received: 2008-06-25 UDC 94:343.15(450.256)"1831/1851" original scientific article QUANDO IL DIRITTO SI FA GIUSTIZIA: IL RUOLO DEL MAGISTRATO PENALE NEL REGNO LOMBARDO-VENETO Loredana GARLATI Universita degli Studi di Milano-Bicocca, Facolta di Giurisprudenza, IT-20126 Milano, Piazza dell'Ateneo Nuovo 1 e-mail: loredana.garlati@unimib.it SINTESI Gli orientamenti della giurisprudenza penale nell'Italia preunitaria costituiscono un tema che ancora attende una approfondita analisi. L 'omissione ha riguardato in particolare il Regno Lombardo-Veneto, in ragione della maggior considerazione riservata al circuito codificatorio franco-sabaudo a discapito della cultura giuridica di matrice asburgica, penalizzata anche da pregiudizi, di natura politica, generati dal fervore risorgimentale. Il ruolo del magistrato quale interprete e mediatore tra l'astrattismo normativo e la concretezza del quotidiano giuridico e qui ricostruito con riferimento al tribunale penale di primo grado di Brescia: lo studio di fonti archi-vistiche ha permesso di tracciare, in tema di reati contro la persona, l'attivitá svolta dal Giudizio criminale in vent'anni (1831-1851) di applicazione del Codice penale austríaco del 1803. La disamina delle sentenze pronunciate dal consesso giudiziale bresciano rivela la sorprendente capacita dei magistrati locali di ritagliare margini di discrezionalitá nella fitta rete inquisitoria intessuta dal codice asburgico: essa mostra nitidamente da un lato il doppio volto (assolutistico e garantistico) del sistema di prove legali, dall'altro una mitezza sanzionatoria generata dall'attenzione alle spe-cifiche varianti soggettive dei rei e all'ambiente socio-economico di riferimento. Parole chiave: Brescia, processo penale, omicidio, uccisione, ferimento, Codice penale universale austriaco (1803) WHEN THE LAW TAKES JUSTICE INTO ITS OWN HANDS: THE ROLE OF THE CRIMINAL JUDGE IN THE KINGDOM OF LOMBARDY-VENETIA ABSTRACT The trends in criminal law in pre-unification Italy is a topic still awaiting in-depth analysis. The omission concerns particularly the Kingdom of Lombardy- 491 Loredana GARLATI: QUANDO IL DIRITTO SI FA GIUSTIZIA: ..., 491-504 Venetia in proportion to greater consideration dedicated to the Frankish-Savoy codifying circuit and to the disadvantage of the Habsburg-based judicial culture, also penalised by prejudices of political character generated by the fervour of the Risorgimento. The article reconstructs the role of the criminal judge as an interpreter and mediator between the abstractness of the rules and the concreteness of everyday judicial life in reference to the Brescia Criminal Court of First Instance and archival sources through the study of which it has been possible to outline - on the topic of crime against a person - the activities conducted by the criminal court during the twenty years (1831-1851) of its application of the 1803 Austrian Penal Code. The examination of the sentences passed by the Brescia judicial assembly revealed a surprising ability on the part of the local criminal judges to cut out for themselves ample margins of discretion in the thick inquisitorial net woven by the Habsburg code: it clearly shows the two faced (absolutist yet respectful of civil rights) system of legal evidence on the one hand, and the sanctioning mildness generated by the attention given to specific subjective variants of the crimes and the related socioeconomic environment. Key words: Brescia, criminal trial, homicide, manslaughter, injury, General Austrian Penal Code (1803) All'indomani del tramonto del disegno egemonico napoleonico, la Lombardia conobbe il ritorno nei suoi territori degli 'antichi' dominatori austriaci, che, come era accaduto già nel passato, procedettero ad una riorganizzazione socio-politica, ma soprattutto giuridica del dominio italico. Del diritto e dell'apparato giudiziario precedente non rimase che un cumulo di macerie, su cui l'Austria impiantô le proprie norme e magistrature. La costruzione del Regno Lombardo-Veneto si risolse in una creatura artificiosa, che costringeva Lombardi e Veneti, accomunati dal senso di sollievo per la fine della (dis)avventura napoleonica, ma divisi nelle aspirazioni e nei singoli programmi politici, a convivere forzatamente in un paradosso istituzionale, con l'aggravante che per alcune città lombarde l'avvento degli Austriaci rappresentava una assoluta novità.1 E' questo il caso di Brescia, che aveva vissuto per secoli nel cuore di una repub-blica, forse sui generis come quella veneta, ma pur sempre repubblica, da cui si era poi distaccata per sperimentare in prima persona la condizione di Stato indipendente.2 Il 1 Per la sterminata bibliografía relativa alla nascita del Regno Lombardo-Veneto mi permetto di rinviare al volume di chi scrive: Garlati, 2008, 7-8. 2 Sulla ricostruzione delle vicende di Brescia repubblicana cfr. Da Como, 1926; Frugoni, 1947; Abeni, 1988. 492 Loredana GARLATI: QUANDO IL DIRITTO SI FA GIUSTIZIA: ..., 491-504 giogo austriaco fu quindi qui mal tollerato, più che nelle altre città del Regno, come dimostrano i moti insurrezionali che infiammarono le sue terre e ne fecero il tragico scenario di celebri processi politici. Anche per questo suo essere una terra ibrida, veneta nel cuore e per tradizione, lombarda per imposizione geo-politica, Brescia rappresenta una sorta di angolo di visuale privilegiato per cogliere le modalità applicative del Codice penale universale ausliaco,3 promulgate in terra d'Austria nel 1803 e divenuto vigente nei territori soggetti all'aquila bicipite nel 1816, all'indomani della nascita del 'nuovo' Regno.4 L'applicazione del codice penale in Italia segnó la fine della sperimentazione legislativa cui si erano dedicate da tempo le menti più fervide della criminalistica lombarda (e non solo). I progetti che si erano succeduti instancabilmente dal 1792 in poi5 (o in un periodo ancor più risalente, se si considera quale primo anello di questa catena il progetto di Luigi Villa del 1786) (cfr. Rondini, 2006), anticipatori di una sorta di terzo modello codificatorio cui si ispirerà il legislatore unitario del 1889 (Cadoppi, 2003, 121-174), si arenarono per sempre di fronte al muro invalicabile frapposto dal ferrigno rito inquisitorio disciplinato dal testo asburgico: l'aspirazione ad un codice penale squisitamente nazionale fu accantonata definitivamente. Se questo codice solo di recente è divenuto oggetto di approfonditi studi, dopo più di un secolo di trascuratezza storiografica, dovuta anche a pregiudizi di natura politica che ne hanno fatto perdere di vista l'alto valore tecnico (Cavanna, 2001, CCXIX-CCLXV), restano poco noti, per non dire del tutto sconosciuti, la giurispru-denza che su quel codice si è formata e il ruolo svolto dalla magistratura penale lombardo-veneta nella fase esecutiva. L'Archivio di Stato di Brescia custodisce, a questo proposito, un ricco patrimonio, fino ad ora pressoché inesplorato,6 una fonte preziosa per comprendere l'operato del tribunale di primo grado, chiamato a dare attuazione alla legge, trasformandola da parola astratta in 'diritto vivente'. Nell'ambito penale (sostanziale e processuale) il governo asburgico non si limitó a sostituire un codice (quello napoleonico) con un altro, ma mutó profondamente lo spirito che animava il sistema criminale. Ancora una volta, come spesso era ac-caduto, si trattava di un diritto e di un codice che parlavano un'altra lingua: ai magistrati bresciani di prima istanza spettó il compito di calarlo nel contesto sociale 3 Del codice penale è qui di seguito usata l'edizione Codice penale universale austriaco, Milano, I.R. Stamperia, 1815. Sulle traduzioni italiane del codice austriaco cfr. Ambosio, De Zan, 2001, LXIX-LXXV. 4 Cfr., per tutti, gli scritti contenuti in Codice penale universale austriaco (1803) (Vinciguerra, 2001). 5 Al progetto redatto nel 1792, sotto l'egida di Leopoldo II, è dedicato il saggio di Cavanna, 1975. Non si possono poi trascurare i lavori di Luosi (Cavanna, 1996, 659-760) e di Romagnosi (Dezza, 1983; Isotton 2006, 119-130). 6 Per la descrizione del fondo cfr. Garlati, 2008, 37-43. Una similitudine con i fascicoli conservati negli archivi veneti si riscontra da una lettura di Povolo, 2006, 34-36. 493 Loredana GARLATI: QUANDO IL DIRITTO SI FA GIUSTIZIA: ..., 491-504 specifico e di adattarlo alle esigenze di una popolazione costretta a subirne gli effetti senza aver partecipato al suo processo formativo. L'analisi della giurisprudenza bresciana nell'età matura dell'interpretazione e dell'applicazione del codice penale del 1803, quella che copre un arco temporale che va dal 1831 al 1851 (sono infatti questi gli anni a cui si riferiscono i documenti archi-vistici conservati nel fondo Processi criminal!), attesta una frattura a volte sfumata, a volte netta tra il mero precetto, generale ed astratto, e la sua esecuzione, condizionata da una serie di fattori tra i quali, non ultimo, le condizioni personali, culturali ed economiche dei soggetti che con quel codice erano giudicati. In particolare, il ruolo dell'interprete puô essere colto, in generale, nella disamina delle sentenze pronunciate in tema di reati contro la persona, e nello specifico nell'ambito dell'omicidio (intenzionale) e uccisione (preterintenzionale), fattispecie che permettono non solo di verificare i percorsi ermeneutici seguiti dal consesso di primo grado, ma anche di scandagliare i rapporti tra curia locale e tribunale d'appello. OMICIDIO E UCCISIONE: IL MAGISTRATO BRESCIANO DA FREDDO BUROCRATE A INTERPRETE DISCREZIONALE Le due ipotesi delittuose di omicidio e di uccisione, chiare nella loro enuncia-zione teorica nei §§ 11l e 123, sfuggenti nel momento della individuazione pratica, attestano il necessario ed inevitabile spazio di intervento lasciato al giudice nel momento della determinazione della qualificazione del fatto: gli elementi costitutivi dei due diversi illeciti offrono buon gioco ai magistrati per ricondurre i singoli casi concreti ora sotto l'uno ora sotto l'altro nomen giuridico, mostrando nel Giudizio criminale bresciano una costante oscillazione tra figure contigue, tanto che molti processi istruiti per un capo di imputazione ne registrano la mutazione in altro di segno opposto (ASBs, ó; ASBs, 11). La differenza tra i due delitti riposava sul grado di intenzionalità del soggetto: se il § 11l richiedeva per l'omicidio la risoluzione di ammazzare una persona espressa da un comportamento del soggetto agente volto a far derivare necessariamente la morte della vittima, il § 123 ricomprendeva sotto il nome di uccisione ogni azione intrapresa con altra nemica intenzione. Omicidio doloso nel primo caso, preterintenzionale nell'altro, in cui la deter-minazione della natura del fatto poggiava tutta, com'è facile intuire, sul 'calcolo dell'intenzionalità' operata dal magistrato. La sensazione che si ricava dall'esame delle sentenze è che la scelta di qualificare il fatto come uccisione anziché come omicidio rappresentava un abile escamotage derubricatorio, in grado di consentire, nel rispetto formale della legge, l'adozione di un trattamento sanzionatorio più mite: il carcere, anche se duro, anziché la morte, prevista dal § 119 per l'omicidio consumato. 494 Loredana GARLATI: QUANDO IL DIRITTO SI FA GIUSTIZIA: ..., 491-504 E' la dimostrazione che anche un impianto rígidamente inquisitorio e legalistica-mente formale come quello del rito austríaco concedeva al giudice la possibilitá di un intervento discrezionale, risolventesi, per ció che concerne le ipotesi di omicidio ed uccisione, in un giudizio di accertamento del dolo e del suo grado di intensitá. La ricostruzione della voluntas necandi si fondava su una serie di fattori, quali il tipo di movente, la personalitá dell'inquisito, i rapporti intercorrenti tra vittima e reo, le modalitá dell'azione, il tipo di arma usata e la sua idoneitá ad uccidere, il numero, la direzione, la ripetizione e la violenza dei colpi, la preparazione e l'occultazione dell'arma prima dello scontro. Sotto questo aspetto, appaiono sorprendenti alcuni risultati a cui perviene la magistratura. A volte infatti non basta che il soggetto si armi appositamente per affrontare l'avversario, che si apposti, che colpisca intenzionalmente parti vitali del corpo, provocando la necessaria e prevedibile morte del ferito, per indurre il magistrato a propendere per la qualificazione del fatto in omicidio (ASBs, 5; ASBs, 3). La corte bresciana sembra costantemente alla ricerca di situazioni che escludano il dolo. La provocazione, anche minima, il manifesto pentimento, l'immaturitá dovuta all'etá, la trascurata educazione, la mancanza di precedenti penali, fattori che la legge indicava quali mere circostanze attenuanti del reato, sono al contempo invocate sia per stabilire la tipologia illecita del fatto e giungere a qualificarlo come uccisione anziché omicidio, sia per attenuare, in fase sanzionatoria, il rigore delle pene. In altre parole, la corte eleva la medesima situazione ad indice di esclusione dell'intenzionalitá di uccidere (consentendo cosi l'inquadramento della fattispecie delittuosa sotto l'ombra lunga del reato di uccisione) e a circostanza attenuante in grado di influenzare il trattamento punitivo (Garlati, 2008, 399-406). E cosi la provocazione, anche minima, subita dal reo, o il pentimento mostrato dall'imputato in fase di interrogatorio, come pure l'immaturitá psicofisica del soggetto agente imputabile alla giovane etá sono richiamati in fase di qualificazione del fatto e, in seconda battuta, per giustificare la scelta del minimo sanzionatorio con-sentito dalla legge, che puniva l'uccisione con il carcere duro da cinque a dieci anni: minimo e massimo edittali raddoppiati (dieci e venti, quindi), nel caso in cui ricor-resse come aggravante il rapporto di parentela (§ 125). L'USO DEL § 48 NEL REATO DI GRAVE FERIMENTO: UN RITORNO ALL'ARB/TR/UM? Anche in tema di ferimento si riscontra la medesima situazione constatata in tema di omicidio/uccisione: un dettato normativo giá foriero di ambiguitá interpretative a livello dottrinale sfociava, in ambito giurisprudenziale, in una evidente incertezza qualificatoria del fatto. 495 Loredana GARLATI: QUANDO IL DIRITTO SI FA GIUSTIZIA: ... , 491-504 I §§ 136-139 del codice, dedicati prevalentemente al profilo sanzionatorio, lascia-vano ampio margine operativo ai giudici in virtù di una vaga formulazione lessicale.7 Innanzitutto si rendeva necessaria una stima sulla gravità o meno della ferita per stabilire la linea di discrimine tra i ferimenti rientranti nella categoria dei delitti e quelli appartenenti alla classe delle mere trasgressioni. Fondamentale era in questo caso la valutazione del magistrate, coadiuvato dalle competenze medico-legali dei periti. Non si trattava perô solo di scindere i delitti dalle contravvenzioni (e conseguen-temente i ferimenti dolosi da quelli colposi), ma di sciogliere, all'interno della classe del delitto di ferimento, il nodo rappresentato dal rapporto tra il § 137,8 che sanzio-nava il ferimento con la pena del carcere semplice da uno a cinque anni (elevabile a carcere duro per la stessa estensione temporale in ragione del maggior grado di malizia, della maggior violenza e gravità della lesione) se "a) alloffesa recata va congiunto il pericolo della vita, o se fu recata in guisa, che l'offeso ne abbia a soffrire un grave pregiudizio nel suo corpo; b) se l'offesa fu recata con istromento tale, ed in tal modo, da cui comunemente non va disgiunto il pericolo della vita; c) se una persona venne sorpresa a tradimento e fu violentemente lesa anche soltanto con battiture, " e il § 138, norma dal sapore residuale, in cui si sanciva che "i gravi ferimenti e le gravi lesioni non espresse nel precedente paragrafo sono punite col carcere fra sei mesi ed un anno."9 E' evidente l'ambiguità che si cela dietro un'apparente chiarezza lessicale:10 è come se il codice con il § 138 introducesse un secondo tipo di ferimento grave, deducibile per sottrazione, ossia enunciabile tutte le volte in cui non ricorressero gli estremi, per di più generici e nebulosi, fissati dal § 137. Ancora una volta è lasciato all'interprete discernere tra gravi pregiudizi o violente lesioni ex § 137 e gravi ferimenti ex § 138, una determinazione che non si risolveva 7 Uno dei commentatori più filoasburgici del codice, Antonio Albertini, è costretto ad ammettere che solo il ricorso all'arbitrio giudiziale consentiva l'armonica ed effettiva operatività di tali disposizioni, aggiungendo a tal proposito che "noi ci asterremo dal precisarle, tanto più ch'è oltremodo difficile stabilire nel proposito regole generali, che in ogni caso apparterrebbero alla scienza medica" (Alber-tini, 1824, 238). 8 Un'analisi dettagliata del § 137 è offerta da Stefano Arcellazzi, per il quale la rilevazione della gravità dell'offesa nasce dall'intreccio di specifiche competenze mediche e legali: le due discipline devono "essere fedelmente coalizzate a vicendevole sussidio" e se alla "chirurgia" spetta "riferire", al magi-strato tocca "ponderare". E cosi la "gravezza del pregiudizio nel corpo" si puô desumere, secondo l'autore, "dalle traccie che lascia dopo di sé l'offesa, dalla località fisica pregiudicata o resa inservibile, dal tempo limitato, o dalla perpetuità di tal pregiudizio" (Arcellazzi, 1822, 442-446). 9 Lo stesso Arcellazzi si arrendeva di fronte alla difficoltà di "distinguere i gravi ferimenti e le gravi lesioni dall'offesa cui va congiunto il pericolo della vita" (Arcellazzi, 1822, 447-448). 10 Fortemente critico in tal senso Pietro Mantegazza, per il quale "le prescrizioni comprese nel § 137 mi sembrano espresse con termini cosi generici e indeterminati da non poterne fare una sicura applica-zione ai casi pratici," anticipando le effettive difficoltà in cui si sarebbe dibattuta la giurisprudenza nel momento attuativo della norma (Mantegazza, 1816, 80-96). 496 Loredana GARLATI: QUANDO IL DIRITTO SI FA GIUSTIZIA: ..., 491-504 in una mera operazione concettuale, dogmatica o qualificatoria, ma incideva nella scelta della sanzione: severa nel primo caso (carcere, eventualmente anche duro, da uno a cinque anni), decisamente mite nel secondo (carcere semplice da sei mesi ad un anno). In tema di ferimento, l'esito effettivamente inatteso è non solo la scelta quasi sistematica di considerare il ferimento grave ex § 138 e non ex § 137, realizzando un'evidente opzione punitiva a favore del genere di sanzione più tenue, ma anche il fatto che, quando si decide di applicare il regime del § 137, la sentenza dispone quasi sempre il minimo della pena. Alcuni dati serviranno a cogliere meglio questo profilo. Limitando l'analisi unicamente all'arco temporale compreso tra il 1831 e il 1841, su trecentosette processi per ferimento esaminati, si hanno solo trentasei processi per grave ferimento ex § 137, di cui ventiquattro si risolvono con una condanna al carcere semplice. Di questi ventiquattro, undici processi si concludono con l'irrogazione del minimo di un anno di carcere (che - è opportuno sottolinearlo - coincide con il tetto massimo fissato dal § 138), giocando spesso per l'irrogazione di una simile pena sulla prevalenza di circostanze attenuanti (soggettive) rispetto alle aggravanti, pur in presenza di un ferimento oggettivamente grave e pregiudizievole. Di conseguenza soltanto in dodici casi, ossia 1/3 del numero complessivo, si rileva quella particolare intensità del dolo o quella specifica malizia comportante la variazione del genere sanzionatorio da carcere semplice a duro. Ció avviene quando si rinvengano circostanze aggravanti preponderanti rispetto alle attenuanti o si constati l'assenza di provocazione congiunta ad una particolare ferocia dell'agente (ASBs, 8; ASBs, 1; ASBs, 4). Se si cerca di estrapolare un criterio-guida, l'inquadramento sub § 137 avviene senza dilemmi interpretativi quando le ferite inferte cagionano malattie della durata di due/tre mesi, identificate con quella offesa congiunta al pericolo di vita di cui al punto a dell'articolo,11 oppure pregiudizi corporali permanenti come la perdita par-ziale o totale di un senso o di un arto (ASBs, 4, ASBs, 7; ASBs, 10). Si hanno invece quarantacinque casi di grave ferimento puniti con le previsioni di cui al § 138: ventisei ricevono il minimo, ossia la pena di sei mesi, mentre i restanti diciannove vedono condanne che vanno dagli otto mesi all'anno di carcere. Ma la vera sorpresa è rappresentata dalle condanne espresse in via di mitigazione ex § 48: ben duecentosei processi per grave ferimento (su trecentosette in totale, 11 Ad esempio, nel caso di ferimento di Angelo Carpina ad opera di Sante Caravaggio la corte si pronuncia per una condanna a due anni di carcere duro in virtu della relazione svolta dai periti, i quali dichiararono "essere stato un caso che il Carpina abbia potuto sopravvivere," a dimostrazione del pericolo di vita corso dalla vittima. Le ferite, inoltre, erano state prodotte da un coltello celato alla vista dell'aggredito da un fazzoletto, in modo che il Carpina non potesse avvedersene, cosi da integrare nella dinamica dell'aggressione un tipico comportamento proditorio (ASBs, 2). 497 Loredana GARLATI: QUANDO IL DIRITTO SI FA GIUSTIZIA: ..., 491-5Q4 equivalenti a circa il 7Q%) vedono il ricorso a questa disposizione, secondo la quale "solamente ne ' delitti, pe ' quali la pena è determinata ad un tempo non maggiore di cinque anni, puo il carcere esser ridotto ad un grado più mite, od esserne accorciata la durata nel caso che concorrano tali, e tante circostanze mitiganti, che lascino luogo a sperare con fondamento l'emedazione del reo." La norma consente la riemersione di una valutazione discrezionale del magistrato quanto mai contigua a quell' arbitrium che il codice intendeva invece soffocare entro le strette maglie dei principi legalistici. L'ingresso delle circostanze (aggravanti, ma soprattutto attenuanti) nel vaglio del giudice finisce per orientare in modo significativo le decisioni del tribunale. Come si è accennato in tema di omicidio e uccisione, anche nel reato di ferimento l'assenza di aggravanti e il riscontro di alcune o di tutte le circostanze contemplate dal § 39 (quali la giovane età, la trascurata educazione, l'assenza di precedenti, l'aver agito per violenta commozione d'animo, la spontanea confessione o costituzione in giudizio, il pentimento mostrato, la riparazione del danno arrecato) inducevano a stabilizzare la pena sul minimo, ma l'uso del § 48 finiva per ampliare il novero delle circostanze mitiganti a situazioni non espressamente contemplate dal § 39, quali la rissa, l'ubriachezza, l'in-digenza economica, vanificando cosí quasi completamente il principio di tassatività. L'interpretazione estensiva rischia qui di tradursi in una vera e propria operazione creativa, per di più avallata dal tenore della legge stessa: risultato non indifferente laddove si rifletta che la prassi di applicare pene in via di mitigazione riguardava non solo i gravi ferimenti di cui al § 138, ma anche una trentina di processi istruiti sulla base del § 137. Si tratta di sentenze in cui si dispongono pene variabili da due a otto mesi pur in presenza di lesioni gravi, come la cecità permanente o l'inservibilità di una mano, per di più provocate dal reo con una attestata volontà di offendere (per usare una formula ricorrente negli atti). In altre parole, la giurisprudenza era chiamata a svolgere un lavoro di arricchi-mento e di precisazione del dettato legislativo: non è un caso, a mio avviso, che buona parte delle massime giurisprudenziali fu recepita nel successivo testo del 1852, sia in tema di ferimento che di uccisione, a dimostrazione dell'attenzione e della sensibilità del legislatore verso i suggerimenti che derivavano sia dal dibattito dot-trinale che dagli orientamenti giurisprudenziali. Significativa è anche la riflessione talora contenuta nel voto del relatore, il quale giustificava la scelta di ridurre la pena in base al § 48 con la volontà di limitare il più possibile la durata della carcerazione nei confronti di soggetti considerati ancora so-cialmente recuperabili. Emerge, in modo neppure troppo velato, la convinzione che una prolungata detenzione finisse per produrre sull'agente riflessi e conseguenze cri-minogeni, istruendolo, anziché distraendolo dalla commissione di futuri delitti. Vi è dunque da parte dei magistrati bresciani un uso della pena vólta al reinserimento e all'emenda del reo, seguendo sí il § 48, ma ampliandone i confini applicativi, rendendo 498 Loredana GARLATI: QUANDO IL DIRITTO SI FA GIUSTIZIA: ..., 491-504 preponderante una finalità secondo l'impianto punitivo del codice asburgico che si pre-occupava, piuttosto, di attribuire alla sanzione una funzione prevalantemente preventiva e retributiva. Ció che traspare dalla lettura delle sentenze è una sorta di tacito disegno programmatico tracciato dalla magistratura: si evince uno sforzo unitario dispiegato per ricercare modalità attuative ed applicative del codice lontane da una pedissequa e ottusa fedeltà al dettato normativo ed improntate, al contrario, al recupero e al riap-propiamento di un ambito discrezionale che le rigidità procedurali del testo del 1803 miravano a svuotare. LA POSSIBILE CONCILIAZIONE12 Dalle sentenze esaminate emerge poi un altro dato interessante: il sistema di prove legali, tradizionalmente considerato legato a doppio filo alla natura inquisitoria del processo, appare davvero una sorta di selva oscura, in cui quanto mai sfumati sono i confini tra sottoposizione del giudice al rigido vincolo probatorio e margine di apprezzamento valutativo. L'esame della giurisprudenza in tema di omicidio dimostra infatti che il sistema legalistico fini per salvare molte vite dalla forca. Non sono rari i casi in cui il giudice relatore, nel referato finale, dichiara a gran voce di ritenersi convinto della colpe-volezza dell'imputato, meritevole perció della condanna a morte, lamentando per converso l'impossibilità a disporla per la mancanza della confessione o di testimoniale giurate, le uniche prove ammesse dal codice del 1803 a fondamento della pena capitale (§ 430). Le sentenze bresciane rivelano un drammatico vis à vis tra prove legali e intimo convincimento, dimostrando, nella trincea dei processi, come le prime finirono per impedire un uso ampio e indiscriminate della pena estrema: la pressoché totale assenza di confessioni nei casi di omicidio (o il numero percentualmente irrilevante delle stesse), dovuta si alla tenacia con cui i rei rifiutavano ogni addebito di responsabilità, ma a volte anche ad una volontà dei magistrati (ovviamente inespressa ed implicita, ma ugualmente percepibile) di non ricorrere durante l'interrogatorio ai rimedi estremi di coartazione pur consentiti dalla legge, fornisce il 'paravento legale', la rete di protezione dispiegata dal codice contro la quale infrangere ogni velleità di abuso della pena capitale. Tali decisioni, dunque, ripropongono in modo quanto mai vivo e attuale un interrogativo su cui ritengo opportuna una pacata riflessione: conserva ancora senso oggi, o meglio, è ancora possibile sostenere la rigida contrapposizione tra rito accusatorio e inquisitorio, con tutte le conseguenze e implicazioni che una tale antitesi comporta, 12 Si richiama nel titolo, in una prospettiva provocatoriamente rovesciata, la felice espressione di Dezza, 2001, CLV. 499 Loredana GARLATI: QUANDO IL DIRITTO SI FA GIUSTIZIA: ..., 491-504 non ultimo il legame, quasi necessario, tra sfondo politico e modello processuale (forma autoritaria = inquisizione, regime democratico-liberale = rito accusatorio)? Lo stesso dubbio puó sorgere riguardo ai due regimi probatori: a parte ogni giudizio di merito su quale sia preferibile tra un sistema imperniato sul libero con-vincimento ed uno dominato dalla determinazione ex ante del valore di ogni singolo mezzo da parte della legge, è davvero credibile una cesura netta e un totale antagonismo tra le due forme? Ed è del tutto corretta la tralatizia equazione tra libero convincimento e tutela dei diritti del singolo da una parte, prova legale e impianto repressivo dall'altro? I documenti archivistici rivelano che nella realtà il materiale probatorio con cui il giudice si trovava spesso a fare i conti era quello indiziario: su questo terreno si giocava la vera partita tra rigidi vincoli legalistici e apporto interpretativo del col-legio giudicante. Per quanto il legislatore austriaco si fosse impegnato a regola-mentare al meglio questo paludoso terreno, con il § 412 prima e con la Patente del 1833 poi (cfr. Povolo, 2006, 13-143; Rondini, 2008, 93-148), introdotta come cor-rettivo richiesto a gran voce dalla dottrina e dalla giurisprudenza per sanare i difetti presenti nella disciplina originaria, è proprio nell'ambito degli indizi che il magistrate dimostra una maggior libertà d'azione e di valutazione, cercando di contemperare la propria persuasione morale con il freddo calcolo legale. E' sintomatico che la petizione di ampliare gli spazi riservati all'intimo convin-cimento del giudice in tema di indizi provenisse per lo più dai magistrati, che vedevano talvolta nella morale certezza non già uno strumento a garanzia dei diritti dell'im-putato, ma piuttosto un mezzo 'giustizialista' brandito per liberarsi dai lacci e laccioli di una normativa che, nella ferrea determinazione quantitativa-qualitativa degli indizi necessari a rendere convinto l'imputato, causava, nei fatti, una sorta di impunità gene-ralizzata. Nell'impossibilità di raccogliere gli indizi nel numero e nel genere imposto dalla legge, i magistrati erano infatti costretti a sospendere i processi per difetto di prove legali e ció alimentava un senso di sconfitta e di impotenza intollerabile. Nel suo ruolo di interprete il magistrate penale bresciano mostra inoltre la capacité di calare il codice nello specifico contesto entro il quale agiva la sua giuris-dizione. Ne fornisce una riprova il ricorso a forme di esacerbazione della pena, in particolare alla berlina, come mezzo di esemplarità, teso a frenare una criminalità che, come si afferma spesso nelle sentenze, è quotidiana nella province d'oltre Mincio. Né la corte resta indifferente allo status dell'inquisito, che induce, di fronte a due casi simili, connotati dall'efferatezza del fatto, controbilanciata dalla giovane età degli imputati, a disporre nell'un caso la berlina (ASBs, 9) e ad escluderlo nel secondo, per evitare - cosí sostengono i giudici - una macchia disonorevole alla famiglia notoriamente rispettabile del reo: verso il lignaggio i magistrati mostrano dunque un palese ossequio, che tiene conto della posizione occupata dal reo all'in-terno del tessuto civile. 500 Loredana GARLATI: QUANDO IL DIRITTO SI FA GIUSTIZIA: ..., 491-504 La corte bresciana, non già nella fredda e impersonale configurazione di Giudizio criminale, secondo la dicitura propria del codice, ma nella sua composizione di giuristi chiamati ad applicare la legge senza esserne servitori sciocchi, mostró di saper calibrare il severo codice austriaco sulle fragili spalle della società di riferi-mento, una società violenta, attraversata da quotidiani eventi di sangue, in cui feri-menti, risse e uccisioni costituivano la valvola di sfogo quasi inevitabile di vasti segmenti sociali condannati all'emarginazione. La magistratura operó come efficace filtro tra l'astratto diktat normativo e il territorio di riferimento, assumendosi la funzione di mediare i conflitti (Chiodi, 2008, 7-59) e, forse non del tutto consapevolmente, di garantire la stabilità politica. L'immagine di saggezza e di prudenza creata dall'amministrazione giudiziaria attuti la sensazione di oppressione e di controllo esercitata dal governo asburgico attraverso lo strumento del 'giudizio', evitó di alimentare il dissenso politico e impedí la per-cezione di un'insidiosa frattura tra un governo centrale distante e dispotico e le concrete esigenze della periferia dell'Impero. Un'ultima considerazione. Appare frequente, per non dire sistematico, un inter-vento riformatore della sentenza di primo grado da parte del tribunale d'appello, che mostra di agire con una certa autonomia rispetto all'operato della curia locale. Se non è possibile parlare, salvo che in casi isolati, di un vero e proprio stravolgimento del giudizio, è certo che la corte milanese apportó costantemente modifiche o correttivi, in melius e in pejus, al giudizio della corte inferiore. Se è infrequente la mani-festazione di un dissenso sul capo d'imputazione, è altresi raro che si concordi sulla sanzione, quasi a voler dimostrare che la parola definitiva sui processi spettava all'organo di secondo grado, una sorta di esercizio di autorità e di segnale politico diretto a svolgere un controllo capillare sull'operato del tribunale bresciano, cui non si risparmiavano aspri rimproveri per errori rilevati in procedendo e in iudicando, e, in alcuni casi, per una inspiegabile mitezza sanzionatoria. Il palese divario che talvolta si riscontra tra i due livelli lascia intendere che la regolamentazione, per quanto accurata e dettagliata, riservata dal codice al tema delle prove non ne impediva una diversa e contrapposta lettura. L'intervento del magistrate (il fattore umano, verrebbe da dire) finiva per scardinare la fredda valutazione compiuta ex ante dal legislatore e il suo tentativo di imbrigliare entro le maglie di costruzioni artificiose situazioni rimesse, poi, alla discrezionale interpretazione dei giudici. Le indagini sulle fonti archivistiche aprono dunque ulteriori prospettive di inda-gine e tracciano sentieri futuri, svelando nuovi scenari sull'amministrazione della giustizia nella Lombardia dell'età della Restaurazione. Al centro del rito processuale campeggia, ancora una volta, la figura del giudice: prorompe l'apporto dell'interprete, autentico filtro attraverso il quale il diritto si fa realtà e concretezza. 501 Loredana GARLATI: QUANDO IL DIRITTO SI FA GIUSTIZIA: ..., 491-504 KO PRAVO VZAME PRAVICO V SVOJE ROKE: VLOGA KAZENSKEGA SODNIKA V LOMBARDSKO-BENEŠKEM KRALJESTVU Loredana GARLATI Univerza v Milanu-Bicocca, Pravna fakulteta, IT-20126 Milano, Piazza dell'Ateneo Nuovo 1 e-mail: loredana.garlati@unimib.it POVZETEK Po zatonu napoleonskega hegemonističnega načrta so se v Lombardijo vrnili "stari" avstrijski vladarji, ki so dali pobudo za družbenopolitično in pravno reorganizacijo italijanskega ozemlja. Rezultat prve je bil nastanek lombardsko-beneškega kraljestva, posledica druge pa razširjanje v Avstriji izdanih zakonikov na ozemlje kraljestva. Tako je bila Brescia, dolga stoletja zvesta Beneški republiki, priključena k lombardskim ozemljem in je na lastni koži (inprvič) izkusila zakonodajo novih "gospodarjev". Med omenjenimi določili so še posebej zanimivi načini izvajanja kazenskega zakonika iz leta 1803, kije vlombardsko-beneškem kraljestvu stopil v veljavo leta 1816. Avtorica prispevka jih je preučila z analizo sodb, ki jih je med letoma 1831 in 1851 izreklo prvostopenjsko kazensko sodišče v Brescii in jih še danes hrani tamkajšnji Državni arhiv. Kako pomembno vlogo je igral sodnik kot interpret pravne kulture, lahko najbolje razumemo z rezultati analize obsodb za umor in uboj. Obe zločinski hipotezi, jasni v svoji teoretski opredelitvi, zato pa toliko bolj izmuzljivi pri opredeljevanju v praksi, pričata o sodnikovem nujnem in neizogibnem intervencijskem prostoru pri opredeljevanju dejanja. Sestavni elementi obeh prestopkov, predvsem pa različna stopnja naklepnosti, ki je prisotna pri njiju, so sodnikom dajali možnost, da posamezne primere zvedejo enkrat pod en, drugič pod drug pravni nomen. Ob pregledu razsodb se porodi občutek, da je šlo pri opredeljevanju določenih dejanj za spretno zvijačo prekvalifikacije (namesto umora uboj), s katero je bilo mogoče formalno dopustiti izrekanje milejše sankcijske obravnave: zapor, čeprav strogi, namesto smrtne kazni, predvidene za izvršen umor po 119. členu zakonika. Tudi pri povzročitvi poškodb je eden od normativov, ki se je že v teoriji nagibal k interpretativni dvoumnosti, pripeljal do očitno negotove opredeljivosti dejanja. Vsebina členov št. 136-139je sodnikom pri reševanju zapletov v odnosu med 137. in 138. členom puščala dovolj manevrskega prostora. Pri opredelitvi ni šlo zgolj za dogmatsko operacijo, pač pa je leta vplivala na izbiro sankcije: ostre vprvem primeru (zapor, lahko tudi strogi, od enega do pet let) in nedvomno mile v drugem primeru (navaden zapor od šest do dvanajst mesecev). Najbolj presenetljiv rezultat, do katerega so pripeljale analize omenjenih razsodb, pa ni le malodane sistematična odločitev sodnega kolegija, da povzročitev poškodb označi za kaznivo dejanje po 138. in ne po 137. členu zakonika, s čimer so se očitno izrekli za možnost milejše kazni, ampak predvsem uporaba 48. člena. Po slednjem je bilo mogoče izrekati sodbe, ki so bile precej milejše od predvidenih minimalnih zakonskih 502 Loredana GARLATI: QUANDO IL DIRITTO SI FA GIUSTIZIA: ..., 491-504 kazni. Od skupaj tristo sedmih sodnih procesov za povzročitev poškodb se je sodišče kar v dvesto šestih primerih zateklo k tej uredbi. Tako smo priča ponovnemu uveljavljanju diskrecijske sodbe sodnika, ki se zelo približuje prosti presoji, prav temu, kar naj bi zakonik s svojimi tesnimi zankami legalističnih načel zatrl. Na podlagi teh podatkov lahko trdimo, da je brescianski kazenski sodnik v vlogi interpreta sklenil določbe zakonika izvajati v specifičnem družbeno-kulturnem in gospodarskem referenčnem okviru ter tako delovati kot učinkovit filter med abstraktno normativno zapovedjo in pristojnim področjem sodne oblasti. Ključne besede: Brescia, kazenski proces, umor, uboj, povzročitev poškodb, Splošni avstrijski kazenski zakonik (1803) FONTI E BIBLIOGRAFIA Albertini, A. (1824): Del diritto penale vigente nelle provincie lombardo-venete. Venezia, a spese degli editori milanesi Antonelli co' torchi della Tipografia di Alvisopoli. Arcellazzi, S. (1822): Osservazioni teoretiche al codice penale universale austriaco. Casalmaggiore, Pe' Fratelli Bizzarri. 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