GEORGICADITIRGILIO ČSo JOŠZSŽ' Proi>ricta lclteraria A L LA GRANDE MEMORIA Dl GASA MEDICI COOPERATRICE GLORIOSA AL RINASCIMENTO ITALICO NEL RIRORG1MENTO CLASSICO FONTE DELLA UNIVERSALE CULTORA UN FIORE MODESTO DEI MIEI CLASSICI STUDI NON INGRATO RAMPOLLO DEL CEPPO ILLUSTRE REVERENTE CONSACRO PREFAZIONE . . . , . Sommi ben quant’ arduo sia Vincere cose tai con la parola, Ond’umile soggetto acquisti onore; Ma uu dolce amor sollevami all’eccelse Emo vie del Parnaso, ed ir vagheggio Dove de’ prischi nessun’ orma inviti Per molle clivo alle castalie fonti. traduz. Georg. lib. lil v. 415-421 II periodo sovra esposto ci fa conoscere chia- raraente fin dal principio quale maravigliosa potenza di Arte dovesse impegnare Virgilio nello svolgere con impareggiabile splendore di forma un tema di semplicith primitiva, che, riflettendo le impresein- dibili esigenze della vita materiale, si presenta natu- ralmente come il piu allieffo dal fascino di artistici allettamenti. Io poi a vincere le noie di non amica fortuna e a riparare Tanimo intontito dalla ruggente pro- oella di politiche orgie, ond’ e generalmente assordato il nostro Tempo, mi ritirai nello studio di antichi autori, e volli accedere alTammirando poema, af- fine di ricrearmi nelTaura serena e purissima, che lo circonda, e vivere ben altra vita fra Teterna primavera di quel beato Bliso delTArte. — 6 — Lo stesso Cesare Cantii, il cui nome va rispet- tato per meriti altissimi; per6, come critico, non Iroppo tenero pel Classicismo, ne prodigo di lodi ai seguaci di quelle discipline, giudica la Georgica: „capolavoro di gusto, di retto senso e di stile, il monumento piu forbito di qualsiasi letteratura.“ Lascio percio imaginare al saggio lettore quale e quanta debba essere stata la mia trepidazione e lo studio, impegnandomi nella titanica impresa della traduzione, che qui presento, nelle cui prove nessun traduttore ha fmora ottenuto farna neppur vieina a quella, che il Caro consegui colla traduzione del- 1’ Eneide. La traduzione della Georgica di Cesare Arici, fra tutte quelle esistenti in forma poetica, a chi la consideri attentamente, dovrebbe parere la prima per fedelth e per compostezza metrica, benche si mostri talvolta mancante di eleganza e di nerbo nello stile e nel verso. Ad altra piu recente riusci dannosissima la troppo lunga struttura dell’ottava rima, scelta per la tra¬ duzione, e la soverchia ricchezza e sonorita di quel metro, affatto opposto alla elegante brevita del pe¬ riodo Virgiliano ed al genere didascalico, il quale trattato in poesia, non pub ottenere il suo vero ef- fetto, se non dalla maggiore concisione e chiarezza. Aggiungasi che in questa traduzione il concetto dell'autore talora non e reso intieramente, ma con leggere sfumature segnato appena. Anche 1’opera mia deve attendersi un severo giudizio; ma conforterammi ognora, contro ogni ma- A.# - 1 - ligna ed invida censura, il prezioso testimonio di quella coscienza, che mi guidd nella tradnzione del- 1’Eneide, da me non ha guari pubblieata, e che in- contrd speeiale favore presso i critioi illuminati ed onesti. Sono ben certo ehe mi si dira da non poehi anche fra i colti: Ebbene, preseindendo dal merito e dal deinerito possibili nella vostratraduzione, come mai potra occuparsi della Georgica il nostro tempo, di qua sconvolto da passioni ardenti e molteplici, di la eircondato da invadente affarismo? Risponderd: Erano forse tempi migliori per le lettere quelli, in cui Virgilio dettava il poema, che tanti onori gli aperse nella colta quanto agitatissima Roma di allora? Si oda com'egli stesso dipinga il suo tempo. - .Inferocisce Marte Pel mondo tutto. Cosi vedi quando lrrompon dalle sbarre le qaadriglie; I corsieri ognor piu di giro in giro lufiammansi, e Pauriga, il morso invano Stringendo, črascirf&to b dai cavalli E dal cocchio infrenabile nel corso. Eppure all'auriga, (Cesare Augusto) benche trascinato dai cavalli e dal coeihio, restava pur mente per onorare i prodotti del Bello, di cui Vir¬ gilio gli parve, qual era, maestro divino! E altrove: .e vario in mille guise Diffondesi il delitto. - S - Ma la corrottissima Roma sospendeva le fragor rose sue orgie, per asooltare eon orecchio tranquillo l'inspirato concento, che il Cigno mantovano traeva dai campi, dalle selve, dagli armenti; e i Romani seduti nel Circo, all’entrar di Virgilio, sorgevano in piedi, come all’arrivo deirimperatore! Per6 da quanto dissi fin qui, non si pensi, ehe io vogli a attribuire soverchia importanza alla mia traduzione. Bensi l’atnore e il culto attestato dai miei studi verso le piu splendide tradizioni della mia Patria e di Principi, coi quali ho comune dal ceppo 1’origine e il norae, varranno a giustificarmi, se io, e pur troppo non solo, deploro vivamente il fatto, che le discipline del Bello, formanti non ha guari 1’aureola piu fulgida intorno al capo d’Italia, vadano oggi povere e nude fra quel popolo stesso, che un giorno colmarono di tesori e di gloria! E qui, avendo gih esaurito 1’argomento della traduzione, che lascio ali’ imparziale giudizio dei colti lettori, mi permetto una digressione storico politica che non e senza relazione al campo letterario, in eni mi trovo impegnato, ed anzi veggo per me op- portuna, a cagione appunto delPorigine e del nome, che vanto. Il tema e delicato ed arduo assai, ma non ho paura di fallire nelPintento, attenendomi alla storia imparziale ed onesta. Parlerh, come ognuno si accorge, di Časa Medici, la piu illustre d’Italia, contro cui perh latrarono tanti, e la quale di fatto non fu sempre o in tutti i suoi membri modello di virtu cittadine, famigliari — 9 — e principesche. E perh storicamente vera la gran parte preša al Rinascimento artistico e letterario italiano da Cosimo, da Lorenzo, da Leone, onde si nom6 il suo secolo, e da altri della Famiglia stessa; vogliansi pure attribuire le loro sconfinate prestazioni ad ambiziose e a piu o meno tiranniche mire. Acciocche poi la condanna possa venire accolta, non deve esser mossa, ne esagerata da politici odi, e meno poi destituita di solida base. Cito soltanto 1' Alfieri, non dei piu receuti, ma uno tra i piu ac- caniti nemiei della Stirpe prefata Egli nel suo Don Gama, il cui fatto non ammesso da scrittori coscien- ziosi, viene da lui svolto e presentato senza storico appoggio, come confessa egli stesso ne’ suoi giudizi sulle tragedie, fa dire al protagonista verso Cosimo, padre del medesimo: Empi siam tutti, e il sol piu iniqua schiatta Non rischiaro giammai . Ma perche intorno a un fatto intessuto a suo talento, sulla piu che ipotetica base del verisimile giungere a tale da deeretar scellerala una stirpe in- tera? Sarebbe pur verisimile ammettere che le colpe, specialmente famigliari.apposte a taluno di essa siano state svisate, o aggravate dai loro stessi nemiei poli¬ tici e di famiglia, e ci6 tanto piu, che non da tutti gli storiei sono tutte eonfermate, ne ugualmente descritte. Un grande autore, che rispetta se stesso, e in prosa e in verso non pu6 informare i suoi pensieri, se non a rigorosa coscienza, ne mai concedere tante ali alla fantasia riscaldata da politica passione. - 10 - Pure 1’ immortale filosofo e scienziato, che per- eorreva intrepido e sicuro le vie del Firmamenlo, denominava spontaneo dai Medici una delle piu bril- lanti sue scoperte astronomiche, i Satelliti di Giove; onde 1’insigne lirico veneziano Luigi Carrer cantb di Lui, Che il Mediceo loco sangue fra gli astri, ed onde i Borboni di Francia ed altri Sovrani di Europa, bramosi di vedere ancor se stessi nel Cielo, tentarono invano quel Grande, acciocche volesse il- lustrare ugualmente il loro nome nelle prossime sue vittorie celesti. Ma per apprezzar rneglio il valore del fatto, con- viene por raente alle circostanze in cui avveniva. — Regnava nella Toscana il Granduea Cosimo II, e Galileo allora teneva cattedra a Padova, cittk sog- getta alla repubblica veneta, dalla quale veniva ben retribuito e altamente onorato. Dunque era libero da ogni vincolo di soggezione ai Medici, da uno dei quali fu anzi talmente perseguitato per contrasti seientiiici, durante il suo soggiorno a Piša, sua pa- tria, che dovette da quella esulare. Ora come mai poteva Egli esser capace per qualsiasi motivo, o com- penso di tanta bassezza, quanta occorreva per insoz- zare un suo trionfo scientiflco, collocando per esso nel Cielo una schiatta, che allora signoreggiava da piu di un secolo e mezso, meno brevi intervalli per politici esigli; se questa, nel non breve periodo, si fosse aecumulata sul capo tanta messe di biasimo - li - da meritarsi 1’infamia contenuta nella inqualificabile sentenza deli’Astigiano? Io poi, benche rampollo del ceppo di Časa Me¬ dici, dei quali, come disse un illustre scrittore dei nostri giorni, fu sempre destino il non esser compresi, non intendo intimarne 1' apoteosi, ne intesserne una piena difesa, ma bensi stimo onesto il combattere ingiustissime ire partigiane, polendosi dalla storia di quel tempo fondatarnente dimostrare, che, tolta la loro ambizione e la loro potenza, cbe fu d’invidia e di sprone ad altri Principi e ad altri Governi della Penisola, non brillerebbero oggi tante stelle nel cielo delPItalico Rinascimento, no fiserebbersi ancora sguardi ammirati. ..nogi’ incliti Pinti di quel di Urbino, Nelle animate lapidi Di Micael divino. T. Ciconi So bene, che il moderno Puritanismo aborrisce dallo splendore deli’arte..vera, come da vezzo irnpuro, di cui la Tirannide un di usufruiva a proprio sostegno, e so pure che oggi prevale un’Arte scismatica in ogni sua manifestazione e una Letteratura ambiziosa, i cui campioni vanno in cerca di originalita per la via fati- cosa di forme tormentate, studiando sole di aprire i meati del proprio Io, sostituito da Essi ad ogni Ideale. Ma tornando ali’argomento: anelavasi dal par- tito nemico ai Medici a ripristinare Pantiča liberta. Ma fu vera liberta quella, per cui si esiliarono i migliori cittadini? Non meritb appunto per questo - 12 - Firenze la eterna condanna indelebilmenle scritta nel divino poema e le amarissime ironie del fiero Ghibellino, da Essa bandito e spogliato di ogni suo avere, e minacciato perfino del rogo? Ognuno ha presente la solenne ironia: Godi Fiorenze, poi clie sei si grande, Che per terra e per mare batti 1’ ali L per lo Inferno il nome tuo si spantU. Ma peggiore, nel seeondo esiglio dei Medici, fu la republica inspirata e retta, da mi Cenobita. Costui conscio della elevatezza del proprio ingegno e della straordinaria dottrina teologica, sentiva ferito aspramente il suo orgoglio, tvovandosi ineeppato dalla regola di S. Domenico e sepolto nelPombra claustrale davanti alla luce ognor piu vivace del Rinascimento, sorto per la evocata cultura greco-latina, e vergognan- dosi ai rinnegare se stesso, os6 proclamarlo contrario allo spirito deda primitiva Chiesa Cristiana, e si sfor- zava a ridurre pinzocchero Lorenzo il Magnifico e tutto il popolo fiorentino. Non ci riusci con Lorenzo, ma dopo la morte di qnesto, governando Pietro II, suo figlio, la cui attitudine alle cose politiche non era pari alle difficolta, che presentavano i tempi, i Me¬ dici furono costretti a fuggire da Firenze. Allora fra Girolamo, divenuto arbitro delle cose, trascinb seco gran parte del popo'o, fanatizzandolo colle sue prediche, e istitui una republica quasi teocratica. Furono cacciati da Firenze gli Ebrei, ed egli piu audaee del Barberini, il quale contro i nobili avanzi del Paganesimo greco-romano ardi quello, che non - 13 - osarono i Barbari, aiutato dal furore inoonscio della plebe ignorante, adoperossi a tutt'uomo per ispe- gnere qnel limpido e ridente mattino, foriero delle ulteriori vittorie intellettuali. Ma le sue trascendenze ascettiche e le molte e cospicue vittime, immolale alla vendetta della parte popolare, rovinarono fra Girolamo in modo, che fu condannato a perire sul rogo da quel governo del popolo, che egli stesso istitui con tanto fervore. Ne i Medici ebbero parte o influenza alcuna nelFatroce condanna; mentre a quel tempo Essi esulavano lon- tani da Firenze, e sul trono papale non sedeva un Medici, ma Alessandro VI dei Borgia, rivali di Časa Medici. Quello che si potrebbe dir quasi certo si e che se Lorenzo il Magnifico non fosse morto cosi precocemente i Medici non sarebbero per la seconda volta tornati in esiglio, certo poi che al Savonarola non sarebbe toccata la tristissima fine; perche Lo¬ renzo teneva in troppo alta estimazione 1'ingegno e l’eloquenza del Frate, quantunque trovasse inoppor- tuno il soverchio suo zelo religioso e politico. Ne migliore fu il 'Governo, che resse Firenze nel terzo esiglio dei Medici — 1527-1531, nel cui breve periodo non vi fu stravaganza, che non si commettesse, e non sapendosi qual nuova forma dare alla Republica, si elesse Gesu Cristo a re di Firenze, nesi risparmiarono ingiurieper mettere in obbrobrio il nome dei Medici, Ed e deplorabile che a tanta bassezza scendesse perfino il gran Buonarotti. Riflettendo poi alFantica Republica Fiorentina dei Nobili e dei Popolani, che saggezza, che equith - H - di governo eran quelle di attendere unicaniente a Firenze, non solo trascurando le altre eitta e terre toscane, ma tenendole a guisa di schiave e trat- tandole con durezza, con rigore e con crudelth? Cosimo I, Granduca di Toscana si accorse del fallo enorme, e porse loro mano benefica, per cui odiosissimo ai Fiorentini, fu amato invece dagli altri Toscani, che mal vedevano i Fiorentini. Gran detrimento risen- tirono questi dal deplorato sistema, giacche invece di essere assistiti nelle guerre dagli abitanti dello Stato, li ebbero sempre nemici, come nella ribel- lione del Duca di Atene nel 1342, e cosi diseguito; ne i Medici, benche sorretti dalle armi straniere, sa- rebbero tornati sul trono, se le altre terre toscane fossero accorse in difesa di Fiaenze. Bensi i Medici resero la Toscana veramente Toscana, giacche prima si pensava solo a Firenze. Ad ogni modo chi neghera che 1’ epoca piu glo- riosa anche per Firenze sia stata quella di Lorenzo il Magnifico, e che, se lo si designa come autore della susseguita servitu, non vi trovasse preparato il paese, stanco di rivalith, di lotte continue e di discordie intestine? Osserva questo uno storieo non troppo benigno coi Medici riguardo ai loro costumi politici e famigliari; aggiungendo egli, che Lorenzo šali in tanta riputazione, che indarno nella storia si cercherebbe un eittadino piu venerato. PerFimpulso generoso da lui dato agli studi, fece di Firenze il centro della letteratura di Europa. Era stimato da tutti i Sovrani di Europa, e divenne 1’ arbitro degli affari dTtalia. — Misericordia! Povera Italia, in che - 15 - mani! qui tuonerebbe Federico Domenico Dott. Guer- rarai co’ suoi furibondi compari. Attestano inoltre storici imparziali e severi il sin- cero amore ehe la Toscana tutta portava al Granduca Ferdinando I, che pu6 dirsi il vero fondatore di Li¬ vorno, principe che fece, per quanto pote, il bene dei suoi sudditi; umano, affabile, generoso, amico degli uomini per probita e dottrina insigni, la cui Corte era la sede della pace, della cortesia e della ga- iezza. Loda inoltre la storia Ferdinando II, come nno tra i migliori Principi che ebbe la Toscana, e afterma 1’ottima indole e le buone intenzioni di Co¬ simo 11, e la gran probith e le purissime intenzioni di Cosimo III, guastate per6 da soverchio ascetticismo; e 1’ingenuitk eTindole affabile di Giangastone, ultimo dei granduchi, e čhe il Botta non dubita di chiamare il Principe piii colto di Europa. Deplorasi per altro che le disgrazie domestiche abbiano alterato la sna natura per modo, da indurlo a cercare in una vita disordinata alleviamento alle sne amarezze. Non c’e che dire; oltro ai precedenti due Capi del governo fiorentino?cioe Cosimo il Vecchio, straordinariamente munifico verso le Arti e verso le lettere, del qnale basta dire che 1’ Italia e 1’Eu¬ ropa civile devono essergli eternamente grate per 1’ accoglienza ospitale da lui largita ai profughi Greci, dal che ne nacque anche la fondazione del- 1' Accademia Platonica, la prima che si stabilisse nel- 1’Europa, e che apri un nuovo indirizzo agli studi; e Lorenzo il Magnifico, di cui sopra ho parlato, e .lasciando 1’eroismo e la proverhiale franchezza di - 16 — Giovanni 1’Invincibile, detto poi dalle Bande Nere; fra gli otto duchi e granduchi che seguirono, ne abbiamo cinque anche politicamente non poeo lodati. Non erano poi tutti orsi, ne tanto iniqui, come si compiace di presentarceli 1’Alfieri, sognatore di una republica aristocratica, sprezzatore del popolo, e di- voratore di tutti i re, duchi e granduchi dell’uni- verso; ma che vi vrh sempre autore di tragedie im- mortali. Lo stesso duca Alessandro benche libertino, inso- lente ed impmdente, si sarebbe forse da se di assai migliorato, se il perfido Lorenzino con le piii inique intenzioni non lo avesse continuamenie assediato, per corromperlo del tutto e trucidarlo alla line; giac- che per istorica imparziale testiraonianza fu giovane pieno di attitudine al governo, pronto, perspicace e di buon eonsiglio. Bensi Lorenzino per 1’assassinio premeditato colla maggior cautela della propria sal- vezza e per il suo codardo contegno verso i com- pagni, che lo attesero invano per dare a Firenze la liberth, pu6 giustamente riguardarsi come il peggior de’ vigliacchi, e il traditor piu nefando, il vero or- rore di Časa Medici, della societh umana e di natura stessa. Nei due Fontefici della stessa Časa Leone X e Clemente VII non parrebbe lodabile la soverchia ambizione di famiglia, ne il loro Nepotismo acuto, per cui s’immersero in politiche complieazioni, non troppo conformi al loro Ministero non mondano. Ma la immensa fortuna nei primordi, accoppiata alla piu grandiosa, illuminata munificenza, in cui emerse lo - 17 - stesso Laone e le specialissime attitudini politiche, che portarono i Medici a capo della Repubblica aveano forse persuaso i due Papi, come persuadevano tanti altri in quel tempo e nella Toscana e fuori, cbe quella farni glia era necessaria a reggere la Toscana, e for- s’anco 1’Italia; e percib si sono adoperati con tutti i mezzi, che stavano in loro mano per ottenere lo scopo, secondo la loro idea, opportuno ed equo. Del resto non c’e cosa piu agevole agli uomini, che il convincersi di cib che ad essi sta a cuore, come di cosa giustissima, anche in affari di ben minore importanza. Non temo, che si possa da alcuno con ispas- sionati criteri confutar quanto, senza passione ho qni francamente assevito; perche fondasi tutto su storia imparziale e severa; e Quel che d storia - Non cangia mai, dirb col Prati; ne al traduttore deli’Eneide e della Georgica pub mancare il coraggio di esporre la verith, anche in tempi, nei quali potesse tornare invisa a non pochi. Che se oltre a speciali, splendidi meriti stori* camente attribuiti ai Medici, vengono alcuni di loro pur dalla storia aecusati di colpe domestiche e po¬ litiche piu o meno gravi, e dovere di riflettere, che Essi ebbero queste comuni col secolo e coi loro stessi rivali e nemici. In ogni modo anche il Sole ha grandi macchie, ma la sua luce pur basta a illuminare piu mondi. Visignano; Agosto 1895 IHovanni de Medici s LIBRO PRIMO I|rgomento del libro primo Proposte le quattro parti del tema e invocati gli Dei campestri ed Augusto, entra a discorrere la coltivazione dei lerreni, clie e la materia del primo libro, il quale pub acconciamente partirsi in sei tratti : espone prima i vari modi di agricoltura, poi V origine sua; terzamente tocca degli strumenti rurali; indi ammonisce della varia opportunitd delle stagioni al lavoro della terra ; in quinto luogo tratta dei pronostici dei temporali; e finalmente digredisce con opportuno passaggio alla avvenuta uccisione di Cesare. jsftflng. Quel che allegri la messe, in che stagione Svolger la terra e maritar convenga Le viti agli olmi, qual de’ buoi la cura Sia, ci6 che spetti al possessor di greggi, Quant’arte la frugale ape richieda, Io quinci, o Mecenate, a dire imprendo. Del grand'etere, Voi, fulgidi lumi, Che pel ciel lo scorrevol anno guidate, Alma Cerere e Bacco, se la Terra Per dono vostro la Caonia ghianda Muti) in ricolma špica, e di Acheloo AlTonda le trovate uve mescea; Agli agresti voi pure amtci Numi, Fauni e Driadi fanciulle, qua venite, Ch’io canto i doni vostri. — E tu, o Nettuno, Per cui nitrendo fuor balzh il cavallo Dal vergin suolo, che il tridente aperse ; E tu cultor de’ boschi, a cui trecento Nivei giovenchi sfrondano di Cea l folti dumi; Pan tegeo, tu stesso, Le patrie selve e i gioghi di Liceo Lasciando, se di Menalo le vette Čare ti sono, qui propizio assisti, Alle greggie eustode; delPulivo Largitrice, o Minerva, e tu, fanciullo, pTtJi* - 24 - Del curvo aratro indicator, tu pure, Silvan, che rechi da radice svelto II tenero cipresso. O Divi tutti, O Dee, che i carapi con amor vegliate, ,Sia che crescan per Voi, senz’altro seme, Novelli frutti, o piacciavi dal cielo Piovere in terra generosi umori, E tu, Cesare, alfin cui de’ Celesti Qual concilio aecorrh tuttor s'ignora; Se le cittadi governar tu voglia E provvedere al suol, si che del mirto Materno cinto, autore delle biade, Rettor delle stagion Torbe ti aceolga, O che Dio tu divenga delTimmenso Mare, e ll nocchier solo il tuo Nume adori, E suddita ti sia Tultima Tule, E per averti a genero ti doni L’onde sue Teti, o che tu voglia ai tardi Mesi aggiungerti in ciel astro novello, 'Ve il pošto fra la Vergine e le Branchie Seguenti per te s’apre. Gih Tacceso Astro le braccia a se ritira e lascia A te del ciel parte maggior; qualunque Nume divenga — ne ti speri Averno Suo re, ne brama di quel regno insana Ti punga, benche a Ellenia sembrin vaghi, Gli Elisi, ne Proserpina si curi De’ materni richiami; — assenti adesso, Dh facil corso alla mia impresa audace; Ai villici mal consei della via Mite riguarda, meco vieni e i voti Ad esaudir ti avvezza. In primavera Quando il gelido umore sui canuti Monti si scioglie, e rammolite ai zeffiri Si stemprano le zolle, allora il toro A gemer sotto l’affondato aratro Per me cominci e a lampeggiare attrito Il vomere tra i solchi. Meglio ai voti — 26 — Risponderh deli’ avido Colono Quel catripo alfine, che due volte il sole Senti e dna volte il gel; giacche le messi Ricchissime i granai gli sfonderanno. Ma priraa di squarciar col ferro n n suolo Novel, ouriamci specular di venti Il costume diverso e di stagioni E la eultura natnral de’ siti, L’indole e quel cho il campo accolgg. e quello Ch’esso ricusi. Qua matura il grano. Lž. piii abbondante l’uva, altrove i frutti, Cola spontanee piu verdeggian l'erbe. In Frigia vedi 1’odoroso croco, Danno gTIndi 1’avorio, i Sabei molli I loro incensi, ed i Calibi nudi II ferro; abbiam dal Ponto il graveolente Castoro, e delle eliadi cavalle Non reca Epiro il vanto? Eterni patti E leggi inalterabili Natura Ad ogni sito impose, fin da quando Deucallon per Torbe spopolato Gettb le pietre, donde 1’ uom nascea, Dura progenie! Tosto dunqne alTopra, Ed i tori gagliardi fin dai mesi Primi delTanno svolgano le pingui Zolle, e cuoca la State polverosa Co’ rai maturi le giacenti glebe. Se magra poi šara la terra, basti Al sorgere di Arturo con leggero Solco sfiorarla. Badisi, che quivi L’umor non manchi alTarido terreno, E che cola non renda inutil erba Men felici le biade. Lascia pure Che il mietuto maggese alternamente Riposi im anno e pigro si rinforzi NelTozio, oppure alla stagion novella, La dove prima raccogliesti il lieto t Legume risonante ne’ baccelli; - 26 - O tenue veccia, o del lupino amaro 11 gambo fral dalle sonore foglie, Ivi germogli, bionda messe, il farro. Di lin, di avena il seme abbruceia i campi E li ardono i papaveri, di sonno Leteo cospersi; ma piu agevol torna 11 lavorio alla terra, se con questi A vicenda lo alterni, purche gli arsi Campi di saturare non t’incresca Con pingue fimo, e di spargere immonda Cener su quelli del produr spossati. Cosi cangiando seme ha quiete il suolo; Ne frattanto le glebe inutilmente Giaceran non arate. Giovo pure Spesso trattar gli sterili terreni Col foco, e al suon di crepitante fiamma Strugger le lievi stoppie. Sia che ignoto Vigor da ci6 traggano i campi e soda Sostanza, oppur che nell’incendio il suolo Ogni vizio consumi, e ne trasudi L’inane umore, sia che molte vie Il calor sciolga e piu spiragli schiuda, Perche alPerbe novelle il succo arrivi, O che il terren s’induri e le fessure Aprentisi costringa, onde le pioggie Sottili e i raggi del cocente sole, Ovver di Borea i penetranti fiati Inaridir non possano le zolle. Bene al campo provvede chi gPinerti Campi col rastro frange, e coi viminei Graticei poi li spiana, ne la bionda Cerere invan dalPalto Olimpo il mira: E chi le glebe lungo il solco erette, Obblique ricorrendo, col rivolto Aratro fende, ne si stanca mai Di esercitare e di domar la terra. Umide stati e verni rilucenti, O rustici, pregate ; delPasciutto Verno la pol ve al contadin prepara no — 27 — Lietissime le messi e le campagne; Ne per altra cagion Misia cotanto Vantasi, e pago i suoi prodotti ammira II Gargaro. Che dir dovro di lui, Che non si tosto gitt6 il seme, i campi Con l'opra insegue e disfa delle zolle I mal fecondi muochi, e poi dal fiume Rigagnoli deriva, e allor che il suolo Arso avvampa e son l'erbe moribonde, Dalla cima di tramite inclinato Ecco 1’onda deduce; essa giu scorre Tra i sassolin con rauco mormorio E molče coli’umor gli aridi campi? E di lui, che il rigoglio soverchiante Tronca di biade tenerelle ancora, Tosto che il solco adeguino, onde il gambo Dalle gravide spiche a terra iufranto Non čada? E di chi pure i paludosi Umori svia dali’assorbente arena; E adoprasi ancor piu, se in. primavera II fiume, staripando, col versato Limo copra i terreni, e si sollevi Un tepido vapor dai cavi solchi? Quantunque sia degli uomini e de’ buoi Tanto il sudor nel coltivar le glebe, Son d’altro inciampo le strimonie grli, L’oca ostinata e le radici amare Della cicoria, e delle piante 1'ombra Nuoce anch’ essa. — Ne agevole de’ campi Volle Giove la cura, e a coltivarli Primo costrinse, ed aguzzh con Popra I mortai cori, ne permise ali’ uomo In putrido letargo sprofondarsi. Ne da coloni il suol fu sottomesso Pria che Giove regnasse, ne licea Partire, o di confin segnar la terra. Volgevansi alla gleba, che offria loro Di tutte cose, senz’altrui richiesta. — Ma il rio veleno alPatre šerpi Giove Infuse, i lupi fe' rapaei e il mare Turb6, giii scosse dalle foglie il mele. II foco ascose e represse la copia Del vino, che scorrea per tutto a rivi, Si che I'uso e il pensiero a grado a grado Valessero a produr 1’arti diverse, E il frumento dai solchi si cogliesse E il foco pur dalle petrose vene. I flumi allora il cavo alno sentiro, Allor le stelle numerb il pilota, E Pleiadi le disse, Iadi ed Orsa, Di Licaone in ciel lucida figlia. Allor si apprese a stringere co’ lacci Le fiere, a impaniar gli augei col visco E a cingere di veltri le boscaglie. Costui, nel mezzo percotendo il fiume, Aftonda il giacchio, quegli al mar si volge, Altri seco vi trae 1' umide reti; II duro ferro allora e delParguta Sega il filo, giacche prima si apria Col cuneo il varco nel fendibil legno. Nacquer cosi 1’ arti diverse. Tutto Col travaglio si vince, e nelle dure Vicende il rio bisogno a tutto sprona. Cerere prima ci apprendea col ferro Il suolo a rivoltar, quando ne’ sacri Boschi le ghiande venian meno e i frutti, E ai mortali negb Dodona il vitto, Ma ben presto i frumenti da malanno Furon colti, la ruggine le spiche Rose e affligea 1’inviso cardo i campi. Periscono le biade, e vi subentra Aspra selva di triboli e di spine, Signoreggiando tra i fiorenti solchi Il triste loglio e le povere avene. Ch’ove col rastro di continuo 1’erbe Tu non insegua, ne gli augei spaventi Col suono, e 1’ ombra de’ terreni opachi Colla tua falce non diradi, e pioggie Non invochi dal ciel, vedrai meschino! Gli alti acervi non tuoi bramoso invano, E tra le selve molcerai la farne Gli elci scotendo. Dir6 pur de’ forti Agresti 1’arine, senza cui le messi Ne crescere potrian, ne seminarsi. II voniere dapprima e il curvo aratro Di grave quercia, di Cibele i cocehi Tardi a svolgersi, il trhino, le trebbie, II pesante rastrello, di Celeo L’arnese vil di vimini contesto, L’erpice e il vaglio gia sacrato a Bacco; Tutte cose, che memore, assai prima Provviste, con amore serberai, Se de' campi alla gloria esser ti cale A parte co’ lor Numi. - Senza tregua Ne’ folti boschi di gran lena gli olmi Si piegano a formar de’ curvi aratri Il ceppo, dalla cui base il timone Di otto piedi protendesi a due orecchie E il dentale si adatta a doppio dorso. Pel giogo si recide il Iieve tiglio E il faggio; deli’aratro Time ruote Move intorno la stiva; raa quei legni Sospesi ai focolari avvolga il fumo. Apprendorti poss’jo molti precetti Di antichi agricoltor, se non rifuggi E troppo non ti annoi di tenui cose. Innanzi tratto adeguisi con grave Cilindro l’aia, e, svoltala con mano, La si rassodi con tenace argilla, Perche l’erbe non pullulin su questa, O vinta dalla polve non si fenda. Guarda, che l’aia non infestin vari Nemici; il topolin sovente pone Sotterra il nido e il suo granaio serba, La cieca talpa il nascondiglio scava, E vi si trova il rospo e quanti mostri II suolo acooglie, e il tonchio, che diserla Gli alti mucchi di grano e la formica, Cui timor preme d’inope vecchiaia. Inoltre osserva, quando nelle selve II noče de’ suoi flori piu si vesta E pendan curvi gli odorosi rami. Se abbonderanno i frutti, anche di biade Sark uguale il raceolto, e ai gran ealori Gran messe trebbierari. Ma se di foglie 11 lusso 1’ ombra di soverchio estenda, lnvano l’aia triterk gli acervi Ricchi di paglia. Pria di darlo al suolo 10 vidi molti medicare il seme E di nitro cospargerlo e di nera Morchia, perche maggior divenga il grano Entro il baccello infido, e a picciol foco Si cuocano i legumi. Vedi pure I šemi tralignar con cura scelti E coltivati con sudor, se ogni anno 11 saggio agricoltore i piu cospicui A man non scelga. Cosi vuole il fato, Che tutte cose invecchin peggiorando, E di ruina tutto copran gli anni. Non altrimenti, se taluno il lembo Del remo contro il fiume appena immerga E del polso il vigor per caso allenti, Lui traendo, il declive alveo rapisce. — Da riguardarsi sono ancor di Arturo Le stelle, i due Capretti, il lucid'Angue, Come fanno coloro, che rivolti Al patrio suolo tra i ventosi mari Tentan 1’Eusino e 1’onda perigliosa DelPostrifera Abido. Quando uguali Rese la Libra del travaglio Pore E del sonno, e a meth giusta divide L’ombre al mondo e la luce, allora i buoi Affatieate, o rustici, ed i šemi Date al suolo fin presso alPautunnale - 31 - Pioggia, che nel cader la via prepara Ali'intrattabil Verno. Allora e tempo Che le zolle ricoprano del lino I šemi e del papavero di Cerere; Chinarsi allora sull’ aratro e d’ uopo, Finche l'asciutta gleba lo eonceda, 3M E pendano lassu l’aeree nubi. — Si seminin le fave in primavera, Te pure in qnesta accolgano, o trifoglio, Gli umidi solchi; 1’annua cura torna Del miglio, quando il Toro con 1’aurate Corna l’anno riapre, e dalTopposta Parte il Cane alToecaso si ritira. Che se in triticea messe e in rigoglioso Farro la gleba esercitar vorrai Ed alle spiche attendere soltanto, 3I0 Aspetta che si celino di Atlante L’eoe figliuole e lo splendor tramonti Della gnossia corona, pria che ai solchi Tu porga le sementi a lor dovute, E che alle zolle, invite aneor, ti aecinga A confidar la speme del raccolto. Dier opra molti pria che Maja čada, Ma 1’anelata raesse li deluse Con vote spiche. Se raccor poi veccia O vil fagiuol tu voglia, ne dispregi 320 Di lente pelusiaca la cura, II cader di Boote non oseuro Segno ti porgerh; comincia tosto E 1’opra segui fino a mezzo il verno. Gia 1'aureo sol, fra i dodici scorrendo Chiari segni del ciel, Torbe governa Nelle fissate plaghe ripartito. In cinque zone h il Cielo, di cui sempre Una rosseggia per corrusco ardore, E sempre in foco avvampa; intorno ad essa 330 Giran 1’ultime a destra ed a sinistra Nembose e strette da cerulei ghiacci. Fra queste e quella sonvi due concesse - 32 - Dai Numi in dono ai miseri morlali; Ed ambe seguon de’ Celesti segni L’obbliquo eerchio. Come in ver la Scizia E le cime rifee alta si eleva La terra, cosi pur verso le australi Piaggie si adima. Sempre a noi sovrasta Quel polo, e questo sotto alle lor piante 340 Mirano i bassi Mani e il negro Stige. Scorre sopra di noi, di fiume a gnisa, Con sue spire volubili il grand’Angue Per mezzo e intorno a entrambe 1’Orse, alFOrse Neli’Ocean paurose di tnffarsi. Laggiuso, com’e farna, o notte regna Silenziosa senza tempo tinta, E tenebre su tenebre distende; Od ivi adduce nel partir da noi Aurora il giorno; e mentre il sol c’invia 35ll Dali’ Oriente de’ corsieri aneli Il primo fiato, la i suoi tardi lumi Vespero aecende. Quinci antivedere Le vicende possiam delPaere incerto, Delle semine il tempo e de’ raccolti, Quando solcar le infide onde co’ remi Fia d’uopo, qnando i pronti legni sciorre E atterrar nelle selve il pin maturo. Ne invan di stelle al sorgere e alPoccaso, Ne ai qnattro tempi, ehe ugualmente 1’ anno 360 Dividono, attendiam. Se fredda piova Il villico rinchiude, fornir esso Pub molte cose, che apprestar couviengli Pel di sereno L’arator gli ottusi Denti al vomere affila, cimbe scava Dai tronchi, alla sue gregge il marchio imprime, Novera i mucchi ed appuntisce i pali E le forche bicorni. Apprestan altri Di Amelia i giunchi, alle cadenti viti Sostegno, ed ora intrecciano di rosse 37n Verghe leggeri cesti, ora col fnoco Asciugano le biade e sotto il sasso - 33 - Le frangono. Perfin ne’ di festivi Lecite a ognuno e da ogni legge ammesse Cerfopre sono, ne viet6 giamniai Religione trar dal rivo l’onde, Assiepar messi o insidiare augelli, Abbruciar dumi e immergere il belante Lanoso gregge in salutar lavacro. II condottiev del pigro somarello Di vili pomi aggravane le coste O d’ olio, e nel tornar dalla cittade Seabrose pietre o massa d’ atra peče Riporta. Reca la luna giorni d’>opre lieti. II quinto fuggi; nacquero 1’Eumenidi E il pallid'Orco, in questo con nefando Parto la Terra Ceo produsse e il crudo Tifeo e Giapeto e i tre fratelli intesi Del Cielo alla rovi na. Ben tre volte Tentaro imporre al Pelio 1’Ossa e alTOssa Anche 1’Olimpo e le sne selve. Il Padre Col fulmine atterrb per ben tre volte Quei monti sollevati. Dopo il deeimo Giorno di Luna il settimo e felice; Puoi piantar viti e gli acquistati buoi Domare e unir le tele ai licci; il nono Ai viaggi e propizio, avverso ai furti. Assai meglio riescono molfopre Nella gelida notte, o quando E6o Sul mattin sparge di rugiada i campi. Tagliar giova di notte le leggere Stoppie e gli aridi prati, perche allora Lento umore non manca; veglian altri Della notte invernale ai tardi fochi, E a mo’ di spighe con acuto ferro Le faci aguzza, mentre la consorte Col canto alleviando la fatica, Scorre le tele col pettine arguto, E anch’essa per cammin diverso O al foco fa bollir del dolce mosto, / V - 34 — L’umore, e schiuma del fremente rame L’onda con foglie. — Ma le bionde spiche Di meridiano sol mietansi ai rai, E l’aia secehe sul meriggio pure Le trebbi. Arando ignudo tienti, e ignudo Semina, inerti fa i coloni il freddo. De’ prodotti piu godono i cultori Nel verno, fra di lor lieti apprestando A vicenda i banchetti, e ve li invita II tempo genial, che dal travaglio Li scioglie; come quando entrano in porto Le ben ricolme navi; e i marinai Di gbirlande le cingono giulivi. Ma pur conviene delle ghiande allora Spogliar le quercie, delle bacche il lauro, C6r Tuliva e le coccole sanguigne Del mirto; allor le reti ai cervi e i laeci Alle gru porre, cacciar lepri e in giro, Scotendo i lini delTispana fionda Colpir le damme, quando giaee al suolo Alta la neve, e menan ghiaccio i fiumi. Che dirh delTAutunno procelloso E di sue stelle? Che fark il colono Mentre il giorno e piu breve, e men cocente L’aria diventa, o quando primavera Piovosa irrompe, e la spigata messe Commovesi pei solchi latteggiante Nel verde gambo? Di frequente io stesso, Poiche il colono i mietitor nel biondo Čampo introdusse, e giu cadea reciso De’ grani agevolmente il fragil stelo, I venti tutti irrompere a battaglia Vidi e portarsi da radice svelte Le piene spiche a volo, come i lievi Steli e le paglie aggirerebbe fiero Turbo invernal. NelTaere si aduna Spesso d’aeque gran masse, e le raecolte Nubi dal mar di nereggiante pioggia Drave turbine addensano; dalTalto - 35 - II cielo si rovescia, e assorbon l’acque De’ bovi le fatiche e i pingui colti. S’empion le fosse, strepitando i fiumi Sorgon daH'alveo, e il pelago ribolle Di flutti accavalcantisi. Lo stesso Giove infocati fulmini tra quella Notte di nembi colla destra avventa, Ed al tnono terribile la terra Trema, le belve fuggono, e spavento Prostra i mortali umiliati cori. Ei di Rodopo, d’Ato e di Cerauno Le cime atterra con 1’acceso strale, Fremon gli Austri, fittissima la pioggia Scroscia, e al soffiar d’inferociti venti Ululan lidi e selve. Di ci6 in tema Riguarderai nel cielo i mesi e gli astri, Dove si accolga la lontana stella Di Saturno, e del Ciel qual via percorra L’astro Cillenio. Sopra tutto i Numi Venera, e sopra l’erbe rigogliose Con sacrifizi porgi alla gran Cerere Gli annui riti, allorche cede 1’Inverno Alla serena Primavera il loco. Allor piii pingui gli agni, il vin piu molle, Dolce il sonno e sui monti maggior 1’ombra. Tutta l’agreste gioventude allora Teco Cerere adori, e il mel con latte E con mite licor tu Le distempra, E 1’auspicata vittima tre volte Intorno giri alle novelle biade. Coi canti 1’accompagnino giulive De’ giovani le schiere, e con clamori Nella chiusa magion Cerer s’invochi. Ne alcun sia che la falce sottoponga Alle mature biade, se d’intorta Quercia il erin coronato a Cerer prima Rustiche danze non consacri ed inni. Giove stesso, accioche con certo indizio 450 460 470 480 - 36 - Apprendere possiam 1’ approssimarsi Di pioggie, di calori e di que’ venti, Che apportan gel, fissava della raenstrua 490 Luna gli aspetti e i segni da che addotti Son gli Austri, onde il pastor spesso guardando, Lunge non meni dali’ovil le greggie. Gih nel primiero sorgere de’ venti 0 gonfiansi del mar l’onde agitate, Ed il fragor.de’ seechi rami arriva Dalle montagne, o i risonanti lidi Muggono e cresce il murmure de’ boschi. Gih male si trattien l’onda commossa Dal flagellar le navi, quando a riva 50() Rivolanti dal mar tornan gli smerghi Alto stridendo, e le marine folaghe Seherzan nel secco, e le paludi note Lascia l’airone e sulle nubi vola. Sovente pure al sovrastar de’ venti Qualche stella vedrai correr di notte Precipite pel cielo, e dietro a lei Splendere lungo soleo tra quell’ombre, Spess’anco svolazzar caduche frondi E lievi paglie e moversi a flor d' acqua 5l0 Notanti piume. Se dal sito poi Del truce Borea fulmini e rintroni Tutta d’Euri e di Zeffiri la časa, Le soverchianti fosse innonderanno 1 campi tutti, e ogni nocchier le vele Stringerh navigando. Ne imprevisto Nembo vien mai, perche l’aerea gru Al turbine imminente tra le basse Valli ripara, e la giovenca in alto Guardando, accoglie nelle aperte nari 520 L’aria, e l’arguta rondinella vola Intorno ai laghi, e nel pantano accolte Ripetono le rane il lagno antico. E spesso la formica per angusto Calle, dal nido, cbe sotterra pose, Fuor tragge 1’uova, raentre l’acque assorbe L’ arco dal cielo, e i corvi numerosi Abbandonando i pasooli ognor piu Accrescon d’ali la volante schiera. Del mare tu vedrai diversi augelli • E quei de’ doloi stagni, che agli Asiaei Prati si ciban del Caistro intorno, D’acque bagnare i loro dorsi a gara, Ed ora il capo ali’ onde offrire ed ora Immergersi tra quelle ed agitarsi ’ Nel rimondare le gia monde penne. Apertamente allora la cornacchia Col rauco grido pioggia invoca, sola Sečo girando per le asciutte arene. Le ancelle pur, che traggono le chiome Alla notturna rocca, del piovoso Tempo si addan, se veggon nell’ accesa Lampada l’olio scintillare e in quella Grasso fungo rapprendersi. Ne segni Men certi fra la pioggia noi scorgiamo Di ciel sereno e di lueente sole. Giacche incerte risplendere le stelle Piu non vedrem, ne del fratollo ai rai Ligia la luna, ne lanosi velli Distendersi per 1’ aria, ne sul lido AlTapparir d’incerto sole i vanni Svolgere le alcion, si čare a Teti. I disciolti manipoli di paglia Non cura piu di sparpagliar col grifo L'immondo porco. AUe piu basse valli Uiscendono le nebbie e sni terreno Si adagiono, ed attenta al sol, che cade, Dali’ alta sede la civetta il tardo Singulto luttiioso non diffonde. Sublime appar nel lucid’aere Niso, E delTinsigne crin Scilla da il fio. Per dove la fuggente va secando L’etra lieve con 1' ali, ecco inseguirla Niso nemico con feroce strido; — 38 - E di la, dove Niso il volo indrizza, In fuga Scilla il liquid’ aere fende. Tre o quattro volte allor dalTaspra gola Mandano i corvi meno rauche voci, E strepitan fra lor sugli alti rami, Non saprei dir, da che dolcezza preši. Gioiscon essi in rivedere i čari Nidi e la prole teuerella, quando Cessa il nembo. Ne čredo, che tal senso In lor si desti per celeste dono, O che per fato alberghin previdenza Della nostra maggior; ma come gli Austri E i mobili vapor cangiando via Or fan delFaria quella parte oscura, Che splendea prima, ora serenan quella, Su cui le nubi si addensaro innanzi; Cosi cangia degli animi lo stato Ed i moti del cor fansi diversi Da quando il vento agglomerava i nembi. Da cib il concento degli augei ne’ campi, Le pecore giulive e le festose Note de’ corvi. Che se poi del sole Al rapido cammin riguarderai E delle lune alTordine seguente, Non fia che il tempo di doman t’inganni, Ne ti sorprendan delTazzurra notte Le insidie. Allor che di novello raggio La luna si riveste, se le nere Nubi raceoglie nelFoscuro seno, Alla campagna e al mar fiera procella Sovrasta. Ma se il volto di virgineo Rossore tingerb, segnal di vento Avrem, giacche pel vento rubiconda L'aurea suora di Febo ognor ci appare. Ma se nel quarto — indicator sicuro — Andra chiara pel ciel con piene corna, Quel giorno tutto e quanti seguiranno A quello, fin che sia compiuto il mese, - 39 - Di pioggie saran liberi e di venti, E i salvati nocchieri scioglieranno Ed a Panope e a Glauco e a Melicerta, D’Ino figliuolo, sulla spiaggia i voti. 11 Sole pur, sia che si levi o in mare Ascondasi, ti da non dubbi segni, E tai son quelli, che al mattino ei reca, O sulla sera all’apparir degli astri. Quand’ei la faccia al nascere ti mostra Sparsa di raacchie e tra le nubi ascosa, Ovvero sol di mezzo disco i raggi, Sospetto abbi di pioggia, perche i Noti Incalzano dal mar sinistri assai Agli alberi ed al gregge; ma se poi Nel levarsi fra dense nubi rotta Brilli a tratti sua luce, o di Titone Lasciando il croceo talamo 1’Aurora Pallida sorga, allor le molli viti, Ahil fia invano che il pampino difenda; La spaventosa grandine sui tetti Si forte saltera! Ma dal gia corso Olimpo, quando si ritira, e d’uopo Di osservarlo ancor piti, perb che spesso Vari color vediamgli errar sul viso. Pioggia il ceruleo e vento il rosso annunzia. Che se al vermiglio mescersi vedrai Nere macchie, per venti e-per tempeste Tutte cose del par sconvoglieransi; E in quella notte alcun non mi consigli Ad ir pel mare e a sciogliere dai lidi Le funi. Ma se poi, quando riporta O ci ritoglie il di, lucido in volto Tu il vegga, invano temerai di nembi; E dal chiaro aquilon scosse le frondi Fia che tu ascolti. Finalmente il Sole Ci apprenderh ci6, che ne arrechi il tardo Vespero, per qual vento il ciel sereno Ritorni, e che minacci il torbid’Austro. CIO Chi fla che il sol mendace dicar 1 Spesso Egli perfino 1’imminente scoppio Della congiura, i tradimenti avvisa E 1'occulto gonfiar di bellic’onda. Ei pur pieta senti di Roma, quando Pel trucidato Cesare la nitida Facoia ravvolse in fitto velo, e 1'empio Secolo paventb perpetua notte! Sebbene allor la terra stessa e il mare E infausti augelli ed ululanti cagne Diero i lor segni. Quante volte l’Etna Ondeggiante bollir tra le campagne De’ Ciclopi vedemmo e dalle rotte Fornaci sollevar globi di fiamme E liquefatti sassi? Un fragor d’armi Per tutto il ciel Germania intese, 1’Alpi Tremarono di scosse inusitate, Ne’ quieti boschi formidabil voce Tuono, e nel seno dell’o$cura notte Spettri fur visti, ed ebbe accento il gregge. Cosa orribile pur! sostano i flumi, S’aprono abissi, e mesti ne’ lor templi Piangon gli avori e sudano i metalli. Re dei flumi, 1’ Eridano travolge In furioso vortice le selve, Lungo i campi gli armenti con le stalle Traendo. Per que' di non cesso mai O di apparir sull’ are minacciose Nei visceri le fibre, o di fluire Sangue ne' pozzi, ed alto fra la notte Per le cittR suonb F urlo de’ lupi. Ne a ciel sereno caddero altre volte Piu folgori, ne tante fiammeggiaro Tristi comete. Allor vide Filippi Di nuovo a pugna con romano ferro Tra se i figli di Roma trasportarsi. Ne agli Dei parve indegno per due volte Del sangue nostro fecondar 1’Emazia E d’Emo 1’ampio suol. Ma pure un giorno - ii - Tra que' confm 1’agricoUor svolgendo Con 1'aratro il terren, fla che discopra L’armi da scabra ruggine corrose, O col pesante rastro urti ne’ vuoti Elmi ed ammiri ne’ scavati avelli L’ossa enormi! Gran Numi della patria, Avi celesti e Voi, Romolo e Vesta, Che il tosco Tebro e il Palatin serbate, Non si tolga da Voi, che almeno questo Giovin soccorra al secolo travolto! Del teucro Laomedonte lo spergiuro Da gran tempo scontiam col nostro sangue. 0 Cesare, da molto a noi t’ invidia Del ciel la reggia, e duolsi che ti curi Degli umani trionfi, giacche tante In quest’Orbe, che il male al ben commesce, Guerre insorgono, e vario in mille guise Diftondesi il delitto; onor si nega Ali' aratro, la gleba desolata Piange i cultor, che strappanle dal seno, Pl brandi aguzzi dalle curve falci Ricavansi. Di qua move 1’Eufrate, Di la Germania 1’ armi, e le vicine Citta, rompendo i vincoli, tra loro Portansi guerra; inferocisce Marte Pel mondo tutto. Gosi vedi, quando Irrompon dalle sbarre le quadrighe; 1 corsieri ognor piu di giro in giro Infiammansi, e 1’auriga, il morso invano Stringendo, trascinato e dai cavalli E dal cocchio infrenabile nel corso. FINE DEL LIBKO PRIMO LIBRO SECONDO -5-®pr- Hfrgomcnto del libro oecondo Invocato Bacco , autore delle vendemmie, il poeta discorre da prima del vario germogliare delle piante per la natura e per l’ arte, secondamente delle loro varieth e del come governarle; terzamente del dove prosperino meglio, il che gli scusa il pas- saggio a uno splendido encomio deli' Italia; pertratta in quarto luogo del come conoscere V indole varia dei terreni ; poi del collivare le viti, quindi degli ulivi e di alcuni altri alberi; e dilungasi in setttimo luogo a una incantevole pittura del felice vivere campestre. 7 |fe*^.j‘t*^*, - *:**^**l*t**^:*^:5'oWc.**^^*| Finora il culto dei terren, del cielo Cantai le stelle ; ora te, Bacco, io canto, E con te gl’infruttiferi germogli Delle selve e l’ulivo a crescer lento. Leneo padre, qui qni, de’ doni tuoi II mio verso e ripien, per te di fitti Pampini nelFAutun s’ingemma il campo. Nei pieni vasi la vendemmia spuma; Leneo padre, qna vieni, e nel novello Mosto, tratti i cal/.ar, 1’ignudo piede 10 Intingi. Varia nel 1'ormar le piante F\i in principio Natura, mentre alcune Senza Popra delFnom spontaneamente Crescono, in largo spazio i campi e i lunghi Fiumi occupando, c.ome il silio molle, Le tenere ginestre, il bianco azzurro Salice e il pioppo; altre dal seme a caso Caduto sorgon, quai 1’alto castagno E 1’ischio, che di Giove tra le selve Frondeggia eccelso, e la quercia ,che al rito M Fatidico dai Greci fu sacrata. Altre infiniti mettono rampolli Dalla radiee, come vedi gli olmi E i ciliegi e il Parnassio picciol lauro, Che alla grand’ombra di sua origin cresce. — 48 - Fin da prima Natura cotai forme Diede, e ogni specie d’alberi, d'arbusti E d'orride foreste in cotai guisa Verdeggia. Sonvi pur maniere, a cui L’uso aperse la via. Questi dal seno Della madre ancor tenero i recisi Rampolli al solco affida, interra quegli Le radici ed i ceppi in qoattro parti Fessi alla base e gli appuntiti pali. Nuovo rigoglio dai ricurvi tralci Aspettano altre piante e dai vivai Nei lor terren serbati; di radici Altre d’ nopo non han, ne il potatore Teme di consegnar le cime al suolo. Anzi, a dirsi mirabile, tagliato 11 ceppo, spunta da quel secco legno L’olivigna radioe; e impunemente Spesso ved,lamo di una pianta i rami In quei d’alber diverso tramutarsi, Ed il cangiato pero le innestate Poma produrre e rosseggiar tra i prugni Le dure cornie. Qual percib convenga Cura a ogni specie, o agricoli, apprendete, E perche il suol non giaccia inerte, il rozzo Frutto imparate a ingentilir. ITIsmaro Inselvisi di viti e il gran Taburno Di ulivi. E tu qua vieni, e 1’intrapreso Sentier meco percorri, o Mecenate, Di mio decoro e farna si gran parte, E per si esteso mare al vento sciogli Le vele. Di abbracciare non vagheggio Tutto coi carmi, ne potrei, se cento Lingue mi avessi e cento bocche e voce Di ferro. Meco sfiorerai le piaggie, Che si ti allettan. Ne son gib, da presso Le terre, e a trattenerti non mi accingo Con lunghi esordi e favolose ambagi, - 49 - Gli alberi, che spontanei della lnce Vengono ai lifli crescono infecondi, Ma forti e lieti, perche gran vigore In lor Natura sotto il suolo infonde. 'Ma questi pure, se ne innesti alcuni E cangiati li ponga in fosse adatte, Si spoglieranno de* selvaggi spirti, E eon assidue cure a quella forma Non tardi ridurransi, a cui li chiami. Le pianteaneor, che sterili dali’ime Radiči nascon, riusciran del pari Feconde, se disposte in suol disgombro; Che 1’ alte foglie e i folti rami danno Ombra soverchia e privanle di frutti, Essicando Tumor, che li matura Tardi le piante dai gettati šemi Sviluppansi a coprir deli’ ombra loro I nepoti lontani, ed obbliando I prischi succhi, fan peggiore il frutto, E i deturpati grappoli la vite Sostien preda di augei. Tutte le piante Con fatica si allevano, e tra i solchi Costringerle si dee; ne a gravi spese, Per domarle, sottrarsi. Ma dal tronco L’ulivo esce miglior, piu della vite Fertil diventa la propagin.,sua. II pafio mirto dal massiccio fusto E i noceiuoli si duri dai germogli Derivano ed il frassin giganteseo; Cosi 1’arbore ombrosa, onde si einse Ercole il cnn, cosi nasce la quercia Del Caonio e la palma alta e l’abete, Che il mare solcherh tra le tempeste. Innestasi perb 1’aspro corbezzolo Con ramoscel di noče, gl’infecondi Platani ci donar pregiate mele, E mostra il faggio del castagno il fiore, E di quello del per biancheggia Torno, 4 — 50 — Frangono ghiande sotto 1’olmo i vem. Ne d’innestare o d’inoechiar le piante Havvi modo sol uno. In quella parte Della corteceia, ond’escono le gemme Rompendo la pellieola sottile, Angusto seno cavasi nel nodo; F il germe ineluso di straniera pianta Qui tra 1’umida scorza si sviluppa; Ed altrimenti i non nodosi fusti Si fendono, profonda via coi cunei Aprendo, e, in quelli piu feraci piante Inserte, sorge in breve tempo alParia Albero immenso con felici rami, E le mutate fronde e i non suoi frutti Ei stesso animira. Un solo aspetto imposto Non e al forte olmo, al salice, al cipresso Ideo ed al loto, e a una medesma guisa Non foggiansi nel nascere le pingui Olive, ma ve n’han bislunghe, ovali E di amaro sapor, come le pausie. Ne tutte uguali di Aleinoo le piante E i frutti vedi, ne un germoglio uguale D’Umbria, di Siria e le Voleme pere, Di grave pondo, produrrk giammai. Ne dai nostr’olmi la vendemmia stessa Pende, cbe Lesbo da' suoi tralci coglie. Hanvi le tasie viti, hanvi le bianche Mareotidi, queste adatte a pingue, Quelle a piu lieve suoi. Miglior liquore Ricaverai dalPasciugata psizia. Ma il debile lageo talora il piede T’ insidierk e la lingua avvinceratti, Sonvi pure le precie e porporine. Ma con qual carme canterb te poi; Retic’uva, sebbene del Falerno ColPanfore contender tu non possa? Di vin robusto son le aminee viti, E quelle pure, onde cotanto il Tmolio - 51 ~ Onorasi e il Faneo principe regna. C’e 1’Argite minor, con cui nessuna 140 Vite gareggia in abbondante umore Ed in lungo durar. Ne sottacermi Di te, o Rodia, vorro, cosi gradita Aile seconde mense ed ai Celesti, Ne de’ tuoi gonfi grappoli, o Bumasto. Ma le infinite specie e i nomi loro Numer non han, ne di contarle e d’uopo. Chi il volesse, de' libici deserti Noveri pur le arene sollevate Dagli Austri furibondi, o quando gli Euri 150 Contro le navi scagliansi pivi fieri, Curi di apprender quanti flutti al lido Il mar Jonio sospinga. Ne gik tutte Cose a prodor vale ogni terra; lungo I fiumi sorge il salcio, appo i fangosi Paludi Talno e ne’ sassosi monti Lo steril orno, e sempre son le rive Di mirteti lietissime, ed infine Ama i colli la vite e il gel di Borea II tasso. Vedrai ben che della terra , 60 Ogni confin da’ suoi cultor fu domo, Dall’eoe genti fino ai pinti Sciti. Distinti dalle piante i vari olimi Son, 1’India sola il nero ebano porge, Solo i Sabei gl’incensi. E a che narrarti DelFodoroso legno gli stillanti Balsami e dell’acanto ognor fiorente Le bacche, degli Etiopi le selve Vestite del candor di molli lane? E come traggan dalle foglie i Seri m Fini velli, e quai boschi accolga in seno L’lndia, vicina ali’Ocean, dell'Orbe Ultima parte, ove l’aeree cime Degli alberi giammai scagliata freccia Coglier puote, benche tutti nell’ uso - 52 - Della faretra siano destri gl'Indi? Media produce il succo acerbo e il tardo Sapor del pomo fortunato, a cui Nuli’ altro in efficacia si avvieina, Quando il nappo infettar le rie matrigne, L’erbe mescendo a raagiche parole; Ed ei soccorso arreca e dalle membra Scaccia gli atri velen. Simile assai Al lauro ti apparisce la gran pianta, E saria lauro, se da quel diversa Non ispargesse la fragranza intorno; Ne cade foglia per furor di vento, 11 suo flore di ogni altro e piu tenace. Correggono con questo i graveolenti Fiati e le bocche, ed al senile affanno Oftrono pur cpialche sollievo i Medi. Ma ne la Media d’alberi si ricca, Ne il bel Gange, ne l’Ermo co’ suoi flutti D'oro, ne la turifera Pancaia, Ne 1’India o Battro contrastare a Italia Osino i pregi. Mai dalle narici Tori foco spiranti rivoltaro 11 suol Saturnio a seminar gPimmani Denti del drago, ne tra i solchi apparve Orrida messe di giganti e d’armi. Ben di massico vino e di ricolme Spiche, di armenti e di giocondi ulivi Gran copia. Di qua move altero al campo Il destrier bellicoso, di qua i bianchi Greggi, o Clitumno, ne’ tuoi sacri gorgbi Tersi piu volte, e il toro, la maggiore Fra le vittime, guidano al delubro I trionfi di Roma; qui continua Sorride Primavera, peregrina Qui la State, la pecora due volte Genera e gli arbor fruttano due volte. Ma qui non vivon le rabbiose tigri, Ne de’ leon v’ e il fiero germe. In fallo Tra 1’erbe non si colgon rii veleni, - 53 - Ne, come altrove, colPimmense terga Trascinasi per via squamoso šerpe, Od in giro convolve le sue sue spire. Tante illustri citta, tante vi aggiungl Costrutte moli, e tra scoscese balze Ardui castelli dalla mano eretti, E fiumi, che discorron lungo il giro Di antiche mura- Narrerb dei laghi E dei mar, che circondan le supreme E le sottane spiaggie, e di te, o Lario, Massimo, e di te pur, che con marino Fremere ti commovi, o gran Benaco? Dir6 dei porti e delle sbarre opposte Al Lucrino e del mar, che fieramente Da lungi per isdegno muggir s’ode Al rimbalzar delPonde Giulie, mentre Neli’ Averno il Tirreno tempestoso I flutti caccia? La medesma terra Ogni metal nolle sue vene accoglie, E argento ed or scorronle in seno a rivi. Ella produsse bellicosa gente, Gli eroi Sabini e i Marši e da fatiche I Liguri non domi e a corte spade I Volsci combattenti e i Deci e i Mari E di guerra mai stanchi gli Scipioni E i gran Camilli e te, Cesare, il primo Fra tutti, che delFAsia nell’ estreme Contrade vincitor disgombri alfine II romano terren dalFIndo infido. Alma di biade genitrice, o insigne Madre d’eroi, Saturnia terra, salve! Ad onor tuo lodar voglio degli avi L’arti primiere, ed oso le sacrate Fonti schiuder, sciogliendo il carme Ascreo Per le romane ville. Il loco e questo Che dei terreni 1’indole diversa Io spieghi ed il vigor proprio a ciascuno - 5 * - E i differenti aspetti e de’ prodotti La natura qual sia. Restie pianure E sterili colline c’han la terra Di lieve argilla a bronchi mista e a sassi, Godon vestire la palladia fronda Di rigogliosi ulivi. Gli oleastri Che sorgono frequenti tra que’ campi E le Silvestri bacche, onde cosparso E il suol, ti danno indizio. Ma la gleba, . Grassa e di dolce uligine fornita, E quelle zolle ricche d'erbe e piene Di umor ferace, quai vediamo spesso Nelle fonde convalli, ove da rupi Eccelse i fiumi seorrono e il fecondo Limo spargon pei campi, e i luogbi alPAustro Esposti, ch’ora sol dan felci al curvo Aratro invise, arricchiranti un giorno Di vigorose viti e deli'umore Di copioso bacco: di quell’uve Di quel licore, che nelPauree coppe Presso all’are libiam, quando il Tirreno, Pingue per l’uso delle sacre dapi, Chiamaci al rito con 1’eburnea tibia, E nei cavi bacini le fumanti Viscere offriam. Ma se allevar tu armenti Voglia, e vitelli ed agni e capre infeste Ai colti, cerca le lontane piaggie Della ferace Taranto ed i campi, Che piu non son di Mantova infelice; Do ve i candidi cigni tra 1’erbose Rive si ciban, dove mai le fonti Limpide al gregge mancheranno e i paschi: E quanto d’erbe brucano gli armenti Ne’ lunghi giorni, tanto fra la notte Vi rimette la gelida rugiada. Ma la terra nericcia e risoluta Dal forte aratro e soffice ridotta Pei frumenti e miglior; ne ritornare - 55 - A časa tu vedrai da un altro campo Piti carra tratte da gagliardi buoi. E la che 1'arator divelse irato Un bosco e atterro piante da molt’anni Infruttiiose, degli augelli antiche Dimore, e la radice ima strapponne, Albetere s’inalzano i pennuti Lasciando il nido; ma quel rozzo campo AlTinoltrar del vomera scintilla. Giacche 1'arida ghiaia di declive Terreno all’ape il rosmarino appena E 1' umil casia porge; e il tufo scabro E la creta da negri angui forata Negano in altro suol cibo gradito E curvi ricettacoli ai serpenti. La terra poi, che sottil nebbia esala E volubile fumo, e gli umor beve E gli rimanda a suo piacer, vestita Del proprio verde ognora. e che di scabbia E di ruggine il ferro non corrode, Ti cingera di allegro viti gli olmi, Sark d’oli feconda e troverai Del pari adatta, in coltivarla, al gregge E paziente delLadunco vomere. Ara tai campi la felice Capua, Tai son le piagge prossime al Vesevo E i terreni del Clanio,,che rigonfio Goi flutti Acerra a disertar trabocca. Or ti diro, come i terren diversi Conoscere tu possa. Se ricerchi Terre dense oltremodo, o rare assai, Quelle amiche ai frumenti e 1’altre ali’ uve A Cerere le dense ed a Lieo Le piu rare — col guardo coglierai 11 sito, e quindi una profonda fossa Fa che si scavi, ove piu fitto e il suolo, E di nuovo ripongansi le arene ln quella, e poi premendole co’ piedi Si uguaglino le zolle. Se appianate Agli orli mancheran, šara piu adatto II raro suol per viti, e per armenti; Ma se ricusa di capir la terra Entro a quell’orlo, ed alTempita fossa Fia che sormonti, denso allora e il campo E fatieose glebe e pingue cotiea Attenditi da quello, e con gagliardi Tori ti accingi a frangerne le zolle. Quel che salso terren dicesi e araaro E infelice per biade, ne lo domi Con 1’aratro, e il sapore e i nomi loro Alle viti fa perdere ed ai frutti. E il saggio ti dara. Le čorbe inteste Di fitto vinchio e i colatoi de’ torchi Stacca dai tetti affnmicati. Quivi Le ingrate arene a dolce fonte miste Calchinsi al sommo; Tumor tutto quindi A gemer fuori da quei vinchi e astretto. Grosse gocce usciranno e manifesto Faran queste il sapor, che nella prova Amaramente ferira il palato. Pingue del par qual sia il terreno, alfine Questo segno ti avvisi: colle mani Tritato non si scioglie, ma di peče A guisa nello stringerlo s’invesca Fra le dita. La madida campagna Fa Terbe rigogliose, e piu del dritto Essa ne gode. Ahime! non mi si mostri Fertile troppo, ne le prime spiche Sviluppinsi precoci. Il suol pesante Da se stesso appalesasi, e il leggero Del pari. Pronto il nero si presenta E a ciascuno ugualmnnte ogni colore. Ma il ravvisar, se avverso gel lo infesti, Agevole non e, sebben talvolta Le picee piante ed i nocivi tassi Ne porgano e le brune edere il segno. Tai cose rivolgendo, assai per tempo Il terren purga e quanto estesi sono - 57 - Taglia con fosse i colli, e ne dispiega •All’aquilon le rovesciate zolle, Assai prima che in seno al suol tu infigga 3 II giocondo rampol dell’alma vite. Fertile sempre e il campo rammollito, E tale il fanno i venti e le pruine, E il forte zappator, che in rivoltarlo Soffice il rende. Ma color, che tutto Veggon, per trapiantar 1’adulto tralcio Scelgano un sito uguale ali'apprestato A lui, quand'era tenerello ancora, Perche di nn tratto a una diversa madre In sen non si ritrovi. Ancor la plaga 3 Segnisi nella scorza, onde la pianta Quale fu pria, con quella parte a Borea E con 1’altra ver 1'Austro anco ritorni. Fin dai prim’ anni tanto impero han gli usi! llicerca prima, se in altura o in piano Meglio ti torni collocar le viti. Se on campo fisserai di pingue snolo, Dense le poni, che tra spesse viti Di Bacco mai vien meno 1’abbondanza. Se colle aprico ed un terren deelive Eleggi, di filari sia tu parco, Ed ogni via tra gli alberi ordinati Equa misuri gl’ intercetti spazl; Qual di frequente in formidabil guerra Nmneiosa legion le sue coorti Spiega divise e accampasi alPaperto, Allineansi le schiere, il suol balena Al luccicar delParmi e si commove De' manipoli al flutto, ne la pugna Ferve ancor, ma tra Parmi passeggiando , Marte al conflitto dar principio anela. Di misura e di numero sien pari Le vie, non sol perche porgano i campi Vano agli occhi piacer, ma perche giusta Altrimenti non pub partir la terra Agli alberi il vigor, ne a dispiegarsi - t>8 - Avriano loco i rami. Ma 1’ aitezza Delle fosse qual sia forse mi chiedi. A breve solco affiderai la vite, E dentro il suolo piii profonde infiggi L'altre piante, fra cui primiero l’eschio, Che qnanto le sue cime alFaura estolle, Tanto in basso approfonda le radici; Ne le procelle a svellerlo, ne i venti, Ne valgon 1’onde, ma rimane immoto, E vincitor de’ seeoli travolge Avi o nepoti, e le robuste braccia Larghe spiegando quinci e quindi e i rami, Ognor diffonde immensa ombra d’intorno. Non volgere la vigna al sol cadente, Ne frapporvi nociuoi, dalValto mai Non recidere i tralci, ne staccarne I magliuoli dal soramo della pianta — Al terren tanto amor le viti attragge! — Ne inciderle giammai con falce ottusa, E dal Silvestre olivo le allontana. All’incauto pastor di spcsso avviene, Gli sfugga una scintilla, che fnrtiva Entro la pingue scorza il tronco investe; E per le foglie poi salendo, alVaure Crepita il foco, vincitore insegue I rami, fin sulValte cime impera; Ed avvolto il vigneto in nna fiamma, Sollevasi pel eiel grasso di picea Caligine; e ancor piu se la procella Su quella vigna incomba, e il vento in giro Portando il foco, lo raddoppi. Ch’ove Questo avvenga, si ammalano le viti Nella radice, ne i recisi rami Riviver ponno o rinverdir sotterra, E resta solo. dalle amare foglie, Lfoleastro superstite infelice! Non induratti consiglier prudente, Se Borea spiri, a dissodar le zolle. Nel verno il suolo da gran gelo e stretto, Ne alle radiei 1'aderiroi e dato. Felicemente piantasi la vigna Nella fiorita Primavera, quando Arriva il bianco augel, nemico ai lunghi Šerpi, o di Autun sulle primiere brezze, Mentre il rapido sol co' suoi cavalli Ancor non tocca le invernali stelle, Ma se ne and6 la State. Ai boschi assai E ad ogni pianta il Primo Tempo e amico, La Terra il sente, e tumida gli chiede Ferraei šemi. Allora Etere, ilpadre Onnipotente delle cose, in grembo Alla giuliva sposa con feconde Piogge discende, e immenso nelPimmensa Terra trasfuso le figliate cose Tutte alimenta. Di canori augelli Risuona ogni virgulto. e ne' bei giorni Tornano licti ai loro amor gli armenti; Germina 1’alma Terra, ed apre il seno Ai zeffiri soavi e un dolce umore Per tutto abbonda. Il seme fiducioso Si schiude al nuovo sol, ne si sgomenta Il tralcio agLinsorgenti Austri e alle pioggie, Che al soffio di aquilone il ciel riversa; Ma le gemme fuor tragge '8 le sne frondi Tutte dispiega. Non altri, crederei, Giorni splendesser nelForigin prima Del giovinetto mondo, o chc diversa Stagion regnasse. Primavera Eli'era, Ed il grand’Orbe si aggirava in quella; Ne adducean gli Euri 1‘invernal rigore, Quando prime le belve riguardaro La luce, e in selva nacque.ro le fiere, Lassu nel cielo si locaron gli astri, E di terra formata la progenie Degli uomini sorgea dal duro suolo. Tanto disagio non potean le cose 60 - Tenere ancor soffrire, ne durato Avrieno, se fra i geli e fra gli ardori Equa tempra e del ciel mite sorriso Non favorian quest'Orbe. Ma qualunque Arbor sia quello che nel eampo infiggi, Di pingue flmo spargilo e con molte Zolle a cnore ti stia di ricoprirlo; Squallidi nicchi e porniči assorbenti Sovr’esso pure aduna, che tra queste L’acque si aggiran, lieve auretta scorre E rigogliosi crescono i germogli Altri con sassi e vasi di gran peso Ne premon le radiei a ripararle Dalle dirotte pioggie e dai calori, Onde 1’estivo Cane i sitibondi Riarsi campi fende. Poiche avrai Pošto il rampollo, alla radice intorno Spesso la terra tu rincalza, e il duro Sarchiello adopra, il suol con affondato Vomere tratta, e fra i vigneti stessi I restii bovi mena. D’uopo allora Fia che alle viti lievi canne adatti, Frassinei pali, denudate verghe E validi sostegni, onde afforzate A vincere si avvezzino e a spregiare L' urto de’ venti, pur salendo al sommo Degli olmi co' lor tralci. E mentre svolgesi La prima eta fra le novelle frondi, Finche tentre son, tu a lor perdona, K*»quando lieto il palmite si spiega AlPaura e senza freno al ciel si estolle, Non le toccar con ferro, ma le dita Piegando, cogli qua e colh le frondi. Ma come poi con forte lena agli olmi Si abbracceran, recidine le chiome E i rami tronca — pria temeano il ferro — — Gl — Adesso alfin duro comando spiega Ed il soverchio frondeggiar reprimi. 520 Tessere ancor siepi tu devi, ed ogni Gregge allontana, specialmente allora Che a guasti non e avvezzo il giovin tralcio, Cui le insistenti capre, i buoi selvaggi, 11 pascer d’agni e e d’avide giovenche Dannegian piu che 1’abborrito verno E piu che il dardo di cocente sole. Non dal gelo cosi le rassodate Candide brine, o 1’infocata estate, Che fin gli scogli del suo raggio infiamma, 5;)0 Quanto nuocere ponno i greggi infesti, Del vorace lor dente il rio veleno E nelle piante la ferita impressa Ne per altra cagion sovra ogni altare A Bacco il capro immolasi e per questo Si atteggian sulle scena i drammi antichi. Posero premi da Teseo i discesi Lungo i crocicchi e per le greche ville, E giubilanti fra i bicchier sugli unti Otri saltar fra molli prati. E aneh’essi 540 Di origin teucra, gDitali eoioni Carmi scomposti e sgangherate risa Sciog-liendo, assnmon di corteocia incisa Orridi volti, e invocano te, o Bacco, Fra lieti canti, e appendon «imulacri Mobili agli alti pini. Qui ogni vigna Rosseggia di maturo e largo frutto, Che sovra i colli abbonda e nelle valli, E ovunque il Nume il divin capo giri. Orsii di Bacco celebriam con patrio 560 Carme gli onor, ta/.ze e vivande otfriamgli, Gia il destinato capro per le corna Trarremo ali’ara, e arrostirem le pingui Dapi di cornlol ne’ spiedi infisse. Delle viti al lavor non mai compiuto Aggiungere e pur d’ uopo altra fatica. Giacche ogni anno dovrai tre volte e quattro — 62 - Rompere il suolo, e con riversa marca Sempre infranger le glebe e la soverchia Fronda levarne. II contadin ritorna A capo del lavor, dopo finito, E l’anno in se per le medesme vie Si svolge. E quando pur laseib la vite Le vecchie frondi e il freddo verno tolse AUa vigna 1’onor, non meno assidua Cura il colono al prossim’anno estende, E di Saturno coH’adunco dente Anche allora persegue la meschina, Pota, recide e a suo piacer la foggia. Scava primo il terren, tu gli asportati Sarmenti primo accendi, primo in časa Rečane i pali ed ultimo vendemmia. Dall’ombra ben due volte ricoperte Son le viti e due volte circondate Restan dall'erbe e da pungenti dumi; Dura fatica ci6 ti apporta. Loda L’ estese vigne e alle minori attendi. Nella selva pur tagliansi del rusco I vinchi e per la riva fluviali Canne e si sfronda da se nato il salcio. E tempo alfine cbe le viti e gli olmi Rinunzino alla falce, e il vignaiuolo Giulivo canti agli ultimi giungendo Pregni filar della sua vigna; eppure II suol di nuovo assistere dovra, Svolgerlo ancora e contro le mature Uve temer l’ira del ciel. Ma invece Gli ulivi non richiedon proprio culto, Ne la ricurva falce ed il pesante Rastrello attendon essi, se alla terra Una volta aderiro, avvezzi al clima. Bastante umor concede loro il suolo, E gonfie bacche, sol che aperto sia Dal dente adunco e dall’aratro svolto. - 63 - ln tal gnisa pertanto il pingue ulivo Coltiverai, sacro alla pace. E il rnelo Tosto che senta vigoroso il tronco E piene le sue forze, ratto all’aure Per virlit propria s’alza, e giammai d’uopo Di nostro aiuto egli ha. Ne men frattanto Di frutti sono gravide le selve, Dove rosseggia di sanguigne bacehe Infra i recessi degli uecelli il nido. 11 citiso si miete, 1’altre piante Porgon le tede, onde i notturni fochi Si pascono, la luee dispensando E poi dubiterem di seminare E di guardar con ogni amor le piante? E ch'altro dir? Dell'umile ginestra E de' salei, da eni frondi ha la greggia, Ed i pastori ban Tombre e siepe i campi E l’ape il mele? E pur bello il Citoro Di bossi ondoso, peregrina vista Di Narizia ci porgono le selve Nereggianti di peče, e ne diletta Veder terreni non soggetti a rastro, 0 ad arte alcuna. Sulla steril vetta Del Caucaso le piante fiagellate E mosse senza tregua da fu renti Euri ei dan di loro speeie il frntto, E il pin ci danno a salde navi adatto E il cedro alle magioni ed il cipresso. D. qua 1’agricoltore appresta i raggi Alle ruote, di qua le ruote ai carri E le curve carene alle sue cimbe. 1 salici di vimini fecondi Sono e di fronde gli olmi; i mirti poi Dan valid'aste, e ai bellici strumenti Utile e il cornio; il tasso a Partic’arco Incurvasi e i leggeri tigli e il bosso Levigabile, al tornio prendon foggia, E incidere si fan da stilo acuto. 64 - E 1’alno lieve snlle rapid’onde Del natio Po galleggia, e 1’api stesse Talora il nido trovano fra cave Corteccie, o in grembo di corroso leccio. Ma di memoria ugual forse di Bacco Sempre i doni fnr degni? Anche alla colpa Ei cagion dava, ma puni di morte I furenti Centauri Folo e Reto 64(1 Ed Ileo, che i Lapiti minaceiava Con la gran tazza. Inver troppo beato II contadin, se di sna bella sorte Inconseio non vivesse, a eui la Terra Giustissima nel sen schietto alimento, Lnngi delTarmi dal frastuon, prepara! Sebben per basso limtare oseura Sua maggion non rignrgiti di folla A dar vennta il mattntin saluto; Ne abbellir di testuggine si curi f>5() Le porte, o brami vesti d'or trapunte, Ovver Corinti bronzi, ne la bianea Lana egli tinga di colore assiro, 0 con la casia il liquid’olio infetti, Quiete ha perb sicura e vita scevra D’illusioni. Ricco e ognor di varie Dovizie, ma la pace tra gli estesi Čampi trova e spelonche e vivi laghi E mnggito di bovi e fresca Tempe E dolci sonni delle piante alTombra. 660 Quivi le selve intorno e delle fere 1 covi ed al lavoro e al poco avvezza Gagliarda gioventii; qui venerati I santi Numi, riveriti gli avi. Ultima de Celesti, nel partire, Astrea pei campi ai villici lasciava Impressa Terma del divin sno piede. Ma le Muse dolcissime, pel cui Rito divino tanto amor mi accende, Me accolgan prima, e imparinmi degli astri 67n - 65 - L’eteree vie, le varianti ecelissi Della Luna e del sol; perche la Terra Si scuota e per qual forza gli alti mari Si gonfino e travolgan dighe opposte, Di nuovo tra le spiaggie ritornando. Perche il sole invernal tanto si atfretti A seendere nelPonde, e quale indngio Trattenga 1’inoltrar di estiva notte. E ov’io non possa aocedere agli areani Di Natura, e in me il sangue ne' precordi Lento si aggiri, allor campagne e irrigne Fonti mi alletteran fra le convalli, E inglorioso amer6 fiumi e selve. Oh! chi mi adduee delto Sperchio ai campi E del Taigeto, dove le faneiulle Spartane 1’orgie menano di Baeco! Oh! chi mi posa tra le fresche valli Dell’Emo, alPombra di que' folti rami! Felice chi pote 1’origin prima Conoscer delle cose, e dispregiando L’inesorabil fato e la panra, Addormesi ai rumor delFOrco avaro. Felice pur chi venera gli agresti Numi e con Pane il vecchierel Silvano E le Ninfe sorelle. 11 regal ostro Non piegalo, ne i fasci^ e non lo inquieta Discordia, ch’arma gFinvidi "fratelli, 0 il Dače congiurato, che dali’Istro Vien contro Roma, ne di mille Rome Commoveriasi al crollo; non compiange 1 miseri, ne invidia 1’altrui bene. Dal ramo i frutti e quello, che il terreno Spontaneo reca, ei eoglie; mai le ferree Leggi provo, ne il popolar furore, E mai non vide pubblici cancelli. Altri co’ remi tenta i ciechi gorghi Del mare, ed altri avventasi fra 1’ armi, O Paule cerca e i limitar de’ regi, Portando eccidio ai miseri Penati & 66 - Ed alla patria, per dormir sull'ostro Assiro e ber nelle incavate gemme. Quei le riechezze oceulta e sul tesoro Sepolto incombe; attonito dai rostri Pende taluno, un altro affascinato All’applauso del popolo e de’ padri Vedi nel Cireo. Questi del fraterno Sangue lieto si tinge, a čolni piace Di sua magion mutando con 1’ esiglio I dolci penetrali, d’altra patria Posta sott’altro cielo irsene in cerca. Ma il contadin col curvo aratro smuove La terra e per 1’intero anno affatica. Di qua la patria, i piccoli nepoti E i giovenchi a ragion nutrica e il gregge; Ne riposa finche di frutti ricche Non faccia la stagion le stalle e i campi, Di biade copra i solchi e i granai n’empia. Viene il Verno, ed allor le Sicionie Olive frange ne’ trappeti, e i verri Tornan lieti di ghiande, offron le selve Corbezzoli, l’Autun le varie frutta Cader lascia, ed appieno si matura Dolce vendemmia sugli aperti colli. Intanto i čari figli dagli amplessi Pendono, ed il pudor custode regna Del casto casolar. La vacchella Le gonfie poppe abbassa, ed i capretti Pingui cozzan fra lor sulla fresch’erba. Gode anch’esso il cul tor le proprie feste, E assiso delle zollo sopra il verde Tra i fochi, tra gli amici e tra le tazze Coronate di lauro, te, o Leneo, Libando invoca, ed ai pastori un olmo Segna per meta dei veloei strali; Ed al cimento l’indurito corpo Snudan gli agresti. De’ Sabini antichi, Di Remo e del fratel questa la vita, no 720 730 741 ) - 67 - Cosi Etruria fortissima crescea, Di tutte cose Roma per tal guisa Divenne la piu bella, e si cingea D’inclite mura intorno ai sette colli. Visse in terra cosi 1’aureo Saturno E suon di tromba udito ancor non s’era; Ne strepitar su dura incude i brandi S’ inteser pria che il ditteo Re lo scettro Avesse e pria che di giovenchi uccisi DalEempia schiatta s’imbandisser cene. Ma lo spa/.io compii di arena immensa; E tempo e alfin di scioglier la fumante Cervice dei corsieri aflfaticati. VINE DEL LIBRO SECONDO ISlrgomento del libro terze lnvocati gli Dei e lodato specialmente Augusto, entra il poeta nell' argomento e discorre prima de' buoi e de’ cavalli, poi delte pecore e delle capre, terzamente dei cani e infme di quanto riesce a no- cumento del bestiame; e qwi dilungasi ad una mi- rabile descrizione della pestilenza. LIBRO TERZO „ 5 *<$)(£).<■ ^ ^ ..... BmwiwVMa8M. Uiti 1 ;,’, U t Vi. 1 Cii. i l ni',».vV. » u<) I y. t JžLi '•.•'• ‘ M • . ') H . ..... J . Vi . r,* ., * ‘ , t . *i* . T i T . Ti r . . ■ ■■.. r . - r„r . : , T -,7. . - .. t .. . i . - . .. Š| <|> «« ^ Y 0 <^Y° Y° ^/p Te pur, gran Pale, or canto e te, o pastore, C’hai dalTAfriso memorabil nome, E voi fiumi e foreste di Lioeo. ]5 noto gia quanto apprendeano i Carmi Agl’ intelletti liberi di cure. Chi Euristeo crudo e chi deli’ esecrato Busiride gli altari fia che iguori? E a chi d’Ila garzon, della latonia Delo, d’Ippodamia farna non giunse, E di Pelope insigne per 1'eburnea ltl Spalla e temuto pei corsier? Ma d’uopo E ch’io tenti la via di sollevarmi Da terra per poter di boeca in bocea Fra gli uomini volarmenesovente. Reditee in patria dalPaonie vette Addurrb meco, pur che in vita io resti, Primo le muse, e recherb primiero, O Mantova, al tuo sen palme idumee, E presso l'acque, sopra i verdi campi Porro di tnarmo un tempio, ove il gran Mincio 2() In lenti giri scorre e le sue sponde Di molli canne veste. In mezzo a quello Cesare voglio e a lui sacralo il tempio. Io vincitor nel Tirio ostro ammirato Io stesso cento agiterb quadrighe, ~ 74 - Per onorarlo al patrio Mincio in riva. Grecia tutta, gli olimpici e i nernei Ludi obbliando, oonverrk pur meco Nel erudo cesto e nelle corse a gara, E adorno il crine di tosato ulivo I doni rechero tra le mie mani. Gik gik parmi ch’io guidi le solenni Pompe al tempio, gik vedo gl’ immolati Giovenchi, e come la girevol scena Cambi di fronte e li cospicua tela Sollevino i Brittan pinti sovr’essa. In sodo avorio e in oro sulle porte II conflilto del Gange e Parme impresse Fieno per me del vincitoi' Quirino; Ed il Nilo da Marte scompigliato Nel suo gran corso e di naval metallo Cippi sorgenti e le cittk gik dome Aggiungerovvi d’Asia e i vinti Armeni E i Parti sol fidenti nelle freccie, Che scagliano fuggendo e i due trofei A due nemici dalle man rapiti E i popoli dalPuno alPaltro lido Trionfati due volte. I Pari marmi Saranvi ancora e le spiranti effigi Della prolo di Assaraco e gli Doi Di quella schiatta, che da Giove ha il sangue E il padre Troio e Apollo aulor di Troia. L'invidia, fonte d’ alti guai, paventi 11 fin me inesorabil di Cocito, Le Furie e gli Angui ond’e Issione attorto, L’immane ruota e il non mai fermo sasso. Or convien ch'io mi appressi delle Driadi Ai boschi ed alle vergini foreste, Ne lieve, o Mecenate, e il tuo comando. Senza il tuo Nume nessun’alta impresa Mia mente ardisce, tu ogni indugio tronca; Or con tonante grido il Citerone C’invita e anch'essi del Taigeto i cani E 1’Epidauria terra, domatrice - 15 - Di cavalli, e iterandone il clamore Assentono le selve. Accingerommi Quindi a narrar di Cesare le ardenti Pugne, e a tanfevo dell'eroe le geste Affiderb, per quanta era e lontano Cesare di Titon dal prisoo ceppo. O tu pasca i cavalli al premio intento Della Olimpioa palma, ovvero attenda Per Paratro a formar gagliardi buoi, 11 corpo della madre ben riguarda. Ottima sark ognor dalPocchio torvo La vaoca e dalla fronte spaziosa, Di grosso collo, a cui dal mento penda Fino al ginocchio la giogaia. II fianco Abbia pur lungo, di massiccie membra Sia e di gran piede, e sotto le ritorte Corna drizzi le orecchie. Piaceriami Assai di macchie candide cosparsa Ed indocile al giogo e dalle corna Talora tninacciose. NelPaspetto Piii al toro si avvicini, e allora inceda Spassando con la coda 1’orme impresse. Essa 1'etade agPimenei piu adatta E alle fatiche di Lucina chiude In sui dieci anni e dopo il quarto 1’apre. Atta nelPaltre non e al frutto e forte Per Paratro non ž. Ma fin che al gregge Arride giovenlit, sprigiona i maschi, Ed a Venere in sen Parmento invia, Rinnovando cosi la vecchia gente. Ai miseri mortali ogni piu lieto Giorno di loro etk primo s’invola, Seguono i morbi e la vecchiezza invisa, E gli stenti ne fanno e la spietata Morte crudel rapina. — Ma ne avrai Ben altre. quando le gia inette madri Ti converra mutar. Dunque Parmento Ristora, e perche invan delle perdute Poi non ricerchi, antiveder ti e d’uopo - 76 - E procurar novella prole al gregge. Ne dell’equina specie altro e il governo, E fin da tenerelli assiduamente Quelli riguarda da te gia prescelti Per la futura prole. Alto per via Sempre il puledro generoso move, Agile al/ando e riponendo il piede, 110 Ardisce primo ineamminarsi e i fiumi Tentare minacciosi, e a ignoto ponte Primo si affida, ne atterrito e mai Da rumor vani. Altier solleva il collo E il capo argulo. Ha stretto il ventre e pingui Le terga, e il petto audace lussureggia Di muscoli. I.odato il baio e assai E il glauco, rion cosi gli Stormi o bianchi. Se pur da lungi maudin Parme un suono Starši al pošto ei non sa, guizzan gli orecchi, 120 Gli tremano le membra e dalle nari Versa fremendo il concepito ardore. Ha folta la criniera, che agitata Va quindi a riposar sul destro lato; Nel dosso ha doppia spina, scava il suolo E di solido corno fieramente L’unghia risuona. Cillaro tal fue, Cui le briglie domar delPAmicleo Polluce, e cosi fur, come cantava La Greca Musa, i corridor traenti 130 Del Gradivo la biga o del famoso Achille il cocchio. Tal Saturno stesso 11 divin collo di criniera equina Pronto cosparse alPimprovviso arrivo Della consorte, e P alto Pelio empia Di un acuto nitrir nella sna fuga. — Quando per6 grave pei morbi e lento Pegli anni ei venga men, nelle tue stalle Tienlo e risparmia la non vil vecchiezza. — Di Venere alle prove il freddo veglio t4C Persiste invan nelPimproba fatica; E nel cimento, se talor s’impegna, - 77 - A vuoto infuria, come viva fiamma Senza alimento fra le stoppie accesa. — L’etk pertanto notane e il coraggio E l'altre doti e la sua stirpe aneora; Qual, se vinto, duol n’abbia, e della palma Quanto egli goda. Forse visto avrai 1 coechi dalle sbarre sprigionati Irromper nelFarena e in furibonda Gara volar, mentre i cocchier di speme Brillano e i cor nella esultanza invade Tra i palpiti la tema; col ritorto Flagel chini sovrastan sulle sciolte Redini, va qual lampo il fervid’asse. Or alto or basso sembrano portati Per 1’ aer vano e sollevarsi al cielo; Ne indugio v’e o riposo; una gran nube Alzasi dal terren di fulve arene, E gl’inealzanti bagnano di spuma E di lor fiato i corridor primieri: Tanto amore han di gloria e cosi ardente Di vittoria desio. Compose il carro Primo Erittonio, ed attaccarvi ardiva Quattro cavalli, e sulle mote rapide Vincitor sostenersi. De’ montati Destrieri il fren trovarono i centauri E di aggirarli il modo, e li ammaestraro A scalpitar fra 1'armi e ad affrettarsi, Agglomerando i lor superbi passi. Fatiche uguali entrambe! Giustamente Scelgonlo i mastri giovine, focoso E di fulminea corsa, benche un altro, Adulto d’anni 1’oste avversa in fuga Spesso abbia volto, e gli sia patria Epiro, O la forte Micene, o dalla stessa Progenie di Nettun 1’origin tragga. Quindi a tempo si adoprano i padroni Ed ogni cura impegnano a nutrire, Quel, che scelsero a duce e tra 1'armento Fissarono a marito; a lui sol erbe Floride segan, porgongli soorrente Onda ed eletto grano, perche a lungo Possa durar negli amorosi assalti, E la invalida prole non accusi II paterno digiuno. Vuolsi pure Le madri assottigliare per magrezza, E allor che nota volutta ai primieri Connuhi le sopinge, il eibo ad esse Negan, le scacciao dalle fonti, e spesso Fan che correndo scuotansi, ed al sole NelPaia le affaticano, quand’essa Piu geme al suono de covon percossi, E sparte all’aura van le paglie inani; E ci6 perche pinguedine soverchia Al campo genital non renda ottuso L’adito e ingombri sterilmente i solchi, Ma sitibonde assorban volutth, E nel seno la serbino. Lasciato Or de’ padri il governo, si provveda Delle madri alla cura. Sul finire Dei mesi, quando van gravide errando, Non si permetta, che ai pesanti carri Fatichino aggiogate, o che di salto Tragittin losse, o in troppo ratta fuga Assalgan prati e nel corrente torne Immergansi nuotando. Ma pasciute Sian tra libere selve, lungo i piani Rivi; e il rnusco e le sponde verdeggianti E le rupi le coprano di un’ombra Estesa. Ma di Silaro tra i boschi E sull’ Alburno d’ elci rigoglioso il frequente 1’insetto, che di Assillo In Roma ha il nome, e in lor favella i Greci Estro nomaro. Con ronzio feroce Acerbamente stride, onde atterriti Per le selve disperdonsi gli armenti, - 79 - E Petere commosso a quel muggire Ed i boschi risuonano e le rive Del Tanagro, agli ardori estivi .asciutto. Un di Giunone cotal maostro scelse A esercitar la sua terribil ira Con Pinaehia giovenea; e giaeche infuria Tal peste piu, qnanto pili ferve il sole, Tu la discaccia dal pregnante arraento, E a pascersi lo guida ai primi raggi, E allor ehe Pombre addueono le stelle. Dopo il parto rivolgesi ai vitelli Ogni studio. Col foeo immantinente Il nome delle razze e il segno imprimi Su qutlli scelti a rinnovar la prole, O alPare sacre, o che squarciare il suolo Dovranno e rivoltar le infrante zolle Ali’indu rito eampo. Gli altri armenti Pascansi per le verdi erbe. Ma qvtelli, Che alPopre e ali'uso agreste informerai, DalPeth prima indrizza, ed a domarli Attendi fin che gioventu a lor dona Pieghevol tempra, e n’e mobil 1’etade. Cingine di sottil vinchio dapprima Con largo giro il collo, e poi, com’essi Le libere cervici a quel servaggio Avvezze avranno, al cerchio stesso uniti Accoppiane due uguali, e-“li riduci Entrambi a un passo; sian da quei le ruote Di lieve cocchio pel terren tirate Sovente, e nella polve lieve solco Segnino appena Dietro a lor piu tardi L'asse di faggio da gran peso oppresso Ne venga strepitando, ed il ferrato Timon ne tragga le congiunte rote. Ai giovani non domi tu frattanto Non sol gramigna ed erbe saporite Di salci, ovver palustri alghe, ma i grani Darai, che la tua mano ha seminato. Ne le lattanti madri, siccom’era - 80 - Avito stile, ti empiranno i vasi Di niveo latte, ma coi dolci figli Esauriranno le materne poppe. Che se tu all’armi e alle feroci stjuadre Istrutto il brami, e vuoi che nella corsa Lungo il Pisano Alfeo vinca le ruote, E che di Giove nella selva i cocchi Tragga volando, a suo primiero indrizzo L’armi scorga e il valor de’ eombattenti, Alle trombe si avvezzi e al cigolio Di trascinati carri e nelle stalle 11 suon de' freni ascolti. Gik lo vedi Esultare ognor piu, se del maestro Il blandisca la lode, e sul suo collo Senta il lieve scoccar delle carezze. Appena tolto della madre al latte Questo egli apprenda, e debole ed ancora Tremante a mite fren porga le labbra, Inconscio delPeta, che ardir gli aggiunge. Ma i tre compiuti ed al quart’anno volto Al giro lo si addestri, e con ugnale Sonante passo alternamente pieghi Le svelte gambe, qual chi a stento inoltri. I venti quindi seco al corso inviti E da ogni freno libero, volando Pei campi aperti di leggera impronta Sfiori appena la polve. Impetiioso L’iperboreo aquilon cosi dal polo Piomba, di Scizia le procelle e nubi Vane portando; P alta messe allora Per le campagne inorridita ondeggia, Benche a piu basso e men gagliardo soffio, Sussurrano degli alberi le cime B irrompono da lunge i flutti al lido. Ei segue il volo, nella fuga i campi E i mari oltrepassando. — Il corsier quindi O sudera del vasto circo eleo All’agognata palma e le cruenti Spume fra i labri svolgera, ovver meglio Fia che belgici carri egli trascini Col giovin collo. Ma di pingue farro Lasoierai che alimentino il gran corpo Soltanto allor che domi gli abbia; ch'ove Prima il permetta, la natia baldanza Sorgerh in essi, e al troppo duro morso Ribelleransi e alla flessibil verga. Ne altra cura piu adatta a rinfrancarli Evvi per chi di bovi, o piii gradito Di cavalli avrh l’uso, che il distorli Da Venere e di amor dal cieco istinto. Percih appunto confinasi de’ tori In separati pascoli 1'armento, Oltre ad opposti monti e a larghi fiumi. Oppnr chiusi si tengon tra forniti Presepi, che la femmina il vigore Scema in essi ed annientane, se vista, Spegne in loro il desio di boschi e d’erbe, Mentre sovente con procaci vezzi Spinge a vicenda i baldanzosi amanti Con le corna a sfidarsi. Nel gran bosco Di Sila, mentre pascesi formosa Giovenca di gran impeto fra loro Bi mischiano battagiie a spesse piaghe, Bagnane il sangue d’atra macchia i corpi, E vanno tra rivali alto milggendo Con le rivolte corna ad incontrarsi; La foresta rimbombane e il lontano Aere. Ma non piu comune albergo I guerreggianti soffrono, che il vinto Vassi lontano per ignoto esiglio. Molto pur geme pel sofferto scorno, Per le ferite dal rival superbo Inflittegli, e gli amor, che invendicato Lascia e gli alberghi rivolgendo in core, Parte dal regno avito. Le sue forze Con ogni cura esercita frattanto, B nel duro covil sugli aspri sassi - 82 - Ostinasi a giacer. Quivi si pasee D’ispide foglie e di carice acuta, Se medesmo incitando, e con le corna Agli sdegni preparasi e alla pugna; Urta ne’ tronchi, come a sfida i venti Fiede, e spargendo co’ suoi pie 1’arena Al certame prolode; e poi che in petto Gli spirti accolse e ristorb le forze, Move le insegne e scagliasi fnrente Contro il nemico, il cui valore obblia. — Cosi comincia per lo mare il flutto A biancheggiar da lungi, e cosi volto Ai lidi, ripiegandosi dalPalto, Suona tra i sassi con fragor, cadendo Di monte a guisa; Fonda inabissata In vortici ribolle e negre arene Dall’imo inalza. Ogni famiglia invero D’uomin, di fere, del gran mare i figli Da un medesmo furor gli angelli e il gregge Da un sol foco son tratti; uguale in tutti ii amor. Ne in altro tempo errando mosse Immemor de’ flgliuoi ne piu feroce La lionessa, ne cotanta strage Gli orsi deformi e cosi spesse mortl Per tutta la foresta seminaro. Allor crudo il cinghial, la tigre allora Pessima. Gnai per chi di Libia i campi Desolati scorresse! Ma non vedi Come un tremore del caval sorprenda Le membra tutte, sol che l’aria nota Senta spirar! ne piu del cavaliero 11 fren trattienlo, ne il flagel ritorto, Ne sassi, o cave rupi, ne gli opposti Fiumi, che in se travolgono i divelti Macigni. Ed il maial sabino infuria Pur esso, i denti aguzza e pesta il suolo Co’ pie, sui tronchi fregasi le coste, E cosi il dorso alle ferite indura. — .140 350 360 370 — 83 - Che farh il giovinetto, a cui gran fiamma Di non domato amor scorre per l'ossa? B certo ch’egli a tarda notte e oseura Varea, nuotando, Fonde sollevate Da fiero nembo, mentre l’alto cielo Sovra il capo gli tuona e il mare infranto Dagli scogli rimbomba; richiamarlo I miserandi genitor non ponno, Ne la donzella, che al sinistro avviso Fia che di uguale crudel morte pera. Che dirb delle linči screziate Sacre a Bacco e de’ cani e della razza Aspra de’ lupi, e che delle battaglie, Che impegnano tra loro i cervi imbelli? Ma le cavalle per furor distinte Fra tutti sono e lo inspirb la stessa Venere in esse, quando le potniadi Quadrighe a brani misero di Glaueo II corpo. A valicar 1’Ascanio e il G&rgaro Amor le induce ed altri monti e fiumi; E quando il foco alFavide midolle Si apprende — in primavera piu, che alFossa Rimelte primavera quell’ardore — SulFalte rupi tutte volte ai zeffiri Per la bocca ricevono quall’aure, B, senza maritaggi, oh maraviglia, Da Zeffiro impregnate per macigni Fuggon per balze e per profonde valli, Non, Buro, a te, ne incontro al sol che nasce, Ma verso Borea o Coro, ovver la donde L’Austro soffla densissimo e di fredda Pioggia l’aer contrista. Ma gih stanche Stillano alfin dall’inguine quel lento Veleno, che i pastor nomaro ippomane, L’ippoman, che le perflde matrigne Mischiano ad erbe e a magiche parole. Pur fugge il tempo, irreparabil fugge, Mentre amor su ogni cosa ci trattiene. Dunrjue basti di armenti, 1’altra parte 380 390 400 410 - 84 - Dell’impresa ci resta. Or del lanoso Gregge il culto si tratti e delle irsute Capre. Quivi, o gagliardi agricoltori, Travaglio avrete, ma di qua pur lode Sperate. Sommi ben quant’arduo sia Vincere cose tai con la parola, Ond’umile soggetto aequisti onore; Ma un dolce amor sollevami alTeccelse Erme vie del Parnaso, ed ir vagheggio Dove de’ Prischi nessun’orma inviti Per molle clivo alle castalie fonti. Ma qui arrivato di te in tuon sonoro Canterb, diva Pale; e cominciando, Voglio che d’erbe in miti stalle i greggi Pascano fino a che frondosa torni La State; d’alta paglia sotto ad essi E di felci manipoli sul duro Terren si elevin, perche il gelo acuto Le delicate pecore non fieda, O si deformin per podagra o scabbie. E delle capre quindi ragionando, Si diapo a queste verdi rami e fresche Acque e le stalle da ogni vento illese Abbian, che ai rai del brumal sole opposte Il mezzodi riguardin, finche il freddo Acquario non ismonti, e sul cadere Non isprema dal ciel 1’ultime pioggie. Ne tratteremo con piu lieve cura, Ne con util minor le capre ancora, Benche a gran costo di Mileto i velli Merchinsi aceesi della tiria fiamma. Piu densa prole han queste e maggior copia Di latte, e quanto piu di spuma i vasi Colmi trarrai dalle rigonfie poppe, Piu pronti soorreran di latte i rivi Dalle spremute mamme. Ne frattanto Le barbe intonse del cinisio capro Tu lascierai, ne il suo canuto mento, - 85 - Ne i setolosi crini, della guerra Ali’opre adatti ed a coprir le membra Dei mi&eri nocehier. Bručan le capre Nei bosehi e del Liceo sulbardue vette GPispidi roghi e i dumi delle alture Amici, e da per se memori al tetto Tornano rimenando i dolci parti, E il limitare con le gonfie mamine Varcano appena. Tu percib dal gelo E dai nevosi fiati le ripara Con maggior cura, quanto men si danno Di bisogno mortal elle pensiero; E lleto le nutrisci e porgi loro Pasto di frondi, ne del tutto ad esse Chiudere nelTinverno i tuoi fenili. Come lieta de’ zeffiri alTinvito Chiama la State l’uno e 1’altro gregge Ai pascoli e alle selve, andiam pei campi, Allor che fresca allo spuntar del giorno E la terra, e le piante sul mattino Luccican di rugiada, che alla greggia Piu gustose fa 1’erbe tenerelle. Ma quando sulla quarta ora la sete Maggior diventa, e par che le cicale Seghin gli arbusti con la rauca gola, Le mandre ai pozzi ed ai profondi stagni Adduci, e fa che bevano"dell’onde Correnti per canai d’elce costrutti, L’opaca valle al mezzodi rieerca, O dove sia, che dall’annoso tronco La gran quercia di Giove i rami spieghi, O d’elci nella sacra ombra si avvolga Fitta selva. Di nuovo al di cadente Pasci il tuo gregge e a limpid’acque il mena, Quand’Espero del sol mitiga i rai, E rugiadosa a ricercar le selve Diana sorge, e suonano di augelli Le siepi e di alcioni la marina. Che dirti poi de’ libici pastori, - 86 - E con qual carme proseguir de’ paschi E delle rare lor capanne? Spesso E notte e dl, per qoanto e lungo un mese, Errando pei deserti senza tetto Pasturano le greggie — in tanto spazio Giaccion que' piani.— L’african pastore Tutto ha seco, la časa, i lari e Parmi E scelti cani e la miglior faretra; Cosi fier delle patrie arme il romano Sotto 1’enorme pondo s’incammina, E del nemico a fronte, di battaglia In ordine si accampa. — Ne cif> avviene Lh ove sono gli Sciti e la palude Meotica, e rivolge il torbid’Istro Le bionde arene, e Rodope ver Borea Proteso alquanto si ripiega ali’Ostro. Lh nelle stalle chiudonsi gli armenti, Ne spiegan erbe i prati o gli albor fronda, Ma giace informe per gran tratto il suolo Da gel coverto e da nevosi acervi, Che a sette spanne inalzansi. Perpetuo E colh il verno, e ognor soffian gelati I venti. Ne giammai Febo le incerte Ombre scuote, o sia tratto dai corsieri Alla celeste meta, o nel vermiglio Flutto il coccbio a bagnar fulmineo scenda. Croste di ghiaccio tra i correnti fiumi Si addensano improvvise, e le ferrate Ruote sul tergo sostien Fonda, pria Di navi ospite ed or di aperti carri. Anche il bronzo si sprezza, e Findossate Vesti s’ingelan, con la scure d’uopo E che i vini si spezzino; mutate Tutte in solido gel son le lagune, E s’indurano in orridi ghiaccioli L’ispide barbe. Ma di neve intanto E tutto un nembo il ciel, muoion le greggie, E i gran corpi de’ buoi tutti cosparsi Son di pruine; strettisi fra loro 490 500 510 520 - 87 - Torpono i cervi sotto il nuovo carco, Da cui spuntano appena delle corna Le cime; ne da cani, ovver da lacci 0 dalle piume di punicea fune Sono a pavida fuga mai sospinti. 1 cacciatori da vicin con 1’armi Uccidonli, mentr'essi invan le opposte Nevi si sforzan di sgombrar col petto; Ed agli alberghi con festose grida Riportanli piagati orribilmente. Menan quelli tranquilli ozi sotterra In profonde ca verne, e i Lari d’olmi Interi e di gran quercie accatast&te Ingombran, fomentandone la flamma. Qui la notte producono fra i giuochi E fra le tazze di un liquor, che al vino Simil fermentan con le sorbe lazze; E costoro, che vivon senza leggi, Soggetti al boreal gelido polo, Dalle rifee procelle combattuti Veston le mombra di rossiccie pelli, Tolte alle fere. Se di lane hai cura, Allontana la greggia dalle macchie Di lappole e di spini e dalle troppo Liete pasture, e scegli sempre bianche Agnelle, ch’abbian morbide le lane. Ma il montone, che candido pur sia, Scaccia, se solto 1’umido palato Abbia nera la lingua, perche il vello D’atre macchie ai nascenti non intoschi, E tra il ripieno ovil ricerca un altro. Cosi 1’Arcade Pan, se creder puossi Te, o Cinzia, preša di sue nivee lane Al fascino, ingannh, tra l'alte selve Chiamandoti, ne hai tu spregiato il Dio. Ma chi di latte e vago, ne’ presepi Spesso di propria man citiso e loto Rechi e sals’erbe, percid allor maggiore Si fa d’acque il desio, rigonfian piu Le poppe, e occulto insinuasi n el latte Un sapor salso. Molti, quando e adulto, Dalla madre distaccano il capretto, E le tenere labbra con ferrata Benda ne chiudon. Sul mattin spremuto, O fra il dl, stringon nella notte il latte, E quel che nelle tenebre hanno munto 0 in sulLoccaso, esportano in canestri, Quando il pastore alla citta si reca, Ovver 1’insalan parcamente, e in serbo Ripongonlo pel verno. Ne dei cani Rincrescati la cura; ma di Sparta 1 catelli ed ancor 1’ acre molosso Nutri di pingue siero. AUor di ladri Temibil non ti fia notturno assalto Alle stalle, o di lupi scorreria, O a tergo il passo d’indomato Ibero. Anzi spesso noi cani agiterai Lepri paurose e anagri, e pur coi cani Inseguirai le damme; dai latrati Sark il einghiale pei pantan Silvestri Volto in fuga, ed agevole ti fia Con clamore cacciando per montagne, Cervi enormi sospingere alle reti. A bruciar nelle stalle 1’odoroso Cedro e a fugare i perfidi chelidri Apprendi ancor di galbano col fumo. Spesso pure o la vipera, al contatto Esiziale, nel terren si asconde Di tranquilli presepi ed atterrita Togliesi al giorno, o il colubro ruina Di armenti, ali’ ombra ed alle čase avvezzo E ad infettare di venen le greggie, Sceglie albergo sotterra. Su, su allora, Le tue mani, o pastor, arma di legni, Arma di sassi, e mentre minaccioso Aderge sibilando il gonfio collo, — 89 - Atterralo; gih ratto il capo asconde Entro il suol trepidando, e gia dal mezzo Fino alFestrema coda gli si scioglie Ogni nodo, ed alfin 1'ultima spira In tardo giro avvolge. Di Calabria In fra le selve pur malvagio e un angue Che sollevando il petto, le squamose Terga svolge, dipinto di gran macchie ct0 Il lungo ventre. Questi allor che i fiumi Straripan dalle origini gonfiate, E mentre il suol da quell’umor bagnato l5 in primavera e dalle australi pioggie, Raccogliesi ne’ stagni, ed abitando Tra le rive, di pešci l’atra gola, Crudo, riempie e di loquaci rane. Ma come pel calore disseccate Son le paludi e fendesi la terra, Slanciasi nelPasciutto e strage mena 620 Per le campagne dalla sete punto E inferocito dal soverchio ardore. Ne a ciel sereno allor placido sonno Mi prenda, ne giacer mi gioveria Di fitta selva in sen, quand’ ei mutato Per le deposte spoglie e rilucente Di giovinezza svolgesi, e nel covo I serpentelli abbandonandb e l’uova, II petto aderge al sole, e dalla bocca Par che vibri tre lingue. Ancor de’ morbi 630 Ti apprenderb gPindizi e le cagioni. Turpe scabbia le pecore tormenta, Se fredda pioggia le colpisee al vivo, O nel verno crudel candida brina, O allora che si appigli alle tosate Sudor non terso, o siepe irta di spini La pelle ne ferisca. I mandriani Immergono percih la greggia tutta Neli’ acque dolci, ed il montone, a cui - 90 - Sudi la pelle cacciano tra 1’ onde, A seguire del fiume la corrente, Od il tosato corpo d’atra morchia Cospargono e vi mischian vivo argento, Zolfo, elleboro, scilla e peče idea E insiem nero bitume. Ma null’altro Scampo migliore a quell'eccidio trovi, Che recider col ferro della piaga II margo estremo. Perocche la scabbia Si alimenta, occultandola, e si accresce, Ove il pastor con avveduta mano La ferita non curi, ma oziando Aspetti dagli Dei, miglior soccorso. E allor che acuta doglia fino alTime Ossa i belanti assale e ardente febbre Divorane le membra, giova in essi Calmar Vacceso foco, e della zampa Sul fine al sangue, che la vena scnote, Il varco aprir: com’usano i Bisalti E il fier Gelon, che a Rodope rivolto E ai getici deserti nella fuga Beve latte ed equin sangue r&ppreso. La pecorella, che vedrai sovente Molle rezzo cercar, brucando appena DelPerbe il sommo e seguir tarda il branco, O, pascendo sul campo rgvesciarsi, O ritornare a tarda notte sola; Pronto di mezzo. come rea, col ferro Togli, perche quel morbo non serpeggi Tra il gregge incauto. Non cosi frequenti Il turbine sul mar procella avveuta, Quanti son delle pecore i contagi. Ne assalgono soltanto in parte i capi, Ma d’improvviso nell’estate interi Ovili, ogni speranza e il gregge tutto E annientan fin nel ceppo i nascituri. E colui salsi ben, che 1’Alpi aeree E sulle alture i norici castelli E gPIstriani campi del Timavo - 41 - E i regni dei pastor, dopo tant’ evo, Desolati rimira, e per quant’ ampie E lunghe son, vacue le selve. Un di Miserando flagel quivi si estese Per l’aer guasto, ed ai funesti ardori Di un autunno infiammossi e distruggea D’armenti e d’altre fere ogni famiglia, Corruppe laghi e avvelenb pasture, Ne morte si compose a un solo aspetto. Ma poi che 1’ ignea sete per le vene Tutte diffusa, le infelici membra Rattrasse, nascea in copia nuovo umore, Che a poco a poco a sciogliere giungea L’ossa conquise. Di frequente pure La vittima, che stava presso ali’are Al rito pronta degli Eterni, cadde A terra moribonda fra i ministri Intenti a circondar di nivee liste L’infula sacra; o se ne ha pur taluna 11 sacerdote pria col ferro uccisa, Responsi piu non porge il chiesto vate,, Ne fumano gli altar di quelle fibre; II sopposto coltel di sangue appena Adombrasi, e macchiate della strage Restano al sommo le digiune arene. Di qua i vitelli ne’ ridenti prati Assidua morte coglie, o i miti spirti Tornando esalan tra le colme stalle. Quinci ai cani piu docili si appiglia La rabbia, seuote un’affannosa tosse L’egro cinghial, strozzandone le fauci; Ed il consiero vincitor poc’anzi Infelicej ora langue e ha il fonte a sdegno, E spesso colla zampa il suol percote, Immemore delTerbe e di sue imprese! L’ irte orecchie si abbassano, un sudore Interrotto le membra ne ricerca; E insieme il gel, di morte messaggero, 690 000 700 710 - 92 - La pelle inaridisce e la fa dura, Si che al tatto resiste. Cotai sono Del feral morbo sul principio i segni. Ma se prende a infierir, gli sguardi allora 72l) S’infiammano, il respiro dal profondo Tratto e a stento fra gemiti, e per lungo Singulto i fianchi elevansi dalPimo. Giii diseorre atro sangue dalle nari,' Ed aspramente le ristrette fauei Preme la lingua. Pur giovb talora Infonder con imbuto per la gola Licor di Bacco, ed unica salute Lo si credette allor pe’ moribondi. Ma presto esizial si riconobbe; 730 Rinvigoriti, di maggior furore Quindi accendeansi, e — ci6 cbe i Numi agli empi, Ma diverso destin serbino ai pii — Da se medesimi, a disperata morte Vicini, laceravansi le čarni Strappandole co’ denti. Ed ecco il toro, Che dell’aratro sotto il duro peso Cadendo a uti tratto di sudor fumante Versa 1’estremo gemito col sangue. Dolente a separar 1’altro giovenco, 740 Che per la morte del fratel si lagna, Va 1’aratore, ed a mozz’ opra fermo Resta 1’aratro. Non degli alti boschi L'ombre, ne ricrear Palma gli ponno I molli prati, ne quel rivo stesso D’ogni elettro piu puro, che tra i sassi Alla campagna move; gli s‘ infossa II fianco, istupiditi stan gPinerti Occhi, ed il capo col cadente peso Al suol giu scorre. A che gli giovan ora 750 L’aspre fatiche e le gagliarde im preše? A che lo aver le dure glebe svolte Con Paratro? Ma pur di Bacco a lui Le massiche bevande e gli squisiti 93 — Cibi non nocquer, che soltanto d’erbe E di fronde si pasce, e le sue tazze Sono limpide fonti e infatieati Fiumi nel corso, ne ria cura i sonni Dolci ne rompe. In altro tempo mai Si ricercaro di Giunon pei riti Giovenche, ne mai carri al gran delubro Tratti furon da bufali a non pari Coppie aggiogati. Gik il cultore a stento Col semplice rastrel rompe la terra II seme a por della sperata messe; Pegli alti monti gli stridenti planstri Con teso collo trae. Non insidia il lupo Ali’ovile, ne va notturno errando Al gregge intorno — peggior cura il doma — Ed i pavidi cervi e le fugaci Damme tra i cani agli abituri intorno Si aggiran. Dell’immenso mar la prole, De’ nuotanti ogni specie vien gettata Dai flutti, come naufraga, sul lido, E insolite riparansi ne’ fiumi Le foche. Muor la vipera dai curvi Reeessi mai difesa, e con erette Squame perisce irrigidito il šerpe. Ne men crudele agli aug.ei stessi e l’aria, Ed essi pur delPalto cielo in grembo, Precipitando, lasciano la vita. Ne i pascoli cangiar salute arreea. Ogni scoperta nuoce. Ritirarsi I maestri Melampo Amitaonio, E il filliride Chiro. Inviperisce, E dalle stigie tenebre alla luce La pallida Tisifone balzata Spinge i morbi a se innanzi e lo spavento, E ogni di piu 1’atroce capo ingorda Solleva. Delle pecore e de’ buoi II frequente muggire ed i belati Ripeton 1’arse spiaggie e le pendici. 760 770 78U 790 - 94 - Alza monti di stragi, e ne’ presepi Accatasta le vittime sformate Da ria tabe, finche sotterra a porle O a nasconderle apprendon nelle fosse. Non piu di cuoi si us6, ne l’acqua e il foeo Fnro a pnrgar qne’ visceri bastanti. Non tondere quei velli dal contagio E da marcia corrosi, ne gl’infetti Lini toccar licea. Che se arrischiato Talun si fosse d’indossar quei drappi, Sudore immondo ed inflammate bolle Seguivangli pel corpo graveoleirte, E, in breve tempo, le conquise membra Si divorava 1’ esecrabil foco. KINE DEL LIBRO TERZO 300 grgomento del libro guarto Argomento del libro quarto e la cura delle api; e primamente l’ agiata loro abitazione, guindi i pa- scoli e le battaglie, in terzo luogo la duplice loro specie, poscia il reggimento loro, seguitamente il tempo piu acconcio a trarre il miele dalle arnie, in sesto luogo le cagioni e i rimedi di lor malattie, poi il come ristorarne la specie perduta; il che gli scusa passaggio al divino episodio di Orfeo e di Euridlce. LIBRO QUARTO Qjs*v& Or dell'aereo mel, celeste dono, 10 canter6. Tu a questa parte ancora Attendi, o Mecenate. Di ben lievi Cose mi appresto in ordine a narrarti Spettaooli ammirandi, e di una intiera Schiatta i duci magnanimi e le pugne, I popoli, le cure e i lor costumi. In tenue affar non tenue gloria, s’io Non m’abbia i N umi avversi, e Finvocato Febo mi arrida. E da cercarsi prima 11 luogo, dove preparare all’api Albergo, che non resti ai venti aperto, Mentre questi non lascian che le pecchie Rechino ai tetti il cibo; ne le greggie E i capri petulanti diano ai flori Assalto, o la giovenca per i campi Girante scuota la ruggiada, e 1’erbe Novelle atterri. DalFostel fecondo Le terga lueeianti della pinta Lucertola stian lungi, e Progne anch’essa, Che macchib il sen colla cruenta mano, E Merope e ogni augello; perche 1’arnie Devastan tutte. e le volanti pecchie, soave agli spietati nidi, 'spande; agglomerate e miste A globi a globi eadono precipiti, Piu dense che dalParia la gragnuola, Ovvero da squassata elce le ghiande. Con ale insigni tra le file i duci, Grandi spirti volgendo in petto angusto, Contrastan la vittoria, finche questa 0 quelle astringa il vinoitor gagliardo A ritirarsi in vergognosa fuga. Pur tali sdegni e guerreggiar cotanto Repressi acquieteransi di sottlle Polvere al getto. Ma qualora entrambi 1 duci dalla pugna avrai rimossi, Uccidine il peggior, perche delPapi Scempio non faccia, e lascia che il piu degno Nella sgombra magion regni sicuro. Dei re son dno le schiatte; un d’essi d'oro Risplendere vedrai per vivi segni; Questi e cospicuo per insigne aspetto Per biondeggianti squame; turpe 1’altro Per ignavia, traendo la grand’epa Inglorioso, e come due le forme Sono dei re, cosi del volgo i corpi. Sozze l’une appariscono, simili A pellegrin, che, lunga via percorsa Per alte sabbie, vengane assetato, Dalle riarse fauci polverosi Sputi emettendo; Paltre rilucenti Brillano di fulgor, d’oro vestite E tutte a un modo macchiettate il corpo. E miglior questa prole, di qua il dolce - 103 - Avrai liquido mol, con che il sapore, Di duro bacco molcere potrai. Ma quando incerti volano e per 1’aere Scherzan gli solarni, e, non curando i favi, Lasciano freddo il bugno, tu rattieni L’instabil volgo dallo steril gioco; N6 difficil ti fia, se ai regi 1’ ali Torrai, che alcuna, se ngtanno i duci Volar non tenterh, ne dalle tende Trarre le insegne. Gli orti con 1’olezzo Di crocei flor l’invitino, e le serbi La vigile tutela di Priapo Contro i ladri e gli augei di falce armato. Chi di ci6 e vago, intorno agli alveari Dali’alte vette i pini rechi e il tirno, E le sue man con la fatica induri, Fertili piante figga in terra, e amica Onda le inaffi. Forse, che se giunto Del mio travaglio presso il fin, le vele Non raccogliessi e a dirizzar la prora Non mi affretlassi al lido, anch’io vorrei Dire in qual guisa di prodotti gli orti Orninsi, e come per due volte ogni anno Offra Pesto sue rose, e la cicoria De’ rivi esuli, e d’apio verdeggiante Allegrinsi le sponde, e serppggiando 11 cocomer tra l’erbe il ventre ingrossi; Ed il narciso canterei, si tardo I petali a spiegar, 1’edra pallente E di acanto i pieghevoli virgulti, E il mirto glorioso, che le apriche Spiagge tant’ama. Peroche aver visto Nella turrita Taranto sovviemmi — Dove il Galeso, d'ombre oscuro, bagna I biondi campi — un veglio di Corico, Che tenea di terreni abbandonati Qualche jugero appena, inopportuno — 104 — Di pecore e di bov; alla pastura, Ne comodo alle viti. Qui tra i dumi Rari ortaggi piantando e intorno magri Papaveri, verbene e bianchi gigli, Dei re uguagliava le richezze in eore, E a tarda notte reduce al suo tetto Fornia la mensa di non compri cibi. Primo cogliea le rose in primavera Ed in Autun le poma, e quando il triste Verno col freddo la corteccia spezza Perflno delle rupi e i ghiaeci oppone De’ fiumi al corso, ei recidea la molle Chioma al giacinto, ed alla tarda estate E alPindugio di zeffiro iraprecava. Percio egli stesso, nate appena 1’api, Pel primo di gran sciame ne abbondava, E raccogliea primiero dai premuti Favi spumoso miele. Tigli e pini Fecondissimi avea, quindi altrettanti Maturi frutti nell’Autunno, quanti Furon quelli, che occulti rivestiro La fertil pianta di novelli flori. Egli pure in belPordine dispose Olmi tardivi, saldi peri e spini, Che dan prugnole e il platano, che d’ombre I bevitor consola. Ma da brevi Confin ristretto e forza che abbandoni E lasci ad altri raccontar tai cose. Or de’ pregi dirotti, onde il medesmo Saturnio a guiderdon l’api arrichiva, Perche de’ Coribanti elle seguendo Gl’inni canori e lo squillar de’ bronzi, Giove nutrir nella dittea spelonca. Sole che i nati attendano in comune, Ognor di albergo e di cittk consorti, Vivono rette da immutabil legge, Patria e Numi conoscono pur sole, Ed al prossimo verno provvidenti Nella state affaticano, e in comune —105 — Ripongon le derrate; che una parte Del vitto ha cura, e dietro stabil patto Si esercita ne’ campi; tra i ripari Pongon altre de’ favi a fondamento Gli umori del narciso e di cortecce La gomma, poi sospendono le cere Tenaci, ed altre la cresciuta prole Allevano, speranza di lor gente; Altre il mele purissimo condensano E di liquido nettare le stanze Empiono; e vi son quelle, a cui le porte Tocca di custodir, sempre a vicenda Indagando nel eiel pioggie e tempeste, O del peso sollevan le arrivate, 0 fattesi in drappel dai lor presepi Scacciano dei pecchion 1’ignobil gregge. Ferve il lavoro, e gih di tirno olezza II mele. E come di domato ferro 1 Ciclopi si affrettano a comporre Le folgori; ne mantici taurini, Ricevono taluni e, scaccian l’aure Altri nelFonda immergono i metalli Stridenti — l'Etna geme delle incudi Al gran peso ed ai colpi, eh’ essi a tempo E a vicenda con braccia poderose Calan dall’alto, le infocate masse Fra le tenaci molli rivoltarido; Non altrimenti, se a modesto impegno Lecito e contrappor maggiore impresa, Innato zelo d’ utili faticbe L’api cecropie al fisso incarco move. Attendono le vecehie ai lor castelli, Ed a formare le ingegnose stanze, Rincasano le giovani gih stanche Al buio della notte, ne’ lor piedi Recando il tirno, qua e colh pasciute Di salci, di corbezzoli, di casia Di pingue tiglio, di vermiglio croco E di giacinti ferruginei, tutte 220 230 240 250 - 106 - In un travaglio unite e in un riposo. Erompon dalle porte in sni mattino, Ne fermansi un istante, e allor che ad esse Pei campi seminate avviso porge Espero di redir dalla pastura, S’indrizzano ai lor tetti a ristorarsi, Odesi un suono allora, e agli spiragli Ed alla porta fremono d’intorno, Poi taccion nella notle e fra le celle Composte, il sonno a dritto le lor merabra Invade. Ne por sovrastanti pioggie Allontanansi mai dai fidi alberghi, Ne al minaceiar degli Euri al cielo i vanni Affidano, ma intorno ai ben difesi Castelli attingon l’acqua e brevi corse Tentano, e spesso fansi di lapilli Zavorra, eome tra 1’onde eommosse Cimbe instabili, e libransi con questi Infra l'aeree nubi. Maraviglia Ti coglierh del peregrin costume, Che han l’api di non far coppia fra loro. In voluttk non vogliono le membra Stemprar, ne danno con fatica i nati. Ma dalle foglie e da soavi erbette Raccolgonli col rostro, e re novello Vanno allevando e pargoletti eroi E ricompongon 1’aule e i cerei regni. Talora pur pegli aspri sassi errando Consuman 1' ali, e perdono contente Sotto al fascio la vita. Di flor tanta Vaghezza e in loro, e di produrre il mele Si grande il vanto! Ma benehe ristretto Confin di tempo accolgale, ne vive Durino piu che sette stati, pure Immortal n'e la slirpe e fortunata La časa b da tant’anni, perchb ad esse Gli avi degli avi e memorar concesso. Non 1’Egitto cosi, ne la gran Libia, Ne il medo Idaspe o le persiane genti 260 271 ) 280 200 — 107 — Onorano i ra lor. La stessa mente E in tutte, finche salvo e il lor Signore, Ma perdutolo, rompono la fede, Sperdono il mele e la testura sciolta Vien per esse de’ favi. Ei sol deli’opre Custode, in lui si affisano e con pieno Ronzio e da tutte circondato e stretto, E talor lo sollevan snlle spalle, Ed i corpi esponendo alla battaglia, Cercan tra le ferite un bel morire. A questi segni e a tali esempi attenti Credetter tnolti, che ne!l’ape infusa Parte vivesse del divin pensiero Ed un etereo soffio: un Dio agitarsi Per la terra, pel mar, quanto si estende, Per Petere inflnito, donde Puomo Le peeore, gli armenti ed altre belve Ed ogni nato ricavb la vita. In lui quindi risolversi ogni eosa E rieder tutto in lui, ne alcuna via Condurre a morte, ma volar lo spirto Tra gli astri ad ottener 1’etereo sedi. Se dalle angliste custodite celle I tesor leverai, dapprima il volto Con acqua ripulisciti ben bene E innanzi a te seguace fumo spargi. I frutti ogni anno abbondafio due volte, E in due stagion raccolgonsi i prodotti, Quando alla Terra mostra il nobil viso La pleiade Taigete, e gli spregiati Fiumi col piede ali'Ocean respinge, E allor cbe quesla del piovoso pešce L’astro fuggendo, mesta dalle sfere Scende nelPinvernal tumido flutto. — Oltremodo si adirano, se ofFese, Inflggon esse velenosi dardi, Ed il pungolo ascondon tra le vene, Entro la piaga 1’anima versando. Se all’avvenir tu poi rivolto il guardo —108 — Temi per esse il verno, e gli avviliti Spiriti Ioro e le fortune infrante Ti movono a pietk, dubiterai Ardere il tirno e togliere le inani Cere? giacche ramam ascosi e blatte Folte ne’ bugni e della luce schive E il fuco, impunemente all’altrui mense Assiso, i favi rodono; o feroce Troppo e nell’arme il calabron non pari Si mesce all’api e la malnata razza Delle tignuole ed a Minerva invisa Aracne, che le tele ivi sospende. Quanto intorno piu sgombre, incomberanno Tanto pivi intense in riparare ali’alta lat tu ra, che cader fea la lor gente, Ed eccole di nuovo empir gli alberghi E le celle recingere di flori. Se colte poi dalle vicende stesse, Che 1’uomo affliggon, siano l’api ancora E rio malor le membra ne colpisca, Ci6 scorgere e potrai da certi segni: Subito di color mutano l'egre, Un’orrida magrezza ne deforma L’aspetto, quindi senza vita i corpi Si traggon fuori e onoransi di esequie; Od altre, i pie conserti, se ne stanno Pendenti agli usci, o nell’ ostel rinchiuse Indugiano per farne neghittose, Ovvero pigre pel sofferto algore. ■ S’ode un suon grave, un murmure continuo, Come quando ne’ boschi fremon gli Austri, O mugge il mar pei concitati flutti, O dentro le fornaci furibonda Stride la fiamma. E quivi ti consiglio Ad abbruciare il galbano fragrante, E con forate canne da te stesso Il mel nelFarnie a infonder, le spossate Pecchie invitando al consiieto cibo. Gioverk pur di triturate galle, -109 - Di secche rose mescervi il sapore O di bollito mosto, e grappoli appassiti Di psizia vite aggiungervi e il cecropio Tirno e centaura d’alito piceante. Avvi pure nel prato nn flor, che Amello Nomarono i ooloni; e a ehi il rieerca, Agevole a trovarsi, perche un ampio Cespuglio da un sol troneo egli diffonde, Aureo ha color, ma nelle dense foglie, Onde in giro si veste, della bruna Violetta nelle tinte si eolora, E torto in vaghi nodi spesso adorna De’ Numi Tare, ed aspro n’e il sapore. JNelle brucate valli e tra le rive Del tortiioso Mella dai pastori Vien eolto; le radici bollir fanne In odorosi vini, e ad alimento Pieni canestri sulTentrata ponne. Se a taluno perb manchino a un tratto L’api, ne donde riereirle egli abbia. fe alfin tempo che tutta io gli riveli DelTarcade maestro Tammiranda Scoperta; come di giovenchi uccisi Dal corrotto cruor Tape germogli, E risalendo tesservi la farna 10 voglio intera. Peroche lh dove Gli abitator felici del pelleo Canopo accolgon Tacqua iinpaludata Del soverc-hiante Nilo, e su dipinte Cimbe, che di fagiuol hanno figura, Godon rocarsi alle lor ville intorno; E, ove il fiume i confin de’ faretrati Persi circonda, e scorre per le setle Diverse vie, dai neri Indi partendo A fecondar con limaccioso flutto 11 verdeggiante Egitto, ogni contrada In quest’arte ripon certa salute. Prima scelgono alTuopo angusto sito, E d’embrici ricopron breve tetto 410 -lio- Con saldo muro il ehiudono, ed ai quattro Venti vi aggiungon quattro fori in guisa Ch’entri, obbliqua la luce; allor si cerca Vitel che al second’anno le sue corna Sul fronte inarchi, e a lui, che eon gagliardi Sforzi contrasta, entrambe le narici Stringono e serran nella bocca il fiato; Ed al gioveneo da percosse ucciso, Sotto la pelle aneora integra resta Conquassato ogni viscere nel seno. Cosi tengonlo chiuso, e rami ai fianchi Soppongongli e reeenli casie e tirno. Cib fan tosto che zeffiro incominci A increspar l’onde e a pinger di novello Colore i prati, e innanzi che alle travi La rondinella garrula sospenda Il nido. Gia nelPossa rammollite Bolle tiepido umor, di strana forma Animaletti veggonsi, a cui prima I pie mancano, e poi misti fra loro Stridon con Tali, e sempre piu al sottile Aer si elevan, fino a che qual pioggia, Che dalTestive nubi si riversa, Erompono, ovver pari alle saette Da teso nervo spinte, quando primi Gli agili Parti, impegnano la mischia. Qual Dio, Muse, chi dunque largi a noi Quest’arte, da che lidi penetrava Fra gli uornini 1’ industria peregrina? — II pastore Aristeo dalla peneia Tempe fuggendo, e dal digiun, dal morbo Perdute l'api, corn’e grido, afflitto Al sacro capo delPestremo fiume Stette in gran lagni, ed alla madre sua Cosi parlb: Cirene genitrice, — O tu, che tieni di quest’acque il fondo, E perche inviso generarmi al fato, Se de’ Numi pur dici, che son io L’insigne prole, che ha per padre Apollo? O! dove and6 il tuo amore? E il ciel tu vuoi Cosi ch’io speri? Eeco per te abbandono Fin quell’onor della mortal mia vita, • Che dopo mille prove a stento io colsi Di armenti e biade nella vigil cura. Madre! su dnnque, colla man tu schianta Le floride mie selve, ed alle stalle Nemiehe fiamme arreca, tu le messi Uccidi, abbrueia i bei raecolti, e avventa Contro le vili la mortal bipenne, Se di mie glorie tanto duol ti preše. Ma sotto 1’ alveo del profondo fiume Senti la madre il suono. Intanto a lei Carpian le ninfe di Mileto i velli, Pinti di vivo azzurro; e Drimo e Xanto, Fillodoce e Ligea pei nivei colli Sparse il nitido crine, e Spio e Nesea, Cimddoee e Talia; Cidippe ancora E la bionda Licori, ed era Luna Vergine, 1’altra di Lucina esperta Allor allora ne’ cimenti, Clio E la sorella Beroe, figliuole Ambo dell’Ocekn, pur ambo d’oro, Di colorite pelli ambo precinte. Opi ed Bfire e 1’Asia Deiopea, E alfin, lasciate le sue freccie, anch’essa La veloce Aretusa. In mezgo a quelle Narrb Climene di Vulean le vane Cure, di Marte i dolei inganni e l'arte, E Cao de’ Numi gl’infiniti amori Notava. Mentre a quel racconto intese Esse avvolgean le molli lane al luso Feri di nuovo le materne orecchie Il pianto di Aristeo. Stupiro tutte Ne’ cristallini seggi; ma delFaltre Prima Aretusa, fuor dell’acque il biondo Capo levato a riguardar: Cirene, Da lunge le gridb, sorella, invano — 113 — Non ti atterriva il gran lamento; afflitto fi il tuo pili vivo amor; Aristeo all’onda Del genitor Peneo sta lagrimoso, E fm col nome di crudel ti chiama. — La madre in cor da nnova teina oppressa: Guidalo orsii, lo guida a me, de’ Numi Pu6 la soglia toccar. Disse, e vuol tosto Che dovunque il garzon suoi passi arrechi, L’alto fiume receda. lntorno a lui Piegasi 1’ onda di montagna a guisa, NelPampio sen lo accoglie, e sotto il fiume Lo adduee. Allora le materne stanze Egli ammirando, i molli regni, i laghi Cinti da boschi e le fremente selve Sen gia, e stupito di tant’acque al moto Per i vari sentier tutti vedea Scorrere i fiumi sotto 1’ampia terra. E Fasi e Lico, e il primo loco donde Sboeca 1’alto Enipeo, onde il gran Tebro, DelPAniene le fluenti, Ipani Tra sassi strepitoso ed il Caico E 1’Eridžm, sulla taurina fronte Ambo le corna aurato; ne di questo Piu furibondo pei feraei campi Fiume discende negli azzurri flutti. Come arrivb del talamo alle stanze, Che da un sasso pendeano, e i vani lai Ella intese del figlio; le sorelle Con ordine alle man diero le linfe Ed arrecar di liscio lin tovaglie. Di cibi alcune empir le mense, e colme Vi riposer le coppe; di Panchei Foschi splendeano 1’are. Allor la madre: Prendi, gli disse, del Meonio baeoo Le tazze, e uniti ali’Ocean libiamo. Ed Ella tosto delle eose il padre, L’Oceano, prega e le ninfe a lei suore, 480 500 510 520 - 113 - Che In cento fiumi e in cento boschi han sede. Del nettareo liquor tre volte sparse II sacro foco, e degli altari al sommo Tetto tre volte divampar le fiamme. Rassicurata dal presagio imprese A favellar cosi: V'e nel carpazio 5 Nettunio flutto un indovin, 1’azzurro Proteo, che sovra i pešci, o in cocchio avvinto Ai bipedi cavalli il mar discorre. Di Emazia ai porti or vien e alla paterna Pallene; il veneriam noi ninfe, e anclPesso Nereo antico Ponora, perche tutte Le cose ei sa, che son, che fur, che in breve Denno accader. Cosi pur vuol Nettuno, Di cui gli armenti immani e P atre foche Pasce tra i gorghi. Ma coi lacci, o figlio, , Lo prenderai dapprima, ond'ei de’ mali L’origin dica e alle tue sorti arrida; Che nulla ei gih, se non a forza insegna. Ne il vincerai co’ preghi, tu con duri Modi lo sforza, lo incatena, e infranto Fia cosi alfine ogni suo inganno. lo stessa Quando il sol arda in pien meriggio, e 1'erbe Son sitibonde, e piu soave al gregge Torna il rezzo, del vecchio..ne’ recessi lo ti addurc-6, dov’ egli stanco allora , DalPonde si ritira. Qui assalirlo A te fia lieve, mentre in sonno ei giace. Ma quando stretto fra tue mani e in lacci IPavrai, Cingannera co’ vari aspetti Di varie bel ve in guisa: che di un tratto Cinghial farassi orrendo e atroce tigre, Squamoso drago e dalla fulva chioma Leonessa. Ovvero un acre suon di fiamma Dara, nel torsi ai ceppi, o in tenui linfe Disciolto fuggirk. Ma in tutte guise Quanto piu si tramuti, di piu saldi — 114 - Nodi l’avvinci, o figlio, finch'ei torni Cangiato si, come il vedesti, quando Al sonno, che il vincea, chiusi avea i lumi. — Disse, e di ambrosia una fragranza eterea Sparge, e le membra del figliuolo impregna, Soave un’aura dal composto erine Gli spira, e il corpo un pien vigor gli avviva. V’e un antro immenso d’ineavato monte Nel fianco, dove da gagliardi soffi 5 Spinta e gran onda, che in se ognor si spezza In quel serrato seno, agli atterriti Nocehieri nn giorno ben sicnro asilo. Proteo qui dentro giacesi al riparo Del vasto sasso, e qui alla luce opposto Pon fra latebre il suo garzon la ninfa, Che lunge si ritira in nebbia avvolta. Torrido e ratto Sirio saettava Dal ciel gl'Indi assetati, e avea fornito L’igneo sol mezza via; languiva ogni erba, , E sino al fondo, arse le foci, i fiumi Coeeansi ai rai, che li feriano, quando Proteo dalPonde verso gli antri usati Mosse. DelPampio mar gli umidi flgli Danzandogli d’intorno, il salso umore Spruzzavan lungi. Via pel lido sparse Addormentate si giacean le foche — Qual di una stalla guardian sulPalpe, Quando il Vespro dai paschi al tetto adduce Gli armenti, e il suono de’ belanti agnelli 1 lupi incita; della grotta ei siede Nel mezzo i pešci a noverare. Appena L’alta conquista ad Aristeo si offerse, Neppur lasciando che lo stanco veglio Desse le membra al sonno, con nn alto Grido si spinge, e lui giacente invade Coi ceppi. L’altro immemore giammai DelParti sue, di tutte cose in foggia Incantevol si muta, in liquid'onda, In belva orrenda, in foco. E po_i che scampo Non gli trovar gl’inganni, in se ritorna Vinto, e alla fine in forma d’ uom favella: O tu, il piii audace dei garzon, chi mai Tindusse a entrar nelle mie stanze, e quivi Che cerchi tu? Gli disse, e 1’altro: il vedi, Proteo, tu il vedi, ne ingannarti e dato Ad uom, ma tu di rieercar flnisci. Obbediente a divin cenno io venni Qui ad invoear su mie fortune infrante Lforacol tuo. Cosi parlb, e a tai detti Costretto alfitte 1’indovin, le ardenti Pupille rivolgea con glauco Iume, E, digrignando fieramente, ai fati Sciolse le labbra; Te davver lo sdegno Di qualche Iddio combatte, e di gran colpe Questa e la pena. Orfeo, degno di pianto, Al merto non mai pari un tal castigo T’infligge, fin che non si opponga il fato, Ed e si fier per la rapita sposa. Mentre da te precipite pei fiumi, Presso a movte fuggia la giovinetta, Ella non vide innanzi al pie, tra 1'alta Erba un grand’angue, che tenea la sponda. Le amiche Driadi in coro le lor vette Tosto di grida empiro, e pianser tutte Di Rodopo le cime e deli’ eccelso Pangeo, di Reso la Mavorzia terra, Ifattica Orizia, i Geti e 1’Ebro anch’esso. E a raddolcir sulla incavata cetra L’affannoso amor suo, te nel doserto Lido ei da sol, te, dolce sposa, al primo Nascer del di. te al tramontar cantava. Giunto poi fino alle tenarie foci, Di Averno al limitar profondo e al bosdo, Che buio fa nero spavento, ai Mani Apprensentossi, al re tremendo e a’ cori, Che intenerirsi a prego uman non sanno. -116- Pure dalFimo d’Erebo commosse Moveano al canto suo 1'ombre leggiere E i cieehi spettri. Cosi a mille in selva 640 Riparano gli augei, se li discaccia Dal monte il Vespro o 1’invernal procella. Sposi, matrone, inanimate forme Di magnanimi eroi, donzelle intatte, E pargoli e garzon dinanzi ai padri Sul rogo posti, cui circonda il nero Fango e la canna di Cocito orrenda, Il pigro stagno, 1’ intrattabil’ onda, E cui lo Stige in nove giri avvince. Stupir fin anco le magion di Lete, 65( Il Tartaro piu fondo, e di cerulei Angui le Furie irte le chiome; aperte Senza respir le sue tre boeche tenne Cerbero, e in giro si fermb col vento La ruota d'Iss'ion. Gia ritornando Ei s’era tolto ad ogni rischio, e seco La ridonata Euridice all’eccelse Aure salendo, lo seguia (che volle Proserpina cosi) quando improvviso Furor ben degno di perdon, se noto 66 | Lh fosse il perdonar, colse 1’incauto Amante. Ivi ristette, e al di gik presso, Immemore, ed ahi! vinto dalFamore A veder la sua Euridice si volse. Qui ogni sforzo peria, qui delFimmite Sire fu il patto infranto, e ben tre volte Si udi un fragor nella infernal palude. — Ella grido: qual mai furor qual mai Teco or perde me misera? di nuovo Ecco mi appella il crudo fato indietro, 67 E opprime il sonno i desiosi lumi. Vivi tu almen, che trascinata in densa Notte son io, mentre a te invan protendo, Ahi! non piu tua, le palme. Disse e a un tratto Come fumo commisto alle sottili - 117 - Attre fuggiva per diversa via, Ne vide lui, che stringea l’ombre vuote E a lungo favellarle ancor volea — Di ripassar 1’opposto lago allora Non gli permise il guardiian dell’Orco. E alfin, poiche gli s’invol6 due volte La sposa, dove andar? Qual pianto i Mani O quali preči moveran gli Dei? Ma fredda omai sovra la stigia barca Ella sen giva. Per ben sette interi Mesi nel sen di rupe aerea, in riva Al deserto Strimon narran cb’ ei pianse; E i časi aprendo ali’insensibil sasso Placb le tigri e a se traea col canto Le querce ancor. Cosi dogliosa alTombra Di nn pioppo si lamenta Filomena De’ persi figli, cui dal nido implumi Orado arator, che li scopria, sottrasse; Geme la notte, e sopra un ramo assisa Spande flebili grida, e i luoghi intorno Tutti riempie di toccanti lai. A Venere non piu, ne ad Imeneo L’alma ei piegb, ma gl’iperborei ghiacci E del Tanai le nevi ed i terreni, Vedovi mai delle rifee pruige, Scorrea da sol, piangendo la ritolta Euridice e del Dio l’inutil dono. Ma di Tracia le femmine spregiate Cosi, per lunga via disseminaro 11 giovinetto, che ne’ sacri riti Sbranar fra le notturne orgie baccanti, E mentre pur 1’ Eagrio farne accolto Tra i gorghi il capo rivolgea spiccato Dal niveo collo, quella fredda lingua, La voce stessa: ahi misera Euridice! Gridb co’ spirti fuggitivi, e il farne Lungo le sponde, ripetea: Euridice. Come Proteo fini nel mar profondo — 118 - Di uno slancio s’immerse, e nel cammino Sovra il capo svolgea l’onda spumosa. Piu non tacque Cirene, e pronta a lui, Ch‘e trepido, favella: O figlio, or puoi Le tetre cure discacciar dalPalma. Questa e de’ mali ogni cagion; le ninfe, Negli alti monti use a danzar con lei, Di qua l’api uccidean. Tu doni porgi Suppliee a lor, pace chiedendo, e onora Le elementi Napee, che largiranno Merce a’ tuoi voti e placheran gli sdegni. Ma pria dirotti di pregarle il modo E 1’ordine qual sia. Quattro tu scegli Superbi tori di fiorente aspetto, Che pasoi del Lieeo ne’ verdi gioghi, Ed altrettante dalTintatto collo Giovenehe. Poscia quattro altar dapresso Gli alti delubri della Dea tu adergi, E versa dalle gole il cruor sacro, E nel frondoso boseo i corpi stessi Laseia de’ bovi. Poi come i novelli Albori avviseran la nona aurora, Ad Orfeo co’ papaveri di Lete Rendi l’esequie; con giovenca uecisa Iiuridice plačata onorerai, Ed immolata nera agnella, il bosco Riedi a veder. Ne indugia ei piu, i precetti Adempie tosto della madre, ai templi Viene ed inalza i comandati altari; Adduce quattro di superbo aspetto Superbi tori, e dalTintatto collo Quattro giovenehe. Alfin, come la nona Aurora fe’ spuntar gli albori suoi, Resi ad Orfeo gli onor, tornossi al bosco. Quivi, a dirsi mirabile, improvviso Portento appar! de' buoi per tutto il ventre Strider l’api ne’ visceri disciolti, Dal seno aperto erompere, levarsi 720 730 740 750 — 119 — DMmmensa mibe a guisa, e sulla cima Insiem volar d’arbore eccelsa, e tutte Pender, com’uva, dai piegati rami. De’ terreni, de’ greggi e delle piante Questo io cantava, menlre all’alto Eufrate II gran Cesare fulmina tra Parmi, E le sue leggi vincitor dispensa Per comun voto, aprendosi ai Celesti La via. Me allor Partenope beata, D’inerte pace fra gli studi ehiaro, Me Virgilio nutria, che da vaghezza Mosso a trattar la pastorale avena, O Titiro, te alPombra d’ampio faggio Nella mia balda gioventu cantai. 760 FINE DEL LIBRO (JUARTO ED ULTIMO DELLA GEORGICA. AVVERTENZA II verso 655 invece ohe; E liquefatti sassi ? si legga: E liquefalti sassi! 1’er isbaglio di copiatura dopo il verso 659 del primo libro: Tuono, e nel seno dell'oscura notte fu oraesso il seguente verso: Terribilmente pallidi aggirarsi Spettri fur visti .... 'v > . ■ <•