed orologi e portici, comunque disposti in forma diversificante secondo l'uso diverso cui erano destinati i due generi di edifizi, e sempre ebbero sale amplissime non solo a tenere pubblici giudici e radunanze, ma altresì a pubbliche feste in occasioni straordinarie. Nella provincia nostra rimane un'ala del palazzo di Pola, la quale nella mirabile connessione dei massi, nelle decorazioni, attesta che fosse altra volta magnifico quel palazzo, il quale come abbraccia la curia antica o quello che dicono tempio di Diana, sembra abbracciasse anche il tempio di Roma. Fu opera del 1300, ed è memorabile l'inscrizione in versi conservata tuttora, che ricorda il tempo di sua costruzione, e la necessità che le discordie cittadine cessino per non turbare il pubblico governo. Il palazzo di Capodistria, città che figurò sì nobilmente nel mezzo tempo per le cose pubbliche, ed allora e poi per la coltura delle lettere, non è palazzo civico, ma fu palazzo dei governatori della provincia, sia aqui-leiesi, sia veneti, e somiglia nell'esterno piuttosto a castello. La piccola Muggia conserva ancora l'insieme di un palazzo che attraverso i guasti e la vetustà si mostra pregevole nello stile del medio tempo. Trieste ebbe certamente palazzo pubblico , dacché si resse a comune, per quanto le memorie e le tradizioni arrivano; e v'ha motivo di credere che meglio provvedesse alla residenza delle sue migistrature dopo il 1295, dopo cioè d'avere fatto acquisto dai vescovi del diritto di reggimento in grado superiore. Sembra che l'antico palazzo fosse collocato sulla piazza maggiore nel lato che guarda tra levante ed il mare; ivi si trovarono di fatti inscrizioni di veneti podestà e di capitani austriaci che accennano al palazzo pubblico; ivi si trova la cappella della Beata Vergine e di S. Pietro opera del secolo XIV, nella quale la magistratura costumava fino a' tempi più vicini di assistere a sacre funzioni, di ascoltare la parola di Dio da sacro oratore che il consiglio chiamava verso stipendio (e lo paga tuttora, sebbene anche altrove predichi), e vi si vedono tuttora i seggi disposti pei 40 consiglieri e pei due giudici, dacché il primo giudice stava dinanzi all' altare. Il penultimo palazzo pubblico era costrutto sul terreno che già occupava l'ultimo, del quale la generazione provetta ha ancora memoria. Di quel penultimo palazzo, il vescovo Tominasini nei commentari dell'Istria ha conservato memoria. «Hanno una bella sala pel loro consiglio, la quale tiene molte piccole statue, e molte armi con li loro cimieri, il tutto antico, ed affermano essere queste l'armi d'alcuni grandi, che vennero con un imperatore in questa città, ed hanno sotto lettere tedesche». È lecito il dubitare se queste lettere, piuttosto che tedesche, non fossero latine, in quella forma che si dice gotico quadrato, o come sep-pimo che s'insegnasse o s'insegni tuttora nelle scuole sotto il nome di fractur, siccome il gotico rotondo s'insegna o s'insegnava sotto il nome di kanzelley. Questo secondo è il carattere del secolo XIV, il primo indubbiamente del secolo XV, come da certi monumenti è attestato ; e ciò combinerebbe ottimamente coi tempi dell'imperatore Federico III che venne ripetutamente in Trieste e sembra avervi tenuta corte; certamente ammise all'omaggio i Triestini, ed a Trieste concedette grazie. Come fosse disposto questo palazzo noi sappiamo; forse non ebbe più che una sala e qualche gabinetto, se giusto è il giudizio che tiriamo dall'ultimo palazzo, il quale cedette ai destini nei giorni nostri. L'antico palazzo ebbe di singolare che era stato costrutto sopra terreno guadagnato al mare, su quel terreno che altra volta era il porlo minore dell'antica colonia di Trieste. Il mare giungeva fino alla casa Costanzi, già antica Vicedominaria (che gli adulti ricorderanno ancora su colonnato), e da quella spiaggia partivasi un molo che dirigevasi verso l'odierno palazzo governativo; altro molo partiva dalla casa che è più prossima alla calle del carbone e dirigevasi verso l'odierno edifizio del dazio vini, in proporzioni affatto eguali all'odierno DJandracc/iio; altro molo traversale chiudeva il porto minore (il porto maggiore delle navi era all' odierna Sacchetta) e non dubitiamo che la bocca fosse nel lato di levante e le fondamenta di questo braccio ove sorgevano le antiche mura e la torre dell' orologio. Questi moli furono veduti nell'occasione che si costrusse l'utimo palazzo, e la casa suindicata, e le rive furono vedute allorquando si gettarono le fondamenta della casa Costanzi. Questo bacino o mandracchio venne interrito nel medio tempo, fattane piazza, e su questa alzato il pubblico palazzo, il quale aveva il prospetto principale verso mezzodì. In luogo dell'interrito porto, altro se ne fece esterno fuori le mura, il quale fu rifatto e fortificato nel secolo XVII per opera di certo Vintaria, gradiscano. Sembra che gli antichi ponendo a calcolo la possibilità di protendersi in mare a piacimento, e calcolando dalla profondità del mare medesimo che a molta disianza non manca, non titubassero a creare aree piane, in luogo che le colline abbondano, e lo stesso praticossi un secolo fa, quando l'intera città nuova fu disposta su terreno guadagnato al mare. E quanta saggezza fosse in ciò, possiamo noi attestarlo che non abbiamo a compiangere T interrimento nè dell'antico porto, nè dell'antica valle del Rio, che ancor oggidì con nome poco edificante vediamo scriversi Baudariu. L'antico palazzo incendiò, non sappiam per quale caso, nel 1690 il dì 7 febbraio, ultimo di carnovale, alle tre dopo la mezzanotte, cioè il dì primo delle ceneri, scoppiato il fuoco nella bottega di Giovanni Gajo, sotto il palazzo, che incenerì anche l'arsenale della città. Però nel dì 2 luglio 1691 collocavasi la pietra fondamentale del nuovo palazzo, benedetta dal decano Don Antonio Giuliani. Il canonico Don Bartolomeo Bajardi fu il primo a contribuire 1000 ducati, ed altri molti ne contribuì Andrea Civrani, incaricato, come sembra, dell' esecuzione dell'opera. Prima che fosse atterrato, vi si leggevano le seguenti inscrizioni incise: Sulla porla d'ingresso : HAEC MARMOREA ARCVVM MVNIMENTA AB AUGVSTA LEOPOLDI R. I. MVNIFICENTIA PROP. AERE AVCTO. PVB. EXMI IOANNIS PHILIPPI COBENZL PRAESIDIS VIGILANTIA SOLERSQVE RECTORVM SF.DVLITAS FRANC. Ali. ARGENTO M. F. IO. BAFTA. MARCHE-SETTI, FRAN. TEOD. DE BONOMO PROVISORIBVS GERMANICO AB ARGENTO I. C. F. ET PETRO IVLIANO I. V. D. POSVIT ANNO MDCLXXXXIII. Neil' interno del palazzo sulla prima gradinata : MAECENATI EX1MIO VIRO MAXIMO FRANCISCO VDALRIGO COMIT1 TVRRIANO AD REMP. VENET. CAES. LEGATO GRATVM MEMORIAE TESTIMONIVM S. P. 0- T ANNO SAL. MDCVC. Sul lato esterno di ponente: IMP. LEOPOLDO SEMPER AVGVSTO, AC DOMINANTE CLEMENTIA AEDIFIC1VM HOC QVOD PATRIAE SEDVLITATE PVBESCERAT CVIQVE TEMPVS INVIDO INSIDIABATVR DENTE PRESID. 10ANNE PniLIPPO COBENZL CJES. CVB INT. C0NS. ET C0RIT1AE CAP. ELECTO ANTONIO FERETTI EX. GRAECI REG. CONS. ET VICE CAP. CAESAREO ANDREAE CIVRANI, LAVRENTII CALO ET STEPHANI COM1TIBVS IVDICVM ATQVE RECTORVM OPERANTE ZELO REPARANTE SOLERCIA LAZERO FRANCOLO IACOBO 1VLIANI I. V. D. PROVISORIBVS CONSONA MVRORVM COMPAGINE ET INCREMENTO PROPOSITVM ADOLEV1T IN DECVS ET CONSTIT1T ANNO MDCXCVII. Nel salone del palazzo: \ TERGESTI CIVITAS TER BENEMERITO CIVI ANDREAE CIVRANO QVI EXIMIA OECONOMIA SEDVLITATE NEC NON PROPRIO AERE COMMODATO PVBLICO IMPERFECTAM HANC MOLEM AD PERFECTIONEM REDEGIT MARMOREVM HOC MONVMENTVM 1VXTA S. C. DECRETVM POSVIT ANNO MDCIC. Su d'un pilastro esterno : PALATIVM CVRIALE EX CINERIBVS IN QVAS DIE CINERVM ANNI PRIORIS DEPASCENS FLAMA RE DVXERAT MELIORI FATO MELIOREM IN FORMAM A FVNDAMENTIS RENASCI COEPIT SVB AVSPICIIS AVG. LEOPOLDI I. ROM. IMP. ET SER. ROM. RE GIS IOSEPHI. Questo palazzo, che è dovuto alle sollecitudini ed alle anticipazioni in danaro del patrizio Andrea Civrani, formava un edifizio il cui pianterra ad arcate di pietra calcare offeriva comodo porticato; il piano superiore non aveva che una stanza d'ingresso ampia assai, che metteva ad una sala ampia di ben 88 tese viennesi in quadratura, alta a proporzione. Le dimensioni sembrano piuttosto destinate a sala di pubbliche festività anziché a radunanza di 150 patrizi, composti a consiglio. Era l'esterno ornato di sufficiente architettura, quale mai più si vide in Trieste, grandiosa, esprimente certa magnificenza che i nostri attingevano nelle provincie venete; l'edifizio intero era di lusso, poco profitto dando quelle botteghe sotto i portici, destinate a caffè e (con rossore il confessiamo) a bische di ozioso giuoco. La curia criminale, le carceri, l'alloggio dei birri erano nella parte postica del palazzo, però separati ; le magistrature erano nell'odierno edifizio ; la sala sulla loggia era la stuba del comune, destinata agli incanti, ed alle liti minori che verbalmente decidevansi, ed inappellabilmente, dagli assessori. Nella distribuzione della piazza erasi conservata l'imitazione di Venezia; v'era il palazzo, di radunanza soltanto, v'erano le prigioni attigue, v'era la torre dell'orologio coi mori che battevano, v'era la cappella del consiglio, v' erano perfino le due colonne con sopra S. Giusto e l'aquila; la piazza, il palazzo erano il luogo di piacevole riunione della parte migliore di città. L'ingrandimento della quale esigendo luogo di pubblici spettacoli, fu la sala scelta a teatro di opere, e ad imitazione di Venezia, che i nomi dei teatri prese dalle chiese più prossime, si disse teatro di S. Pietro, e vi si diedero spettacoli veramente maravigliosi di canto, di ballo, di moresche. Convertito il palazzo in teatro stabile con palchi e scena, durò fino al principio del secolo presente in forma di teatro, e si vuole che poco abbiano ad invidiare gli spettacoli dati da poi. Nei portici del palazzo cominciò la prima Borsa mercantile e durarono le radunanze fino a che fu alzato sul principio del secolo il nuovo edifizio; nei portici si raccolse l'Arcadia Sonziaca fino a che potè respirare quest' aure; nei portici cominciò il primo gabinetto di lettura e quella biblioteca che poi divenne civica. Trasportato il teatro, trasportata la Borsa mercantile, trasportata la biblioteca, cessata l'Arcadia, l'edifizio rimase deserto, e ricordiamo avervi veduto depositate vecchie armi inservibili, libri delle biblioteche di soppressi conventi gettati alla rinfusa, insieme a ceste di pomi ed a panche dei rivenduglioli della sottoposta piazza, che vi trovavano sicuro deposito e pronto materiale d'invoglio. Nel 1822 fervendo uno zelo di togliere siffatti imbarazzi di edifizi non utilizzati, fu sterrato il palazzo nel proponimento di farne un novello, fu atterrata la metà della chiesa di S. Pietro, e più oltre volevasi procedere; più tardi, la torre dell'orologio - ove stavano le antiche campane che chiamavano i patrizi a consiglio, il popolo all' arringo, i negozianti alla Borsa -, le prigioni convertite in ospitale di pazzi e deposito di macchine per gli incendi, la curia criminale da lungo deserta, le mura della città furono sterrate e ridotta la piazza come è oggigiorno. Novelli progetti sorvenivano, per quanto è a nostra cognizione, e quello pur anco che sembrava non isgradi-to di protendere la piazza sul mandracchio interrandolo, e facendone altro per le barche minori, avanzando il palazzo governativo a linea della casa Stratti; sterrando la locanda grande, ed in linea della casa Jovovich ergendo dirimpetto al palazzo di Governo il palazzo comunale, che avrebbe avuto l'un prospetto sul mare, l'altro sulla piazza maggiore, il terzo su quella detta della pescheria. Parve a taluno che piazza si vasta, sì regolare, di prospetto al mare, fiancheggiata da edifizi che facilmente potevansi gentilmente decorare, non sì facilmente avreb-besi potuto cercare altrove, e che nobile comparsa fatto avrebbe posta com'è in centro al porto. E v'era pensiero di ornare la piazza con chiesa che surrogasse là troppo gretta di S. Pietro, e nel centro dell'emporio dèsse segno della pietà dei Triestini, di religiosa riconoscenza al divino patrocinio. Ed udimmo dire che il palazzo comunale avrebbe facilmente potuto accogliere quanto è occorrente agli offizi municipali, ed alla rappresentanza; e che il comune avrebbe avuto possibilità in circostanze solenni di esercitare quel rispetto e quella urbanità, a soddisfare la quale deve ricorrere ad altri o corpi o persone, quasi si trovasse in città altrui. E v' ha chi pensa essere siffatti progetti caduti o fatti impossibili per la sconvenienza di immunire il mandracchio, porto da lunghi anni non accessibile al commercio, ma riservato a stazione chiusa di barche che vendono vino alla spicciolata. Non toccheremo noi della convenienza di tenere in centro alla città ciò che facilmente e con miglior agio, sebbene contro consuetudine, può tenersi altrove, nè della sconcezza che viene dall' assembramento di marinari non troppo rigidi osservatori di decenza, in mezzo a caseggiati; nè della purità non troppo encomiabile di quelle acque ; a noi l'esempio delle antiche vicende è maestro e guida, a noi sembra che il protendere in mare non offra alcun pericolo, chè fino alla metà del golfo ove le acque sono ancora profondissime v'è tempo a giungere, e nulla si perde coli'accrescere terreno ; ma non progrediremo in ciò perchè fu nostro scopo mostrare cosa fecero i nostri maggiori, dei quali si pensa esseri stati gretti nelle idee, poveri nei mezzi; di mostrare quanto seppe fare 150 anni sono un comune che contava i 5000 abitanti. Storia di Trieste del Padre Ireneo. Parte I, stampata a cura del Consiglio dei patrizi dì Trieste. Nel Nro. 4 dell' Istria venne inserito un articolo biografico del P. Ireneo della Croce, segnandovi sotto il mio nome, comunque io avessi preferito che il mio nome si fosse ominesso. Queste stesse memorie del P. Ireneo che riguardano 1' opera di lui, io le aveva in precedenza date per esserne fatto uso pubblico. Io non desidero di figurare fra i letterati, mentre so di non essere più che semplice ricoglitore di patrie cose; io non raccolgo nè annuncio fatti, della esistenza e verità dei quali non mi sia per quanto mi è umanamente possibile, convinto; a-gli uomini della mia condizione, ad ogni uomo civile, 1' asserire cose non vere, il negare cose esistenti è macchia gravissima. Ho asserito che il P. Ireneo donava nel 1694 la prima parte delle sue storie al Consiglio dei patrizi di Trieste, e che questo Consiglio a proprie spese e col danaro avuto da oblatori lo faceva stampare; nè avrei asserito ciò se non ne avessi veduto le prove. Ho asserito che la seconda parte dell' Ireneo era stata donata dall' Ireneo nel medesimo intendimento al capitolo di Trieste, e che capitata in mano del P. Mainati, fu da questo inserita nelle sue cronache, però mutila ed alterata. Non avrei ciò detto, se non avessi avuto occasione di avere sott' occhio il manoscritto dell' Ireneo, e se non mi fossi preso la fatica di farne copia esatta, e rettificata che custodisco presso di ine. L'autore di un opuscolo sull' arco di Riccardo in Trieste, stampato nel 1846 in Trieste, il canonico curato di Barbana, D. Pietro Stancovich, ha creduto non solo di mettere in dubbio i fatti da me esposti, ma di negare assolutamente che sieno veri, ed ha creduto di porre in fronte del suo opuscoletto i capitoli che si proponeva di trattare ex professo, e fra questi la stampa dell' Ireneo. Ecco le sue parole: «L'ISTORIA DI TRIESTE di Fra Ireneo della « Croce è un prezioso monumento patrio, il quale contiene « molte bonarietà da cancellarsi, condonabili perchè co-« muni e generali in quel secolo ; minori però molto alle « tante frottole e ciance imperdonabili in questi tempi di « lumi e progresso decantato, che qua e là si stampano. « Questo periodo è intieramente infondato, mentre nè FRA « IRENEO consegnava la sua istoria al Consiglio dei « Patrizi di Trieste, ned esso ne imprendeva la stampa, i ed in prova prendasi a mano l'Istoria stessa ». E qui seguono altre cose; poi l'autore continua: «È presumibile mai, e chi potrebbe credere, che « il Consiglio dei Patrizi di Trieste facesse stampare que-« sti forti rimbrotti, queste vive staffilate, queste pungenti « invettive dirette contro sè stessi? e eh' essi stessi in