as r LETNIK 7 ŠTEVILKA 2 LETO 2019 P On LO STUDIA UNIVERSITATIS HEREDITATI Znanstvena revija za raziskave in teorijo kulturne dediščine Letnik 7, številka 2, 2019 Glavni in odgovorni urednik dr. Gregor Pobežin (Fakulteta za humanistične študije Univerze na Primorskem, Koper) Urednica številke dr. Jadranka Cergol (Fakulteta za humanistične študije Univerze na Primorskem, Koper) Tehnična ureditev revije, oblikovanje in prelom dr. Jonatan Vinkler (Fakulteta za humanistične študije Univerze na Primorskem, Koper) Uredniški odbor dr. Vesna Bikič (Arheološki institut Beograd, SANU), dr. Jadranka Cergol (Fakulteta za humanistične študije Univerze na Primorskem, Koper), dr. Zdravka Hincak (Filozofski fakultet, Sveučilište u Zagrebu), dr. Matej Hriberšek (Filozofska fakulteta, Univerza v Ljubljani), dr. Katja Hrobat Virloget (Fakulteta za humanistične študije Univerze na Primorskem, Koper), dr. Irena Lazar (Fakulteta za humanistične študije Univerze na Primorskem, Koper), dr. Zrinka Mileusnič (Fakulteta za humanistične študije Univerze na Primorskem, Koper), dr. Tea Perinčič (Pomorski i povijesni muzej Hrvatskog primorja Rijeka), dr. Maša Sakara Sučevič (Pokrajinski muzej, Koper), dr. Alenka Tomaž (Fakulteta za humanistične študije Univerze na Primorskem, Koper), dr. Tomislav Vignjevič (Fakulteta za humanistične študije Univerze na Primorskem, Koper), dr. Jonatan Vinkler (Fakulteta za humanistične študije Univerze na Primorskem, Koper), dr. Paola Visentini (Museo Friulano di Storia Naturale, Udine) Izdajatelj: Univerza na Primorskem - Založba Univerze na Primorskem (za Fakulteto za humanistične študije Univerze na Primorskem) © 2019 Založba Univerze na Primorskem Zanjo: prof. dr. Klavdija Kutnar, rektorica Titov trg 4 SI-6000 Koper ISSN 2350-5443 DOI: https://doi.org/i0.26493/2350-54437(2) studia universitatis hereditati LETNIK 7 ŠTEVILKA 2 LETO 2019 C/} e QJ Vsebina/Contents N ElisDeghenghi Olujic 9 Un capodistriano illustre: Bruno Maier, cultore e custode del patrimonio letterario triestino e istriano A Giovanna Scianatico 23 Inchiostro istriano Lara Sorgo 33 Indentità nazionale e immagini dell'"altro" nella narrativa di Pier Antonio Quarantotti Gambini Paolo Puppa 45 Plurilinguismo tra adattamenti, fraintendimenti, parodie, da Ruzante a Tarantino, nella scena italiana Alma Hafisi 57 La letteratura migrante come diario Ana Bukvic 69 L'insurrezione erzegovese. La Slavia - Il mondo di Bonaventura Vidovich tra letteratura, mitologia e storia e QJ Un capodistriano illustre: Bruno Maier, cultore e custode del patrimonio letterario triestino e istriano Elis Deghenghi Olujic UniversitaJuraj Dobrila di Pola, Facolta di Studi Interdisciplinari, Italiani e Culturali Članek obravnava življenje in delo plodnega esejista in kritika, čuvaja literarne tradicije Trsta in Istre, Koprčana Bruna Maierja (Koper 1922-Trst 2001). Bil je prvi literarni kritik, ki se je zanimal za literarno produkcijo italijanske narodne skupnosti na Hrvaškem in v Sloveniji. Prispevek s posebnim poudarkom osvetljuje dihotomijo Maierjevega raziskovanja: medtem ko je Trst v njegovi literarni viziji zelo plodno, bogato in neusahljivo mesto, je Istra mesto njegovega čustvenega izvora, ki ostaja zvesta komponenta duše in inteligence koprskega učenjaka. Ključne besede: Bruno Maier, Koper, Istra, esejist, literarni kritik, romanopisec The article deals with an illustrious Capodistrian: Bruno Maier (Koper 1922-Trieste 2001), a fruitful essayist and critic, guardian of the literary heritage of Trieste and Istria. He was one of the first critics to have turned his attention to the literary production of the Italian National Community of Croatia and Slovenia. In particular, the intervention highlights that, while in the literary vision of Maier the Trieste dimension is a very consistent, rich and inexhaustible reality, the true, passionate origin of this vision is in Istria, which remains an indefectible component of the soul and intelligence ofthe Capodistrian scholar. Key words: Bruno Maier, Koper, Istria, essayist, literary critic, novelist Io sono - più esattamente sono stato - un professore universitario. Quasi tutta la mia vita si è svolta all'Università. Qui ho studia-to e qui, per molti anni, ho insegnato. Ho percorso intera la carriera accademica. E tut-tavia non posso definirmi un accademico. In apparenza, forse si: ho tenuto regolarmente i miei corsi di lezione; ho partecipato a nume-rosi convegni di studio; e ho scritto molti li-bri di saggistica e di critica letteraria. Ma sotto queste apparenze, che pur sono reali e connotano, anche di fronte al mondo esterno, un lungo itinerario biografico, è esistita ed esiste in me una vita segreta, altra, forse "aliena", inipotizzabile e, talora, quasi incomprensibile. Non sono stato, e non sono, un "uomo contro": anzi ho accettato il sistema sociale e culturale in cui mi sono in-serito; e non ho fatto nulla per modificarlo. Sono e sono stato, invece, un "uomo fuori". Posso aver dato l'impressione di adeguarmi alla norma, ma in realtà sono stato, per voca-zione, un indipendente, un uomo libero, un trasgressore (Maier 2013, 4). Il passo qui riportato è tratto dalla lettera di scuse inviata agli organizzatori della presen-tazione a Benevento del romanzo L'assente, cui Bruno Maier, l'autore della lettera, non poté partecipare per impegni presi in precedenza. La lettera è inserita in apertura del numero 21 dei Quaderni dell'Archivio e Centro di Documen-tazione della Cultura Regionale di Trieste. Il Quaderno, intitolato Bruno Maier e i "composito- DOI: HTTPS://DOI.ORG/l0.2é493/2350-5443.7(2)9-22 o ri di vita". Un critico e i suoi autori, prefato da El-vio Guagnini, contiene i contributi presentati ad un incontro di studio che ha accompagnato l'a-pertura della mostra documentaria dedicata allo studioso e a sua moglie, Enza Giammancheri, allestita dall'Archivio dal 12 dicembre del 2013 al 31 gennaio del 2014 presso la Sala delle Esposizio-ni della Biblioteca Statale "Stelio Crise" di Trieste. La mostra e l'incontro sono stati un dovero-so omaggio all'uomo e allo studioso per il quale la letteratura era ragione di vita quotidiana. Ho incontrato Bruno Maier oltre una trentina d'anni fa. Il nostro incontro venne concordato dalla professoressa emerita e scrittrice Nelida Milani Kruljac. Allora ero una giovane assistente di letteratura italiana alle prime armi presso la neo fondata Italianistica dell'Università di Pola, e mai avrei osato contattare personalmente l'illustre accademico e studioso capodistriano che consideravo un mito per la sua straordinaria cultura ed erudizione, che avevo avuto modo di verificare con la lettura dei suoi scritti e assistendo alle conferenze che teneva spesso presso la Co-munità di Pola con le quali, spaziando su vari temi della letteratura italiana, si presentava nelle vesti di cordiale, meticoloso e affabile conversa-tore, di umanista e autentica guida culturale. Di-fatti, dopo il 1964, quando i rapporti tra Roma e Belgrado vennero migliorando e di conseguen-za miglioro anche la situazione delle comuni-tà italiane in Istria, a Fiume e in Dalmazia, egli fu tra i primi ad attraversare il confine per tene-re conferenze e partecipare a iniziative cultura-li promosse dall'Università Popolare di Trieste, mai denotando atteggiamenti avversi ai "rima-sti", bensi vedendo in essi il simbolo della seco-lare presenza della civiltà italiana in quelle re-gioni, pronto anche ad adoperarsi, con parole di civiltà e saggezza, per meglio conoscere l'Altro e favorire contatti tra entità culturali e linguisti-che diverse. Rimasi piacevolmente stupita per la facilità con cui si rese subito disponibile. Mi ri-cevette a casa, nel suo studio, e mi dedico il suo tempo con la generosità, l'umiltà, l'affabilità, la cordialità e signorilità che gli erano connaturate: in quell'occasione, come in incontri successivi, il suo atteggiamento non fu accademico o professorale, tanto meno supponente. Il suo era piutto-sto l'atteggiamento dell'intellettuale umanista, di un uomo di grande apertura umana che considera sia suo compito condividere le proprie cono-scenze, la vastità del pensiero, l'esperienza di ri-cerca e di studio con gli altri, specialmente con i giovani. La mole di informazioni che mi trasmi-se, i suggerimenti e i consigli che mi diede durante quell'incontro sono stati determinanti per la decisione che presi, di dedicarmi in seguito alla comprensione e alla divulgazione di un'esperien-za letteraria particolare e unica, quella degli Ita-liani dell'Istria e di Fiume. A questa produzio-ne letteraria Maier aveva dedicato tante energie in momenti cruciali per il destino della Comu-nità Nazionale Italiana, quando si dava per scon-tata l'estinzione di ogni valenza letteraria per la condizione politica e linguistica con cui la regio-ne istro-quarnerina si confrontava nell'imme--< diato secondo dopoguerra. Nell'Istro-quarneri-no la tradizione italiana e il modello della lingua letteraria /.../ si presentavano negli anni Sessanta, Set-tanta e in parte anche Ottanta dello scorso secolo come le uniche basi unificanti capa-ci di offrire un sostegno alla coscienza nazionale. /.../ Bruno Maier colse al volo quelle atmosfere e, grazie a lui, quella stagione conserva intatti i suoi colori e le sue voci (Milani, Dobran 2010, 614). Nato a Capodistria ma riparato esule a Trieste nel 1948, Bruno Maier (Capodistria, 1922-Trieste, 2001) è sempre rimasto profonda-mente legato alle proprie radici: con Trieste, sua città d'adozione, l'Istria è stata la cifra della sua vita. La scelta di abbandonare Capodistria non fu facile né senza conseguenze, anche se per motivi di studio e di lavoro si era già allontanato più volte dalla città natale per periodi più o meno lunghi. Ma l'esodo a Trieste nel 1948 è stato un distacco definitivo e doloroso dalla città natia, anche se Maier lo ha vissuto in modo pacato, in armonia con la sua natura conciliante, come si V î-H QJ tí evince dalla lettura delle pagine del suo romanzo, L'assente. F l il clima instaurato dai nuovi dominatori nella mia cittadina a indurmi a lasciarla, sen-za rimpianti e senza nostalgie. Era un clima sempre più pesante, irrespirabile, che venivo chiaramente avvertendo. /.../ E percio scel-si l'esodo, anche se questo terribile termine biblico mi sembra improprio, troppo aulico, solenne, enfatico. Semplicemente, un giorno mi recai a Trieste e non feci più ritor-no nella mia città. Tutto qui. Avevo tagliato i ponti con un luogo che non sentivo più mio: e mi venivo inserendo in una realtà nuova e appagante, che già da alcuni anni si identi-ficava con il mondo universitario triestino. In quel mondo anche la solitudine era bella, gratificante. Là decisi di rimanere, e rima-si (Maier 1994, 222-223). Infatti, corre l'obbligo di ricordare che Maier e stato per molti anni professore ordinario di Lingua e Letteratura italiana presso l'Universi-tá del capoluogo giuliano, e presidente dell'Uni-versitá Popolare di Trieste dal 1983 al 1998. Ma i suoi primi studi Maier li aveva compiuti nella cittá natale dove, prima di intraprendere gli studi universitari prima a Pisa e poi a Trieste, ave-va frequentato il liceo "Carlo Combi". Nella sua lunga attivitá di critico letterario e di studioso, capace di rivisitare con spunti innovativi ed ec-cellenti anche i propri vecchi convincimenti in quanto rispettoso delle ricerche sopravvenute, per cui la sua bibliografía mostra spesso ritorni e riprese che in realtá sono riscritture e revisioni, si e occupato di numerosi autori, periodi, aspetti, problemi della storia letteraria italiana, da Dante a Croce, da Boccaccio ad Alfíeri, da Lorenzo il Magnifico a Tasso, da Poliziano a Della Casa, da Castiglione a Cellini, a Cecco Angiolieri. Si puo affermare senz'ombra di dubbio che sono pochi i critici e i teorici della letteratura italiana in grado di competere con le sue ramifícate conoscen-ze e doti di sottile esegeta. Forse ultimo critico letterario erede di una "triestinitá" da circolo let- terario risalente all'inizio del Novecento, nelle sue opere Maier ha raccontato cio che era rima-sto di quelle tensioni letterarie che avevano nu-trito la formazione di Svevo e di Joyce, e che ave-vano fatto di Trieste una delle culle del romanzo del Novecento, un centro di cultura tra i mag-giori d'Italia nel corso dello scorso secolo, aper-to ad orizzonti mitteleuropei. Frutto di questo lavoro sono i volumi: Profilo della critica su Italo Svevo (1892-1951) (1952); Invito alla letteratura triestina del Novecento (1958); Introduzione a Italo Svevo (1959); La letteratura triestina del Novecento (1969); Iconografia sveviana. Scritti, parole e immagini della vita privata di Italo Svevo (in collaborazione con la fíglia dello scrittore, Leti-zia Svevo Fonda Savio, 1981); Dimensione Trieste. Nuovi saggi sulla letteratura triestina (1987); Il gioco dell'alfabeto. Altrisaggi triestini (1990). Il suo ultimo libro, Compositori di vita (Hammerle Editori, Trieste) e uscito postumo nel 2002. Questo elenco e solo parziale, ma sufficiente per capire, giá solo dai titoli, lo scopo perseguito da Maier in tanta parte del suo lavoro di studioso: rendere esplicito il ruolo, la misura, si potrebbe dire la cifra, di una cittá in quanto cittá della poesia e della letteratura, una delle numerose cittá letterarie dell'Italia e del mondo. Se oggi esiste il concetto stesso di triestinitá, se oggi Trieste e considerata cittá culturale a livello europeo, lo si deve anche a Maier, che con i suoi studi sugli au-tori triestini ha contribuito a portare Trieste ai vertici dell'attenzione nazionale e internaziona-le. Per un elenco completo delle opere e dei sag-gi pubblicati da Maier si rimanda alla Bibliografia di Bruno Maier, che in 140 pagine raccoglie l'elenco di tutti gli scritti del critico letterario, scrittore e docente capodistriano, da molti con-siderato il massimo conoscitore dell'opera e della figura di Italo Svevo, che egli ha illuminato con raffinati e originali strumenti interpretativi. La Bibliografia, curata da Diego Redivo e pubbli-cata nel 2003 dal Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste, si avvale della prefazione di Elvio Guagnini. Per un'esaustiva informazione sulle opere pubblicate dallo studioso si consiglia ancora la consultazione del volume Ricordo diBru- H no Maier a cura di Enza Giammancheri e Pietro Zovatto (Trieste, Edizioni Parnaso, 2003), e del-la bibliografía Bruno Maier svevista, raccolta da Barbara Sturmar per i Quaderni di studi svevia-ni. Oltre al suo ruolo accademico, Maier ha co-perto importanti incarichi in prestigiose accade-mie e istituzioni: e stato membro dell'accademia dell'Arcadia, vicepresidente del Circolo del-la Cultura e delle Arti di Trieste e della Societa di Minerva, membro della redazione dell'Arche-ografo Triestino, condirettore con Giorgio Baroni della Rivista di letteratura italiana, animatore della rivista Pagine Istriane, collaboratore de La Battana, di Metodi e Ricerche, e di molte altre ri-viste e giornali. Nel 2002 la Rivista di letteratura italiana (n. 3 di quell'annata) ha dedicato un'am-pia parte allo studioso intitolata Maieriana (pp. 11-90). Vi trovano posto, tra gli altri, gli interven-ti di Giorgio Baroni, Cristina Benussi, Manlio Cecovini, Elio Guagnini e Riccardo Scrivano. Nel giugno del 2002 un convegno organizzato dal Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste in collaborazione con l'Universita e altri sodali-zi culturali di cui Maier aveva fatto parte, ha fat-to il punto sui numerosi aspetti del suo lavoro, e sul ruolo di testimone di un ampio capitolo del-la cultura giuliana, italiana e istriana. Gli atti del Convegno "Dal centro al cerchio, e si dal cerchio al centro". Per Bruno Maier, sono stati pubblica-ti dal Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste nel 2003. I contributi di molti studiosi, nonché amici e collaboratori di Maier presenti nel volume, sono una testimonianza imprescindibile del-la vastita e della complessita del laboratorio dello studioso capodistriano. In questa occasione non posso che limitar-mi ad una breve testimonianza su Bruno Maier, che spero illumini almeno due aspetti del-la sua poliedrica attivita: il contributo dato alla 1 II titolo del Convegno é tratto dal primo verso del canto XIV del Paradiso. San Tommaso ha appena finito di parlare. A Dante viene in mente un particolare fenomeno fisico. Quando l'acqua é percos-sa dall'esterno del vaso o dal suo interno, i suoi cerchi, le sue ondu-lazioni, si propagano dal centro al cerchio e cosi dal cerchio al centro. Maier amava questo verso, e lo citava spesso spiegando il pro-prio metodo critico. Suggeriva che molti sono i modi per giungere alla vetta, cioé al nucleo centrale, inteso nel suo rapporto con il particolare. Dal centro alla periferia e viceversa. conoscenza e alla divulgazione della letteratura prodotta in lingua italiana e nei dialetti loca-li nell'Istro-quarnerino dalla fine della seconda guerra mondiale ai giorni nostri. Il secondo aspetto dell'attività di Maier su cui intendo sof-fermarmi è quello di narratore, forse il meno co-nosciuto. Per quanto concerne il primo aspetto, corre l'obbligo di evidenziare come in apporti saggistici e strumenti di studio egli abbia recuperara le caratteristiche e i contenuti più auten-tici di una produzione letteraria e di un'identità regionale ed etnica inserita entro un preciso quadro storico e antropologico. Difatti, con rigorosa e meticolosa analisi critica ha colto i singoli momenti costitutivi della letteratura istro-quarneri-na, ne ha indicato le peculiarità, le potenzialità ed anche i limiti. Dalla sua autorevole posizione di cattedratico e critico letterario Maier è stato attento osservatore del microcosmo culturale e letterario istriano, contribuendo a mantenere l'i-dentità italiana nella sua terra d'origine, rimasta un luogo fondamentale dell'anima. Infatti, nella sua lunga e ricca attività di studioso, con minu-ziosa acribia e la curiosità che gli apparteneva, si è interessato a fondo di molti autori appartenenti alla Comunità Nazionale Italiana. Si è adopera-to con autentica passione per comprendere e divulgare una novità periferica della cultura italiana: si deve principalmente a lui se la letteratura italiana in Istria e a Fiume è rinata e sopravvis-suta, ed è anche per suo merito se oggi è possibi-le discutere della specificità letteraria istro-quar- OJ nerina. V S-l QJ r-i Con attenti e rigorosi contributi critici, Maier e stato in Italia il critico letterario per antonomasia della letteratura italiana avviata e sviluppa-tasi dal secondo dopoguerra in poi nel territorio istro-quarnerino. Considerando la naturale con-tiguita storico-geografica, la prossimita secola-re di tradizioni, il comune rovello di condivise esperienze in cui fecondita di scambi e dram-maticita di confronti si sono continuamente al-ternati, con il suo generoso apporto egli ha con-ferito una nuova misura agli orizzonti culturali della produzione letteraria istro-quarnerina, col-locandola al di fuori delle secche del localismo. Dotato di strumenti di registrazione e di anali-si che hanno affinato la nativa intuizione di un interprete che e insieme artefice, Maier ha sapu-to armoniosamente integrare la specifica sensibi-litá della cultura che lo ha generato alla piu vasta cultura italiana ed europea. Con una critica acu-minata che gli era consustanziale, ma congiunta a quella fraternitá che si esercita dall'interno di un territorio amato e dissodato in grazia di "virtute e canoscenza", consapevole del fatto che sulla sorditá culturale non puo piu basarsi nessuna crescita autenticamente europea, ha saputo co-gliere con lungimiranza le aspirazioni degli au-tori istro-quaarnerini di essere parte integrante del mondo, ha compreso il loro desiderio di dare un senso alle parole avendo la letteratura italiana come punto di riferimento, specialmente in ambito di modelli espressivi e metrici, se non tema-tici. Sorretto da questi intendimenti nel 1967 ha promosso insieme ad Antonio Pellizzer il Concorso d'Arte e di Cultura "Istria Nobilissima", di cui e stato per lunghi anni lo spiritus movens, nonché curatore dei volumi antologici che esco-no con ritmo annuale dal 1968 e pubblicano le opere premiate alla manifestazione. Una mani-festazione che ha stimolato in maniera determinante la creativitá culturale, artistica e letteraria degli Italiani istro-quarnerini. I volumi antologi-ci finora pubblicati costituiscono un corpus con-siderevole e sono la testimonianza piu tangibile della creativitá e dei risultati raggiunti in campo artistico, letterario, culturale e scientifico da-gli Italiani di Croazia e Slovenia. Secondo Maier, 1 volumi "hanno il merito di essere un prezioso serbatoio di testi spesso esemplari collegati con la crescita, il consolidamento e il riconoscimento ufficiale, storico e critico della letteratura e del-la cultura dell'Istria e di Fiume del dopoguerra, specialmente dal 1967 ad oggi" (Maier, B. 1984, 3). Ma a Maier si deve anche l'avvio della collana "Biblioteca Istriana"2, nella quale vari autori 2 II primo volume della collana risale al 1979. Il volume contiene la sil-loge Favalando culcucalFiléipo in stu canton daparadéisu (Conversando con il gabbiano Filippo in ques'angolo di paradiso) di Ligio Zanini, scrit-ta nella variante rovignese dell'istrioto, Tantico dialetto romanzo. Nella Presentazione di Bruno Maier, intitolata Ligio Zanini el'«auten-ticita della vita», egli precisa il percorso che lo ha portato alla scelta di dedicare una collana agli autori dell'Istria e di Fiume. Il suo punto istro-quarnerini hanno avuto modo di pubbli-care la loro produzione lirica o narrativa. Anche con questa iniziativa Maier ha dato visibilità a un corpus altrimenti inesistente divenuto, inve-ce, proprio grazie a lui, ben riconoscibile nell'am-bito della letteratura italiana. Alla letteratura italiana istro-quarneri-na Maier ha dedicato una parte pregnante del-la sua attività saggistica culminata nel 1996 con la pubblicazione dell'opera La letteratura italiana dell'Istria dalle origini alNovecento (Trieste, Istituto Italo Svevo), uno strumento conosciti-vo e critico con il quale ha introdotto la produ-zione letteraria istro-quarnerina nella letteratura italiana. Ma già prima, nel 1993, nel primo volume della corposa Storia della letteratura italiana. Il secondo Novecento (Milano, Guido Miano Editore), nell'ampio saggio intitolato La letteratura italiana del dopoguerra al di qua e al di là del confine orientale, attraverso una pluralità di analisi sintetiche e analitiche, lo studioso aveva delineato il quadro letterario e culturale della storia regionale. Alla letteratura triestina è dedi-cata la prima parte del saggio, quella più corpo-sa, mentre nella seconda parte sottotitolata La letteratura del gruppo etnico italiano dell'Istria e di Fiume, in una breve ma significativa sintesi, Maier descrive la nascita e lo sviluppo della nuo-va letteratura italiana in Istria e a Fiume, quella nata dopo la fine del secondo conflitto mondiale, dopo il passaggio del territorio istro-quarne-rino dall'Italia alla Jugoslavia. Era la prima volta che "in una storia della letteratura italiana edita in Italia venivano puntati i fari anche sugli scrit-tori rimasti fuori dai confini orientali della Re-pubblica Italiana" (Milani, Dobran 2010, 613). In quel saggio Bruno Maier evidenziava un concetto più volte ribadito in seguito anche in altri lavori: la nuova cultura letteraria italiana dell'I-stro-quarnerino ha una sua storia e caratteristi-che ben definite, che devono essere prese in con-siderazione. Inoltre, in quello scritto lo studioso di riferimento è stato il "limpido e penetrante saggio" Restare a Itaca di Alessandro Damiani. In quel saggio, come rileva Maier, Damiani ha definito la poetica "dell 'intellettuale istriano", il quale mira a conciliate la creatività con la realtà sociale e collettiva, e punta soprat-tutto sulla scoperta (o la riscoperta) dell'«autenticità della vita». ribadiva un concetto fondamentale: la produzio-ne letteraria in lingua italiana e nei dialetti loca-li degli autori istro-quarnerini va inserita all'in-terno della tradizione letteraria italiana, d'Italia, come una sua componente naturale. Nell'impossibilitá di riassumere in questo intervento il percorso di un'attivitá, soprattutto intellettuale, che si eleva nel dominio di una dot-trina specialistica, in cui teoria letteraria e ster-minata pratica di testi compongono l'arazzo di una ricerca e di una riflessione creativa che ri-chiederebbero un'analisi piu acuminata ed esau-stiva, nel prosieguo il contributo s'incentra spe-cificamente su La letteratura italiana dell'Istria dalle origini al Novecento. Ma prima di passare all'analisi di un lavoro imprescindibile per il suo significato, che rivela l'ampliarsi, anche metodologico, della problematica dello storico della let-teratura e della cultura, si reputa necessaria una premessa. Ogni discorso incentrato sulle diffe-renze presenti nella tradizione letteraria italiana procede ormai da tempo, in termini metodo-logici, dal concetto di geografia della letteratura, introdotto per la prima volta in Italia da Carlo Dionisotti (1908-1998) in un saggio che e di-ventato un classico della critica letteraria italiana, Geografia e storia della letteratura italiana. Il saggio venne pronunciato nel novembre del 1949 come relazione a un convegno a Bedford, in In-ghilterra, dove lo studioso piemontese si era tra-sferito a conclusione della guerra. Il corposo sag-gio di oltre venti pagine e entrato nel dibattito italiano solo molto tempo dopo, nel 19 67, quan-do Giulio Einaudi riusci a convincere Dionisotti a raccogliere alcuni dei suoi scritti piu importan-ti in un libro che porta il medesimo titolo. Nel saggio Dionisotti si ricollega a uno scritto polemico del 1936 di Benedetto Croce, Recenti con-troversie intorno all'unita della storia d'Italia, nel quale il filosofo napoletano negava che si po-tesse parlare onestamente di una storia italiana prima del Risorgimento, asserendo che sarebbe stato molto corretto parlare di una somma di sto-rie: regionali, municipali, in taluni casi paesane, diverse e talora antitetiche tra loro. Di fatto Cro-ce negava la presenza di una linea unitaria conti- nua negli eventi culturali italiani succedutisi tra il medioevo e l'età moderna, una linea che invece molti insistevano e si sforzavano di riconoscere. Egli sosteneva che all'Italia di una storia potes-se essere sostituita l'Italia dipiù storie, che all'Italia di una cultura dovesse sostituirsi l'Italia delle tante e plurime culture. A sua volta Dioni-sotti evidenziava in maniera esplicita le storture della visione centralistica e unitaria "a tutti i co-sti", e proponeva invece uno studio di vari autori dalla prospettiva che era sempre stata loro, quel-la regionale. L'applicazione del concetto di geografia della letteratura, proposto da Dionisotti e ripreso più recentemente da Alberto Asor Rosa nei volumi della Letteratura italiana da lui cu-rati per l'Einaudi, permette di cogliere meglio la specificità e la diversità di una proposta lettera-ria e culturale, e consente soprattutto di non di-sperdere il patrimonio di straordinaria ricchezza e varietà che la tradizione letteraria italiana puo esibire forse più di ogni altra. Quando nel 1996 Bruno Maier scrisse la Letteratura italiana dell'Istria dalle origini al Novecento prese tutte quelle precauzioni che oggi sono entrate nella deontologia dello storico della letteratura, e in modo più rigoroso dopo i saggi di Carlo Dionisotti. Pur senza nominare espres-samente lo studioso piemontese, dall'imposta-zione metodologica del lavoro è evidente che ^^ Maier tenne conto delle sue istanze. La sua at-tenzione nei confronti dei suggerimenti di Dio-nisotti in merito alla geografia della letteratura è, difatti, una delle osservazioni che gli vennero fatte al momento della pubblicazione dell'o-pera. D'altro canto, nella Prefazione, lo studioso triestino di origini capodistriane dichiara che l'opera intende essere "una trattazione rigorosamente storica, dove i vari autori e le loro opere sono inseriti nei periodi e nei movimenti cultu-rali cui appartengono, e sullo sfondo di un più vasto contesto, che supera gli ambiti naziona-li e i ben definiti confini politici" (Maier 1996, 8), e aggiunge che "accanto alle ragioni della sto-ria sono state prese in considerazione quelle della geografia, secondo un canone teorico oggi largamente, fruttuosamente utilizzato nella storio- grafia letteraria (e non soltanto letteraria)" (Maier 1996, 8). Nella Prefazione Maier delimita il campo della ricerca e stabilisce i limiti cronologi-ci in cui essa si colloca quando dichiara: "ho preso in considerazione le vicende letterarie e cultu-rali della regione dal secolo XIII alla fine della seconda guerra mondiale; e quelle successive al 1945 che, come è noto, si sono svolte, per opera degli intellettuali esuli, a Trieste e in altre città italiane; e, per iniziativa dei «rimasti» (e di for-ze nuove, anche provenienti dall'Italia), nel territorio istro-quarnerino passato alla Jugoslavia e diviso, a partire dal 1991, in una zona slovena e in una zona croata" (Maier 1996, 6). Richiaman-dosi al concetto di geografia letteraria o di spa-zio letterario, Maier considera appartenenti alla letteratura istriana sia gli autori nativi e attivi in Istria (i cosiddetti "rimasti", ovvero coloro che dopo l'esodo massiccio degli Italiani dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, svoltosi in massima parte a conclusione del secondo conflitto mondiale, scelsero di rimanere nei luoghi della loro secolare presenza), sia quelli che, nati in Istria e a Fiume, sono andati a vivere altrove (gli esuli), sia infine coloro che, non nati in territorio istriano o nella città quarnerina, sono venuti a stabilir-visi nel secondo dopoguerra, e con la loro attivi-tà hanno contribuito efficacemente allo sviluppo della letteratura e della cultura regionale. Impostando la storia letteraria e culturale dell'Istria e di Fiume su queste posizioni Maier, come spiega nella Prefazione, si distanzia dalla Storia lettera-ria di Trieste e dell'Istria (1924) di Baccio Ziliot-to che, a suo avviso, non aveva posto adeguata-mente in evidenza le diversità tra la letteratura triestina e quella istriana. La letteratura istriana, infatti, spiega Maier, si situa in un territorio che è stato dominato per secoli dalla Repubblica di Venezia, mentre la letteratura triestina si afferma in una città gravitante nell'orbita dell'Impe-ro asburgico, e poi appartenente, con l'Istria ex veneta, all'Austria fino al 1918, allorché Trieste e l'Istria furono annesse all'Italia. Ma Maier prende le distanze anche da Ernesto Sestan, autore di Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale (1947). Nell'opera Sestan sostiene che a una letteratura istriana rigorosamente intesa ap-partengono soltanto gli autori attivi nel corso dei secoli in Istria; non, invece, quelli espatriati, che pure hanno contribuito all'arricchimento culturale di altre regioni italiane o di Stati esteri. Maier non accoglie questa tesi che, anche se coeren-te, gli appare tuttavia troppo drastica e radicale e propone, invece, come precisa nella Prefazione, un criterio piu duttile e aperto. Per quanto riguarda l'inquadramento sto-rico degli avvenimenti culturali, la trattazione di Maier fa riferimento alla monografía Istria. Storia di una regione di frontiera, redatta da vari studiosi e curata da Fulvio Salimbeni. Nella Prefazione Maier spiega il motivo della scelta, dettata dal fatto che l'opera e "contraddistinta da un encomiabile impegno di oggettivita, ovvero dall'intento di superare certe posizioni prece-denti [di storici italiani, croati e sloveni], spesso insoddisfacenti o deliberatamente faziose, perché infíciate da ideologie nazionalistiche, da di-scutibili propositi attualizzanti, da deformazioni arbitrarie" (Maier 1996, 7). Il manuale curato da Salimbeni, che dedica quasi la meta delle cento-venti pagine di cui e costituito alla storia del No-vecento e alle vicende che vanno dal 1945 al 1995, propone invece una visione moderna, naziona-le ed europea della storia e della cultura dell'Istria in un'ottica rivolta al futuro. Una visione che combacia con le tesi e le posizioni assun-te da Maier, che nel suo lavoro ha evitato "ogni provincialismo, cioe ogni concezione angusta e ristretta di quella letteratura [della letteratura istriana], spesso ritenuta erroneamente un corpus separatum privo di legami con una realta culturale piu ampia, nazionale ed europea" (Maier 1996, 8), e ha inoltre rinunciato a "ogni propen-sione apologetica, pur se dettata dall'amore per la piccola patria o suggerita, comunque da mo-tivazioni sentimentali, patetiche, nostalgiche" (Maier 1996, 8). La lezione piu alta dello studioso si desume dal passo che di seguito riportiamo, nel quale egli riassume con chiarezza aspettative e speranze comuni agli uomini che abitano terri-tori di frontiera che, con il loro carico di storia, spesso travagliata, sembrano propizi alla lettera- VC tura, come aveva gia notato Paolo Milano recen-sendo Materada, il romanzo d'esordio di Fulvio Tomizza. Scrive Maier: Parecchi studiosi, attivi specialmente nell'e-poca dell'irredentismo, avevano concepito la storia politica, civile, letteraria, artistica, ecc... della nostra regione come una forma di lotta o di battaglia nazionale, come la difesa di una trincea, come un baluardo da erige-re contro le minacce e le aggressioni stranie-re. Sarebbe sommamente auspicabile che a queste lotte, a queste trincee, a questi baluar-di, che non hanno piu ragione d'essere, si po-tesse finalmente rinunciare; e che studiosi di diversa nazionalita e di diversi orientamen-ti ideologici e metodici si impegnassero in un dialogo amichevole, sereno, costruttivo, fondato su una leale, feconda collaborazio-ne e lontano dai rancori, dalle ostilita e dalle polemiche d'un tempo. La sola via oggi pra-ticabile mi pare sia questa; e va percorsa, co-erentemente, in tutta la sua ampiezza (Maier 1996, 7-8). Anche per l'auspicio espresso in questo pas-so, che ben riassume lo spirito cordiale e benevolo con il quale Maier affrontava il proprio lavoro di studioso e di fattivo operatore nel campo della cultura, La letteratura italiana dell 'Istria dalle origini alNovecento resta un prezioso strumento conoscitivo e critico, una sorta di suo testamento, un libro che ha alle spalle un lungo studio e un grande amore su temi, opere e autori che Maier ha frequentato a lungo e che ha commenta-to e spiegato criticamente in saggi e libri con quell'onesta intellettuale che e stata sempre il segno preminente della sua personalita di studioso. Nell'opera, nella parte dedicata al XX secolo, Maier ha esaminato la produzione letteraria de-gli italiani dell'Istria e di Fiume. Ma lo studioso ha seguito le fasi di sviluppo della letteratura italiana sviluppatasi in Istria e a Fiume dal 1945 in poi, che ha definito istro-quarnerina o istro-fiu-mana, anche in attenti e rigorosi contributi cri-tici, costanti nel tempo, privi di mitizzazioni o di svalutazioni, particolarmente attento all'in- terfaccia fra opera e storia. Ha fissato le origini di questa letteratura negli anni della seconda guerra mondiale, quando tra le file partigiane fiori una vasta produzione di giornali clandestini che riportavano numerosi scritti di carattere let-terario. Questa letteratura, il cui valore aggiun-to risiede soprattutto nel fatto di essere espressio-ne di un ambiente particolare dove storicamente si sono incontrate e spesso intrecciate le maggio-ri culture e civiltà europee, è "dotata di caratteri propri e ben riconoscibili" (Maier 1996, 8), rile-va Maier. Pur se non priva di contatti e di rap-porti con altre letterature, essa appartiene "di di-ritto alla letteratura nazionale" (Maier 1996, 8). Lo spazio istro-quarnerino si configura pertan-to come una nuova provincia letteraria italiana, uno spazio nel quale, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, in una situazione storica radicalmente cambiata, è nata e si è sviluppata una produzione letteraria in lingua italiana e nei dia-letti locali (l'istrioto o istroromanzo e l'istrove-neto), che rappresenta il risultato originale della creatività e della vitalità intellettuale dell'unica minoranza italiana autoctona nel mondo. Il lavoro di una vita di Bruno Maier sta tut-to nella sua attività di critico, storico letterario, accademico, giornalista e testimone di un ampio capitolo della storia e della cultura giuliana, italiana e istriana. Ma c'è un altro aspetto della sua attività meno conosciuto, ma che egli ha coltiva-to sin dalla prima giovinezza. Difatti, non molto distanti cronologicamente dalle prime opere sag-gistiche sono due opere giovanili, scritte quando 10 studioso viveva ancora a Capodistria: la plaquette di liriche, per lo più sonetti, intitolata Fre-miti d'ala (Capodistria, 1943) e il poemetto satirico La Raniereide, ovvero la meravigliosa istoria del "Torpedone"(Capodistria, 1945). La raccolta e 11 poemetto, per ora ancora inediti, sono conservad presso l'Archivio degli Scrittori e della Cultura regionale dell'Università di Trieste. Sono esercizi di un dilettante, "oggetti strani" (Cima-dor 2013, 29) nella produzione di Maier, ma sono anche la prova evidente della sua inclinazione a condividere passioni e sentimenti attraverso la poesia, "facendola uscire da uno spazio autore- OJ V í-H QJ tí ferenziale sulla base degli stessi presupposti che animeranno poi l'attività critica, percorsa dalla stessa esigenza di comunicazione e incontro con gli altri" (Cimador 2013, 31). Anche queste opere giovanili sono testimonianza di come egli conce-piva la letteratura: un infinito universo di parole che delineano pensieri, emozioni, dubbi, doman-de e destini. Dopo una lunga e fecondissima carriera di studioso e accademico, Maier ha ritrovato la pas-sione per la scrittura creativa in età avanzata, una passione in lui mai del tutto sopita. L'occasione si è presentata nel 1991 quando il collegio reda-zionale della nuova serie della rivista fiumana di cultura «La Battana», di cui facevano parte El-vio Baccarini, Ezio Giuricin e Maurizio Tremul, decise di dedicare un volume antologico alla let-teratura dell'esodo (Letteratura dell'esodo. Pagine scelte, 1991, nn. 99/102). Il volume era parte di un progetto avviato con il numero doppio 97/98 della rivista, che conteneva informazioni e con-siderazioni di carattere generale nonché i profili di vari autori. In questo secondo volume, invece, come precisa la redazione nella presentazione in-titolata Le ragioni di un percorso, era inserita una "singolare rassegna di brani antologici seleziona-ti, di "campioni" emblematici tratti dalle opere più significative della letteratura dell'esodo3. Il volume antologico è stato curato da Elvio Gua-gnini e Bruno Maier, che si presenta anche nelle vesti di narratore. Difatti, per quella particolare occasione, Maier scrisse un racconto inedito di memorie intitolato Case a Capodistria. Con que-sta prova narrativa, che considerava "un improv-visato e disordinato lacerto autobiografico" (Maier 1991, 176), lo studioso si rivela non più solo interprete e mediatore di testi letterari, bensi narratore capace di far conoscere le proprie me-morie e soprattutto la parte più intima e segreta di se stesso, ricca di sensazioni e di affetti. "Si lasciava trascinare facilmente dal racconto di ri-cordi d'infanzia in Istria", scrive Elvio Guagni-ni ricordando la genesi del racconto e quel mo- 3 Tratto da Le ragioni di unpercorso, in «La Battana», rivista trimestrale di cultura, nuova serie, anno XXVIII, nn. 99/102, Fiume, EDIT, I991, p. 9. mento particolare della loro collaborazione alla rivista fiumana. Per questo, prosegue Guagnini, quando gli proposi di scrivere delle pagine autobiografiche per un fascicolo sulla letteratura dell'esodo che stavamo curando in-sieme, ne fu cosi entusiasta che poi queste pagine ebbero una continuazione in un romanzo e forse, se la vita non gli fosse stata avara, ci sarebbero state altre continuazioni /.../ (Guagnini 2013, 12). Nel racconto, scandito in tre parti disposte cronologicamente dal periodo più lontano nel tempo a quello più recente (l'arco di tempo ab-braccia un decennio, e va dal 1922 al 1933), Maier ripercorre la storia della propria infanzia e ado-lescenza inserita nel contesto culturale e storico della nativa Capodistria. La messe di notazioni e di dati, riuniti insieme seppure in poche pagine, forniscono un interessante spaccato di vita e di costume della Capodistria dei primi anni Trenta del Novecento. Sono pagine scritte in prima persona, fresche e genuine: leggendole, si ha l'impressione che improvvisamente Maier aves-se sentito un impellente bisogno di scrivere della propria vita, di dare forma creativa ad un impulso scrittorio molto lontano dal suo normale mi-nistero di critico letterario. La stesura di Case a Capodistria fu per lo studioso una folgorazione, un'illuminazione, una scoperta entusiasmante: si rese conto d'essere anche narratore. Crediamo queste pagine, scritte quasi di getto e su "ordi-nazione" (si allude al fatto che sono state scritte su insistenza dell'amico e collaboratore Guagni-ni per il numero speciale de La Battana dedi-cato alla letteratura dell'esodo), presiedano alla stesura de L'assente, quel suo unico romanzo nel quale, dietro lo schermo delle finzione narrativa, Maier ripercorre la storia della propria vita. Case a Capodistria, difatti, contengono in nuce mol-ti elementi del romanzo, evidenti specialmente nella descrizione della prima infanzia e dell'ado-lescenza, anni fondativi per la vita dello studioso, anni trascorsi a Capodistria con la famiglia in tre abitazioni diverse, tutte rievocate nel raccon-to. Sono quelli gli anni in cui si forgia l'indole e N oc la conformazione interiore di Maier che, con la rievocazione nel racconto di episodi rimasti in-delebili nella memoria, rivela le sue doti di bambino oltremodo sveglio, simpaticamente curioso di tutto ed anche profondamente dedito allo studio e alla lettura (delle avventure di Pinocchio, di Gulliver, di Robinson Crusoe e, specialmente, dell'amatissimo barone di Münchausen). In quegli anni puerili, naturalmente, non ve-devo le cose con tanta chiarezza, pur se c mia convinzione che quello che sono, i miei sen-timenti, i miei pensieri, le mie azioni, i miei stessi egotismi, tutto, era potenzialmente presente in me bambino e ragazzo. /.../ Ave-vo, in altre parole, un temperamento deciso, volitivo, possessivo, ostinato e persino testar-do. Volevo a tutti i costi pensare con la mia testa /.../ (Maier 1991, 168), confessa lo studioso, precisando che certi aspetti del suo carattere non sono migliorati nel tempo né si sono ammorbiditi, e chiarisce di aver sem-pre creduto nella volontá, ossia in quella "forza che muoveva il mondo e determinava la storia" (Maier 1991, 167), e che era "l'arbitra e la signo-ra degli avvenimenti umani" (Maier 1991, 168). Inoltre, tiene a precisare che nel tempo e sempre rimasto fiero della tendenza alla trasgressione, "dovuta a certi spiriti eversivi, libertari, anarchi-cheggianti, che sin da allora [sin da bambino] al-bergavano nella mia mente e che costituirono la prima radice del mio futuro individualismo, del mio anticonformismo, della mia insofferenza di ogni costrizione esterna, del mio senso geloso di isolamento e di solitudine" (Maier 1991, 171-172). Tra le case in cui ha abitato con la famiglia a Capodistria, Maier ricorda con particolare nostalgia la villetta con giardino "situata alla fine di via XX Settembre, davanti al mare, dal qua-le era separata da una strada polverosa e da un verde lembo di prato" (Maier 1991, 161). La casa si trovava in un rione di pescatori, compreso tra il porticciolo di San Pietro e quello di Bossadraga. Il rione piacque subito a Maier-bambino "per l'odore di salmastro che vi era diffuso: un odo-re che si univa a quello delle reti esposte all'a- ria aperta, e, la sera a quello del pesce fritto che quasi tutti mangiavamo" (Maier 1991, 162), per la vicinanza del mare, che in quel rione si "vede-va, si intravedeva e si sentiva da ogni parte" (Maier 1991, 162), ed anche per la vita che vi si svol-geva. Difatti, Maier tiene a precisare che quel "mondo [di pescatori] divenne per me un autentico modello comportamentale e, anzi, un supremo paradigma di vita" (Maier 1991, 163). Figlio dell'ingegnere capo del Comune di Capodistria e comandante del Corpo dei Vigili del fuoco, ap-partenente ad una famiglia borghese agiata e be-nestante, Maier stravede per quel piccolo mondo di pescatori. Non stupisce, pertanto, che da grande volesse fare il pescatore. Una decisione presa d'impulso, come molte altre decisioni prese in seguito nella vita, e poi accantonata, presa "dopo aver frequentato per qualche anno delle persone che per me incarnavano il mito stesso della pienezza e della felicitá della vita" (Maier 1991, 163). E stata determinante in quel periodo l'amicizia con uno dei vecchi pescatori, barba Nicolo, venerato dal bambino come un "antico patriarca". E stato questo pescatore, barba Lolo per il bambino, che non aveva figli e vedeva re-alizzata in questo rapporto la sua istintiva voca-zione paterna, ad insegnargli "a nuotare, a remare, e a pilotare una barca a vela" (Maier 1991, 163) con la quale usciva fino a raggiungere il fiume Risano che si sposa con le acque del golfo di Capo-distria, e ad iniziarlo "ai segreti della pesca con la OJ «togna»" (Maier 1991, 163). Verso barba Nicolo: "padre e maestro" della sua prima giovinezza, lo studioso sente d'avere un grande debito d'amore, e si rammarica che egli sia morto "solo e triste in ospedale, poco dopo la moglie, nel dopoguerra, senza che io, esule da Capodistria a Trieste, aves-si mai potuto rivederlo" (Maier 1991, 163). Oltre alla passione per il mare e la pesca nella cittá natia Maier inizio a coltivare altri miti, che poi ri-masero tali per il resto della vita: il calcio, l'amo-re per le opere liriche, di cui imparo a memoria i principali libretti, e per le canzoni eseguite dalle o V QJ tí orchestre dell'epoca.4 Ed ancora, la passione per la raccolta di francobolli e per il cinema. Vissuto per lo più appartato tra i suoi libri e le sue carte, nel 1994 Maier ha dato libero sfogo alla sua vena di narratore dando alle stampe il romanzo L'assente, che ritrovo tra i suoi saggi e libri con l'affettuosa dedica datata 25 aprile 1995: "All'amica Elis con vivissima cordialità", segui-ta dalla firma autografa. Nell'opera sono conflu-ite, con i dovuti ampliamenti, le pagine di Case a Capodistria. Il romanzo, condotto tra ricordo e immaginazione, nel quale tuttavia è riconosci-bile il profilo di un uomo di studio con le sue ir-requietudini e con le sue nevrosi, è stato finalista del premio Strega nel 1995 e vincitore nello stes-so anno del premio Latisana per il Nord Est. Nel 1998 è stato tradotto in lingua croata da Michaela Vekaric. Raggiunta l'età ingrata dei severi rendicon-ti, dei dolorosi bilanci morali, delle ruminazioni su ció che poteva essere e non è stato, nel romanzo, dietro lo schermo della finzione narrativa, Maier ripercorre la storia della sua vita, gli alti e bassi di una non facile adattabilità agli sche-mi costringenti del quotidiano, dello stesso lavo-ro universitario, dell'impegno culturale. Perché "incentrato su una figura dominante, L'assen-te puó essere considerato una sorta di autobiografia; ma un'autobiografia condotta per percor-si narrativi, in cui emerge, con una sua evidenza anche simbolica ed emblematica, un certo tipo di intellettuale del nostro tempo" (Maier 2013, 5), precisa Maier, il ritratto, cioè, di un irrequieto "uomo di carta" inguaribilmente contagiato dalla passione per i libri, che per questa passio-ne sente d'essere stato inadempiente, di aver tra-scurato "altri settori non meno importanti della realtà" (Maier 1994, 9), di aver sacrificato finan-che l'amore. Il protagonista confessa, infatti, che l'unica realtà possibile per lui sono stati i libri e la letteratura, lo stare dentro la letteratura, abitando in essa, nella sua specificità, nella sua ec-cezionalità: "I libri [quelli scritti e pubblicati] 4 Con altri giovani formava un'orchestrina in cui era il batterista. Il 5 marzo 1944, al teatro Santa Chiara di Capodistria venne eseguita la canzone Capodistria bella, di cui era l'autore del testo, mentre la musica era di Egidio Parovel. sono come i figli: sono i sostituti, gli equivalen-ti dei figli non nati. Sono stati concepiti, anch'es-si, in un atto d'amore. Un amore tutto spirituale, ideale, intellettuale, qual è l'amore della lettera-tura, della cultura, base e fondamento di un'in-tera vita." (Maier 1994, 250) L'università, dal canto suo, è stata la sua unica passione: "un'amante deliziosa, seducentissima, una moglie perfetta. Nessuna donna reale mi ha dato quello che mi ha dato lei" (Maier 1994, 52), ammette con since-rità. Accanto ai miti della barca, della pesca, del calcio, delle opere liriche, della filatelia, del cinema, delle canzoni suonate dalle orchestre durante i balli pubblici, miti già evocati in Case a Capodistria, il protagonista de L'assente informa che un altro mito si è radicato prepotentemente dentro di lui negli anni in cui frequentava a Capodistria il liceo "Carlo Combi": il mito del-la letteratura italiana che ha fatto "piazza pulita di tutti gli altri miti", che pure hanno contribu-ito alla sua "educazione sentimentale", relegan-doli "in un ruolo del tutto inferiore, marginale, subalterno" (Maier, B. 1994, 139). Infatti, quello della letteratura, "donna autoritaria e prepotente, dotata di un fascino fortissimo, di una strega-ta malia" (Maier 1994, 271), non è per il protagonista, Maurizio Leardi, controfigura romanzesca di Maier, un semplice mito, ma è "una realtà, un amore che cresceva di giorno in giorno e si ali-mentava di continue letture" (Maier 1994, 271). In quegli anni, proprio perché la letteratura diventa un "imperioso mito esistenziale", che re-sterà tale per il resto della vita, l'io narrante sco-pre il piacere della "solitudine operosa", mentre cresce e si rafforza l'aspirazione a intraprendere la carriera universitaria. Nell'opera, di cui ha seguito attentamente anche la trasposizione teatrale5, Maier ha scan-dagliato a fondo il proprio animo e "versato un 5 Il lavoro di adattamento teatrale del romanzo è stato affidato a Nino Mangano e a Francesco Macedonio. Lo spettacolo, messo in scena dalla Contrada e dalla Compagnia del Dramma Italiano di Fiume, è andato in scena a Fiume, al Teatro Ivan Zajc, il 15 maggio 1998. Il lavoro, in due tempi, è stato presentato anche in varie citta-dine istriane, a Zagabria e Trieste, ed ha chiuso il Mittelfest di Ci-vidale. Per un esaustivo approfondimento, si rimanda al saggio Bruno, il teatro ed io di Paolo Quazzolo, in Bruno Maier e i "compositori di vita". Un critico e i suoi autori, « Quaderni » dell 'Archivio e Centro di Documentazione della Cultura Regionale, 2013, 2.3-2.5. o H grande carico di umori e di ironia nella rappre-sentazione di una certa tipologia di intellettuale soggetto a una forma di forte "alienazione da let-teratura", ha /.../ versato memorie, fantasie, pro-spezioni critiche e autocritiche, confessioni, let-ture scherzose di fatti emergenti dalla memoria propria e d'ambiente" (Guagnini 2013, 12). Di-fatti, in questo complesso romanzo, nel qua-le il racconto è incastonato tra un incipit e una conclusione, oltre alle memorie lucide ed ironi-che di un intellettuale che nutre un incondizio-nato amore per la letteratura e che nella scrittu-ra, con il raccoglimento e il coinvolgimento che esige vede la salvezza dagli orrori e dalle incom-benze della vita, rivive il clima di un'intera epoca e l'atmosfera della Capodistria degli anni Trenta, anni in cui il fascismo diffondeva il proprio credo trovando da un lato l'entusiastica appro-vazione delle folle, ma dall'altro l'atteggiamen-to di chi non condivideva, come l'io narrante, la passione per le adunate, gli sport di massa, il protezionismo culturale, e privilegiava, invece, la lettura delle opere "proibite" provenienti d'oltre-oceano e lo studio che, poiché concedeva l'isola-mento, diviene "la maggiore e più valida alternativa al fascismo" (Maier 1994, 175). Una messe di dati e notazioni, insieme riuniti, forniscono un interessante spaccato di vita e di costume di quel determinato periodo. Risale a quegli anni anche il sodalizio culturale con Enrico Saltini, l'edito-re-amico delineato in apertura del romanzo, cui il protagonista de L'assente affida la pubblicazio-ne di quello che, a sua detta, è il suo "primo, ultimo e unico romanzo" (Maier 1994, 9). Per il protagonista quella amicizia, che risale agli anni del liceo, è stata importante: un legame profondo tra due giovani complementari, necessari l'uno all'altro, che si stimolavano a vicenda, un rap-porto d'amicizia e di collaborazione durato tre anni e rafforzato quotidianamente dalla condi-visione di interessi culturali e letterari comuni. Esemplificativo il seguente passo, una chiara di-chiarazione di riconoscenza da parte del protagonista a quell'amico perso di vista e ritrovato in età avanzata: "Dovetti a Enrico gran parte del-la mia conoscenza della letteratura contempora- nea, anche straniera. Un giorno gli parlai di Se-nilità; e insieme ci mettemmo a leggere gli altri scrittori di Trieste, e cioè Saba, Slataper e Stu-parich. E anche Quarantotti Gambini, che pur essendo considerato triestino, era istriano come me. Anzi, il suo romanzo La rosa rossa si svol-ge proprio nella mia città, perfettamente rico-noscibile e quasi raffigurata "dal vero" nelle sue piazze, nelle sue strade, nei suoi palazzi patrizi, nel suo teatro" (Maier 1994, 150). Nell'estate del 1941 Enrico lascio la città, ossia Capodistria, e il protagonista perse in quello stesso anno l'ami-co più caro ed anche Vilma, il suo primo amo-re. Dopo la fine della guerra, allorché la cittadina natia dell'io narrante passo con l'Istria all'am-ministrazione jugoslava, anch'egli fu costretto ad abbandonarla per stabilirsi nella città dei suoi studi e della sua ormai avviata carriera universitaria, Trieste: "Io avrei lasciato comunque la mia città. Ma una cosa è lasciarla di propria volontà, con la possibilità di potervi far ritorno quando lo si desideri; un'altra è abbandonarla da esuli o da profughi, e per effetto di una costrizione, se non manifesta e violentemente intimidatoria, certa-mente implicita, sottintesa, strisciante", informa il protagonista, e chiosa: "Costrizione cui a un certo momento fece riscontro in me un deciso, consapevole impegno morale di venir via da un luogo dove non si poteva più vivere in condizione di libertà" (Maier 1994, 221-222). Un luogo dove non c'era più nessuno che il protagonista cono-scesse, e dove egli si sentiva sempre più solo, come il "sopravissuto a un cataclisma". Le pagine di questo romanzo, connotate dalla robusta coscienza linguistica del suo auto-re, dall'idea alta della letteratura che lo sostiene, dalla schiettezza del dettato privo di angolosità e dalla qualità sempre alta dello stile, presenta-no un'impietosa autoanalisi a sfondo psicanali-tico di un uomo che vuole uscire dalla dispera-zione egocentrica e dallo strazio di un esasperato individualismo che per il protagonista è una for-za che "fa progredire, infonde il desiderio, anzi la volontà di emergere" (Maier 1994, 251). Que-sta volontà si traduce nel resoconto retrospettivo di una vita, nella confessione sincera dei propri OJ V î-H QJ tí errori e dei propri limiti, delle proprie debolez-ze ammesse con indulgenza, ironia e autoironia: "La mia felicita e incompleta, dimidiata; ed e giá molto se acquista le piu modeste parvenze di una serenitá adombrata di melanconia. Giunto in prossimitá del traguardo dell'esistenza, avver-to nitidamente i limiti di quello che ne e stato il presupposto ideologico: l'individualismo, l'ego-centrismo, l'egotismo, e la conseguente volontá di vivere in una sorta di bozzolo, come "animal di sua seta fasciato" (Maier 1994, 250), ammette Maurizio Leardi. E fin troppo scontato che Maier, per anni interprete puntuale dell'animo sveviano, scel-ga la confessione di una vita e il monologo interiore per la sua narrazione, dando conferma del fatto che dopo Svevo non si puo piu raccontare come prima di lui. Di certo quella di Svevo non e una lezione che invogli l'imitazione, ma e da lui che s'avvia una diversa intelligenza del narrare, come Maier ben sa: Svevo fa parte della sua biografia, e stato decisivo nella sua formazione e nel-la sua esperienza di critico letterario. E pertanto naturale che l'autore della Coscienza di Zeno en-tri, piu o meno inconsciamente, nell'opera ma-ieriana. Nonostante i bilanci poco appaganti, che sono messi in evidenza nella conclusione onirica del romanzo, alla fine il protagonista rilan-cia un'immagine sostanzialmente positiva di sé quale autore di un'opera destinata alla pubblica-zione presso una casa editrice importante, quella di Enrico, l'amico ritrovato, e, presumibilmente, di successo. Nella sua "alienazione da letteratu-ra", nel suo "individualismo utilitaristico", nel-la sua nullafacenza, ossia in quella sua ammessa condizione di "assente" dalla vita reale e impe-gnata, nel piacere quasi maniacale che nutre per la solitudine, egli si sente appagato e, tutto som-mato, vivo e felice. L'esito del processo inquisitorio cui il protagonista si sottopone e dunque positivo e a suo favore. Maurizio Leardi incarna un personaggio profondamente moderno e credibi-le, e al contempo eroe e antieroe: e l'uomo della crisi, l'intellettuale che, come tanti altri, tende "a privilegiare la carta sulla vita". Questo e il suo pregio, ma e anche il suo limite, come confessa sinceramente nella parte conclusiva del romanzo. Mi accontento pertanto di aver seminato di punti interrogativi il mio curriculum esi-stenziale e l'ideologia che lo ha sorretto, che ne e stata l'arco portante. E di osservare che il mio limite non e in cio che ho fatto, ma in cio che non ho fatto. Il mio limite e lalie-nazione da letteratura: la "malattia" o, piut-tosto, la connotazione tipica, caratterizzan-te del mio individualismo di uomo di carta (Maier 1994, 254). Povzetek Prispevek je spomin na velikega Koprčana Bruna Mai-erja (Koper 1922-Trst 2001), plodnega esejista in kritika, čuvaja literarne tradicije Trsta in Istre. Bil je prvi literarni kritik, ki se je zanimal za literarno produkcijo italijanske narodne skupnosti na Hrvaškem in v Sloveniji, ki je, kot je on sam poudaril, »postopoma postala moja, s svojo samostojno izvirnostjo«. Maier je zapustil Koper leta 1948 in se preselil v Trst, kjer je mnoga leta poučeval italijansko književnost na univerzi in zasedal številne pomembne pozicije v kulturnem življenju mesta. Prispevek s posebnim poudarkom osvetljuje dihotomi-jo Maierjevega raziskovanja: medtem ko je Trst v njegovi literarni viziji zelo plodno, bogato in neusahljivo mesto, je Istra mesto njegovega čustvenega izvora, ki ostaja zvesta komponenta duše in inteligence koprskega učenjaka. Zato pa ni slučaj, da je ena njegovih zadnjih knjig, La letteratura italiana dell'Istria dalleoriginialNovecento, ki je izšla pri založbi Italo Svevo leta 1996, tudi najbolj organsko in zgodovinsko popolno delo. Summary The contribution is a reminder of an illustrious Capo-distrian: Bruno Maier (Koper 1922-Trieste 2001), a fruitful essayist and critic, guardian of the literary heritage of Trieste and Istria. He was one of the first critics to have turned his attention to the literary production of the Italian National Community of Croatia and Slovenia, a production that, as he has pointed out on several occasions, „has gradually come into its own with an independent originality of accent". Maier left Koper in 1948 H H H to move to Trieste, where for many years he taught Italian Literature at the local University and held numerous important positions in the city's cultural life. In particular, the intervention highlights that, while in the literary vision of Maier the Trieste dimension is a very consistent, rich and inexhaustible reality, the true, passionate origin of this vision is in Istria, which remains an indefectible component of the soul and intelligence of the Capodistrian scholar. It is therefore certainly not accidental that one of his last books, indeed the last most organic and historically the most yarn as a story, is his history of the Italian Literature of Istria from the origins to the twentieth century, published by Italo Svevo editions in Riferimenti bibliografici Cimador, G. 2013. "Bruno Maier e il 'prezioso dono' della poesia." In Bruno Maier e i 'compositori di vita'. Un critico e i suoi autori, a cura di Anna Storti, Elvio Guagnini, Gianni Cimador, 29-31. Trieste: Archivio e Centro di Documentazione della Cultura Regionale. Guagnini, E. 2013. "'Le vie di gire al monte'. Su Maier critico e studioso di letteratura." In Bruno Maier e i 'compositori di vita'. Un critico e i suoi autori, a cura di Anna Storti, Elvio Guagnini, Gianni Cimador, 12-14. Trieste: Archivio e Centro di Documentazione della Cultura Regionale. Maier, B. 1984. Prefazione. In Volume antologico della XVII edizione del Concorso d'Arte e di Cultura "Istria Nobilissima", 3-8. Trieste-Fiume: Universitá Popolare di Trieste-Unione degli Italiani dell'Istria e di Fiume. Maier, B. 1991. "Case a Capodistria." La Battana 99/102: 159-176. Maier, B. 1994. L'assente. Pordenone: Studio Tesi. Maier, B. 1996. La letteratura italiana dell 'Istria dalle origini alNovecento. Trieste: Edizioni Italo Svevo. Maier, B. 2013. "Autopresentazione." In Bruno Maier e i 'compositori di vita'. Un critico e i suoi autori, a cura di Anna Storti, Elvio Guagnini, Gianni Cimador, 4-5. Trieste: Archivio e Centro di Documentazione della Cultura Regionale. Milani, N. e Dobran, R., a cura di. 2010. Le parole rimaste. Storia della letteratura italiana dell 'Istria e delQuarnero nel secondo Novecento, vol. II. Fiume: EDIT. V V Inchiostro istriano Giovanna Scianatico Universita di Bari, Dipartimento di Lettere Lingue Arti. Italianistica e culture comparate Prispevek analizira nekatera besedila Fulvija Tomizza (Materada, 1960; La miglior vita, 1977; II sogno dal-mata, 2001), ki obravnavajo istrsko-dalmatinske tematike obmejne kulture in so posebej povezana s temo odnosa med identiteto in kulturo, zlasti med literaturo in ozemljem. Motiv mnogovrstnih identitet, ki je danes zelo razširjen, je v teh romanih natančno zarisan: istrska rdeča zemlja je simbol kulturne raznolikosti, ki se bogati s soobstojem in prepletanjem več jezikov, pri čemer se protagonisti ne odpovedo svoji identiteti, temveč se z njo bogatijo. Kjučne besede: migracija, istrska literatura, mnogovrstna identiteta, Tomizza This paper analyzes some texts by Fulvio Tomizza (Materada, 1960; La miglior vita, 1977; Il sogno dalmata, 2001), based on the Istro-Dalmatic themes of frontier culture and specifically linked to the relationship between identity and culture and particularly between literature and territory. The theme of multiple identity, which is now very widespread, is fully configured (in other words) in these novels: the Istrian red earth is the root ofthe subject who writes and symbol of a culture of diversities which, coexisting and intertwining, are enriched without canceling themselves, but empowering themselves. Keywords: migration, Istrian literature, multiple identity, Tomizza ro H II titolo della mia relazione, relativa allo scrit-tore istriano Fulvio Tomizza1, va oltre la sug-gestione delle parole: il fatto e che non penso lo si possa definire tout court, quale oggi appare, come appartenente alla letteratura italiana, mal-grado tale sua scelta linguistica. Piuttosto si trat-ta di un esempio concreto dell'incontro fecondo di tradizioni diverse e dell'identitá plurima che ne deriva, soprattutto nella cultura definita "di frontiera". Oggi, in seguito ai larghi fenomeni migra-tori del nostro tempo, una ricca produzione, de-nominata letteratura della migrazione, vede l'i- 1 Non ampia si presenta la bibliografía su Tomizza, oltre importan-ti articoli e studi di dottorato universitario, come quello diretto da Elvio Guagnini a Trieste. Rinvio alla recente raccolta di saggi (tra i quali segnalo particolarmente quelli di Sanja Roic e Zivko Nizic (Deganutti 2015). taliano come lingua di espressione scelta da scrittori emigrati da diversi Paesi, senza che i loro testi vengano considerati, se non collateralmen-te, parte della nostra letteratura. Certo il caso di Tomizza e diverso e piu complesso, giacché una radice culturale italiana e comunque una forte parte, accanto ad altre, della sua composita iden-titá istriana. Ho preso in considerazione, tra la sua vasta produzione, nella gran parte ispirata alle vicende e alle problematiche della sua terra, tre romanzi che, per cosí dire, ne ripercorrono l'arco: il primo, Materada; quindi La miglior vita, che vinse nel 1977 lo Strega - il maggior premio letterario italiano; infine Il sogno dalmata, del 1997, uscito postumo nel 2001. DOI: HTTPS://DOI.ORG/l0.2é493/2350-5443.7(2)23-32 H Risulta da tale sequenza romanzesca che ha per tema la migrazione, dal punto di vista di chi va e di chi resta, l'allargamento dell'orizzonte storico e quindi dell'ottica con cui l'autore guarda all'esodo, per un progressivo processo di di-stacco e maturazione. Anche se la prospettiva e a prima vista corale nei primi due libri e scopertamente autobiografica e soggettiva nell'ultimo, e proprio in questo che si approfondisce in realtá attraverso il tempo e lo spazio tale dimensione corale. Dunque un allargamento della visione, un progressivo filtro storico di distacco e oggetti-vazione, mi sembrano connotare il percorso di Tomizza nei confronti dell'episodio bruciante dell'emigrazione che ne marca la vita, nel tentativo di chiarirne il senso. Il trauma dell'andarsene a vent'anni dalla propria terra si riversa dopo pochissimi anni in Materada, ambientato proprio al tempo dell'e-sodo, con un primo e meno denso grado di me-diazione che comunque si realizza attraverso due modalitá. Anzitutto l'autore maschera l'autobiografi-smo che lo intride commutandone il protagonista da giovane intellettuale ventenne - quale egli era al momento dell'esodo - in maturo contadi-no, ma il legame con le vicende della propria fa-miglia appare evidente anche per la ripresa, negli aspetti morali del personaggio, dell'etica della figura paterna alla cui memoria il libro e dedicato. L'altro maggiore e noto motivo di media-zione e la dimensione corale in cui si inserisce la vicenda dei Kozlovic', per cui protagonista in effetti e l'intero villaggio istriano con la sua po-polazione composita messa bruscamente di fronte alle scelte della storia. La trama privata ruota intorno a una terra contesa, dai tempi della dominazione austriaca lavorata da una famiglia contadina cui dovreb-be appartenere, ma sottrattale dalla frode e ava-rizia di un parente. Paradossalmente nemmeno il regime comunista col suo enunciato "la terra a chi la lavora" ri-esce a soddisfare la sete di giustizia del protagonista se non a prezzo di delazioni e denunce che si rifiuta di firmare. La sua amarezza per la terra comunque perduta confluisce cosí con quella di tante altre famiglie nella scelta dell'esodo, nella perdita corale della terra madre dell'Istria, dopo il memorándum di Londra del novembre del '54. L'identità di questa terra, descritta nella sua aspra bellezza si identifica (è questo un trat-to proprio della scrittura di Tomizza) con quella delle popolazioni che l'abitano e la lavorano: La strada era bella, asciutta, e il cielo stellato prometteva altre giornate di sole. /.../ La terra ora si svegliava, oltre le graie, che accom-pagnano ai due lati tutte le nostre strade, e dava profumi di foglie e di erbe. * Da noi non ci sono grandi tenute in un único posto; i contadini hanno un campo qua e un altro là, cinto da siepi o da piante, che raramente misura più di un ettaro o al massimo due. E passando tra quegli appezzamen-ti tenuti a viti, a frumento, a granoturco o a foraggio fra le macchie di ulivi - per dritto e per traverso - mi veniva ora di ricordare le facce di tutti coloro, vivi o morti, che qua e là s'incontravano con la falce, l 'aratro, o la botte nei giorni di vendemmia (Tomizza 2000, 27). Di queste popolazioni lo stesso nome di natura ossimorica del protagonista, Francesco Kozlovic', manifesta simbolicamente nell'acco-starsi di italiano e slavo la natura composita, l'i-dentità multipla. La convivenza più o meno pacifica ai tempi dell'Austria, quando le diversità, pur restando tali, riconosciute e latentemente conflittuali, si intrecciavano senza violenza, viene bruscamente spezzata dalla guerra del 'i4-'i8. Nel periodo del dominio fascista, vietato uf-ficialmente lo slavo, questo e il suo dialetto con-tinuano ad essere parlati nelle case, nelle fami-glie imparentate nei secoli tra Veneziani, Sloveni, Croati, Dalmati, e la situazione si rovescia specu-larmente con la vittoria dei "titini" dopo la seconda guerra mondiale. Se queste pratiche linguistiche attestano un tessuto sociale dalla trama per quanto assai di- OJ V í-H QJ tí radata sotterraneamente permanente, anche in Istria si scatenano violenze, vendette, lacerazioni tra identità nazionali che esploderanno alla fine del secolo breve. È a ricomporre tali conflitti, senza veli, ma con la fiducia di radici comuni e di una ricchez-za compartecipata delle differenze, che mira pro-gressivamente la scrittura dell'autore istriano. È stato evidenziato il realismo del romanzo, malgrado il sentimento di nostalgia che ne intri-de sotterraneamente la trama, emergendo a trat-ti in superficie: "Guarda un po' cosa è restato di Dugazza", disse Berto, e io guardai quel muro, il gelso dove la vecchia teneva legata la capra, la ta-vola di pietra dove i due giovanotti pranza-vano nei giorni di calura e ogni volta passavi ti chiamavano a bere il bicchiere. "Come co-voni dentro la trebbia sono andati" dissi "ed erano uno più bravo dell'altro". E pensai che quella era stata la guerra, la guerra per tutti (Tomizza 2000, 28). La rappresentazione degli abitanti di Materada non ha nulla dell'idillio campestre, e non solo per la tematica di violenza storica, ma per la definizione stessa di una popolazione contadi-na che se in alcuni momenti ritrova l'afflato della sua identità corale (come nelle suggestive pagine venate di consapevolezza e nostalgia sulla processione della Madonna della Neve alla vigilia dell'esodo collettivo, o nei singoli rapporti di amicizia e aiuto) negli stessi rapporti amicali e fa-miliari non manca di rozzezza e avidità, furbizie fraudolente, rivalse. Dinamiche sociali conflittuali dal forte profilo etnico tra Italiani, Sloveni e Croati, e più am-piamente Jugoslavi, sfociano nella lacerazione, vissuta personalmente dallo scrittore, indotta dall'affermazione del regime comunista, sul qua-le, malgrado le attese suscitate e le valutazioni volta a volta alterne, si consolida in effetti in que-sto primo romanzo un giudizio negativo espresso convintamente dal vecchio saggio barba Nin, nel clima della migrazione in atto verso Trieste. Il luogo della sofferta domanda del trasfe-rimento in Italia è Umago, anch'essa coinvol-ta nei processi di trasformazione che feriscono i partenti; eppure il veloce avvicendarsi dei nuovi abitanti, che sgomenta gli esuli, ne rispecchia, ac-comunandoli ad essi, il doloroso processo di mi-grazione: Umago è per me il più bel posto al mondo. Un mare cosi, che tra le due punte entra per due parti fin dentro alle case, io non l'ho visto da nessuna parte. /.../ La città vecchia è oggi completamente disabitata; se ne sono andati via tutti, come non si curassero affat-to della parte nuova o sapessero che non l'a-vevano certo costruita per loro. Fra quelle case di una volta, che si stringono tutte intor-no al campanile, non incontri che gatti, e di quando in quando qualche vecchio che siede al sole e sa tutti i venti, le maree, e le storie di una volta. Eppure non la trovi una camera, neppure per una notte; come vanno gli uni, se ne vengono gli altri: sloveni, croati, serbi, bosniaci, montenegrini e dalmati; insomma tutte le razze sono oggi a Umago (Tomizza 2000, 141). Ma il sentimento più acuto di rimpianto si esprime in un'ambigua pagina, insieme contrap-posto e sovrapposto al sogno di una nuova vita, a proiettare nell'incerto futuro quel che nostalgicamente appare ai migranti il costume felice del proprio villaggio. Ma leggiamo Tomizza: Una baracca, due pasti, il sussidio - pensavo - e la terra; e mietere il grano e togliere l'u-va e per San Martino avere già i soldi in tasca e il frumento che già cova di nuovo sotto la terra, e allora si puo andare da Gelmo per la partita. E poi le feste di Natale, si ammazza il maiale, l'Anno Nuovo, la buonamano per i ragazzi, guai se per prima entra una donna, la Befana, la calza sotto il camino, zappare e arare, carri di letame che fuma e poi i mucchi si coprono di brina, il Carnevale, una gobba fatta di fieno e un paio di baffi di carbone e la frittata gigante con uova e salsicce raccolte v5 H Ve H per le case, la Pasqua. E i fieni, una manciata rossa di trifoglio nel corno vuoto del manzo, si mangia già all'aperto tra i profumi, l'erba-spagna, le patate rosse fra la terra rossa, i fru-menti e la trebbia, festa di nuovo, e sempre avanti cosi, fino a comprarsi qualcosa di nuo-vo, farsi la stalla, aggiustarsi il forno, governa-re il tetto, piantare altre viti. Ero ormai anch'io sulle scale. E comperare un vestito a mia moglie, veder mia figlia cuocere col fazzoletto in testa, fare il pane, Vigi che ha già la ragazza che viene per casa. Andare insieme a una fiera, con il carretto e magari un cavallino come quello di Nando, tornare a casa col melone, un po' stanchi. E d'estate andare al bagno con om-brelli (Tomizza 2000, 142). Quasi vent'anni dopo ne La miglior vita il grado di mediazione e distacco aumenta sensibil-mente grazie allo spessore del tempo narrativo, a un quadro storico allargato dall'inizio del no-vecento all'età contemporanea alla stesura del libro, alla fine degli anni settanta. Allo stesso tempo si confermano e approfondiscono alcuni temi e aspetti di Materada. L'ampio orizzonte della prospettiva storica si esplica attraverso l'esile trama della vita di un sagrestano (l'avvicendarsi dei parroci, il matrimonio, la nascita di un figlio, poi morto da parti-giano) la vita nei suoi semplici accadimenti quo-tidiani, immersi nel flusso dei grandi eventi della storia che vi si ripercuotono. L'umile protagonista, dimesso e fedele cronista del quotidiano, non giudica, non assolve, non accusa; si limita a registrare i fatti nella propria oggettività, lasciando che parlino da sé. L'esodo dall'Istria, già oggetto di Materada, si inserisce in un tempo lungo, in un percor-so narrativo in grado di prospettare le sue remote e prossime motivazioni, l'arco delle diverse possi-bilità irrealizzate aperte alla convivenza pacifica, la violenza dei conflitti, il futuro che ne smorza gli attriti, il protagonismo delle nuove generazio-ni tra riscatti e ricadute. Si tratta in effetti di una doppia rappresen-tazione del tempo, anzi di un attrito, di un con-fliggere del tempo ciclico e continuo, proprio delle societá arcaiche e contadine, col tempo lineare, spezzato, incalzante della storia moderna. Lo spazio del villaggio qui si dilata in quel-lo appena piu ampio della parrocchia che simbolicamente e concretamente incarna il senso della comunitá, della terra e degli uomini che la popo-lano, di un'identitá collettiva per quanto diversi-ficata al suo interno. Ne segna il territorio - in quanto terra abi-tata dai popoli della comunitá - , ad apertura di libro, la corsa gioiosa e inquieta in un mattino di Pasqua del ragazzo (destinato seguendo una remota tradizione familiare a divenire sagrestano) attraverso campi e villaggi, uomini che gli si rivolgono nelle diverse lingue, boschi e pascoli, rocce interrotte dalla vista del mare, disegnando i confini della parrocchia e lo spazio del romanzo, mentre procede a una sorta di benedizione se-mipagana, giacché un retroterra ancestrale, per-manenti riti superstiziosi si mescolano alla fede ingenua del cristianesimo contadino. E il sentimento della terra, ossia della natura nei suoi ritmi stagionali, di colori, suoni, odori, che rappresenta, trasfigurato nel numinoso, la vi-sione del mondo dei parrocchiani, ritmando con l'avvicendarsi delle stagioni il ciclo della vita e fin il sacro dei colori liturgici, l'avvicendarsi delle pianete sacerdotali, nella fantasia del ragazzo: Ma mi parevano, quelle tinte, anche intonate all'abito delle stagioni, richiamando sull'altare il verde dei roveri, il giallo delle biade, il rosso sangue delle graie in autunno, i monti violetti dei mattini d'inverno (Tomizza 1977, 16). Della dettagliata descrizione del percorso forniro, a titolo d'esempio, una sola citazione, un frammento, la scoperta del paesaggio: La vallata scendeva dal costone pietroso e dalla boscaglia piu dolce che perdurava a levante lungo l'arco del mio braccio sinistro, e dove finivano le dita di quella mano essa accennava a risalire per arrestarsi di colpo OJ V í-H QJ come sospesa su un precipizio. Là il mare si lasciava immaginare, mentre al mio fianco destro scintillava remoto e insieme vicinissi-mo, immobile e brulicante nella fetta azzur-ra che gravava sulla diga di Umago. Non mi ero mai prima elevato a ció che si considera e da sé s'impone come veduta, né avevo pensa-to che gli isolati campi di patate, di frumento e di erbaspagna annullassero i recinti dei rispettivi padroni per legarsi ai boschi e alle vigne, cosi da formare una distesa compatta che tratteneva lo sguardo. Ma il fatto straor-dinario era che la frazione piu lontana sorgeva nel punto giusto da raccogliere sotto di sé la sola parrocchia e sommergere tutto il resto, ad eccezione di uno stretto passaggio per Umago da cui era sempre dipesa. Il suo carattere e il suo destino derivavano proprio dal suo essere retroterra di un porto di mare. Fin qui era salita la gente scaricata su un molo ma non nata per vivere in un intrico di case, qui si erano fermati quelli scesi dall'in-terno e il cui pensiero andava e veniva col fia-to della terra. I villaggi, i campi, le strade, la chiesa differente dagli altri edifici per quel-la specie di tanaglia o corna di cervo volante sulla facciata, erano sorti come per caso, pie-tra sopra pietra, zolla dietro zolla; bisognava salire lassu per vederli irrimediabilmente de-finiti e sempre provvisori (Tomizza 1977, 14). In tale contesto un episodio paesano, la co-struzione del campanile rimasto incompleto, introduce alle radici di un antico conflitto etnico tra Italiani (soprattutto le classi alte e le popola-zioni cittadine) e Slavi delle campagne. La 'parabola' del campanile interrotto rac-conta le tensioni legate a questa situazione ma anche il loro possibile superamento, e la sua con-clusione, col troncone divenuto una rovina - cito - "confermava la rassegnata incuria di una gente raccogliticcia, senza organizzazione perché sen-za speranza". Queste ultime poche parole hanno grande rilevanza nel seguito del romanzo, in vista del sentimento, che inizia a diffondersi, del riscatto nazionale legato agli ideali panslavistici. Ma tale divergenza ancora non si riverbera nella comunità parrocchiale, che si ritrova unita in diverse occasioni: La comunità si ritrovó solidale, non esisten-do famiglia che non fosse direttamente o di riflesso imparentata con ogni altra; cadde la palizzata tra ricchi e poveri, si sgonfió la burla che distingueva i furbi dai semplici, tornó a svaporare quella linea ancora vaga e tortuosa che entrava e usciva fin nella stessa casa con due focolari a collocare di qua gli italia-ni, di là i croati (Tomizza 1977, 31). L'arrivo dalle montagne di don Stipe, il nuo-vo parroco, intellettuale croato di origine conta-dina, prete fiero, ardente nella fede quanto nel suo mandato civile, porta con sé appunto le spe-ranze di riscatto fino allora mancate. Leggendo sugli antichi registri della parroc-chia - l'unica umile storia minima della comu-nità - il lungo elenco dei morti dai nomi di tutte le provenienze geografiche il prete ritrova le trac-ce (tornando al tema fondamentale del romanzo) di tutti i popoli migrati o dei singoli mendi-canti girovaghi passati per quelle terre, e là morti o ripartiti: Mi ero interamente girato verso il tramonto e, immaginando colmato dal bosco anche il susseguirsi irregolare di appezzamenti rossi gialli e verdi come toppe sulle brache e sulle sottane dei piu miseri di quei girovaghi, ne ri-vedevo l'incerto errare di casa in casa, lascia-ti fuori dalla porta con un pane avanzato dalla precedente sfornata, presi con diffidenza a giornata e scacciati perché sorpresi a rubare, fornicare, ubriacarsi, picchiarsi ferocemente tra padre e figlio, moglie e marito, fratel-lo e sorella. Era una processione cenciosa ed esausta, non limitata ai tempi di Venezia: continuava anche in quegli anni, sia pure ri-dotta a una fila distanziata ma continua (Tomizza 1977, 44). Eppure qualcuno era restato, si erano formate famiglie mescolando le etnie, famiglie ca-paci di rifiutare il pane ai nuovi mendicanti che scendevano in Istria come i loro avi. Ï7 oc H E contro i ricchi di quel mondo contadino, e delle città che lo sfruttano, si scaglia in parti-colare il prete per cui il riscatto nazionale è fon-damentalmente riscatto sociale e riscatto evangelico in una rinata comunità cristiana di eguali, con l'obiettivo di dare a ciascuno coscienza del proprio essere, della propria identità. Intanto cresce nelle campagne l'animosità contro gli italiani, arroganti perché più ricchi e più colti, secolari sfruttatori delle risorse dei po-poli dell'Adriatico orientale, mentre d'altro lato nelle città si bolla la "canaglia schiava" (è l'espres-sione che colpisce don Stipe); si sviluppano con rapidità crescente gli stereotipi negativi, i pregiu-dizi sull'amico che diventa l'altro, il nemico. Dalla microstoria alla storia: se nella prima guerra mondiale "la parrocchia fu di nuovo il disperato punto d'incontro tra genti differenti solo nel parlare" e la solidarietà verso i reduci ne segnava il più forte slancio unitario, l'arrivo dei fascisti dividerà di nuovo i collaborazionisti da-gli oppressi, e tuttavia anche allora alle gesta violente dei picchiatori risponderà una solidarietà generosa più o meno nascosta verso le vittime, come sarà poi quella verso i partigiani. "Seguirono vent'anni di desolazione" -scandisce il testo riferendosi al fascismo sul piano della storia, al nuovo e persecutorio parroco fascista che ne rappresenta il prototipo nella mi-crostoria - vent'anni "sufficienti a cambiare per sempre il pensiero e il cuore di un uomo, a gua-stargli non soltanto quella larga fetta di vita ma a fargli considerare la sua intera esistenza sprecata, sbagliata, fallita". Con la seconda guerra mondiale e la vittoria dei partigiani titini si afferma un giro di vite nel-la storia istriana: Erano se stessi proprio nelle toppe, negli abi-ti dispaiati, nella capigliatura rimasta scoper-ta: un prevalere degli arti, della carne, degli occhi e dei sorrisi sul ferro della truppa che li aveva preceduti. Non dovevano somiglia-re a nessuna truppa transitata per questa strada di ghiaia. Cosi vestiti, scavati nei volti e persino scalzi, la suola dei piedi addome-sticata a evitare la punta dei sassi, erano scesi i Rugsnak, i Levákovich, le Madalene Ne-pomucene, per morire nei fienili di stenti e di vergogna. I figli dei loro pronipoti rimasti lassu avanzavano ora verso il mare gridando vittoria con un canto rude e solenne, rivolto alla loro guida che aveva fatto leva con una sete di riscatto definitivo: Druze Tito, lju-bicica bijela (Tomizza 1977, 181). E proprio questa sete di riscatto a segnare la svolta: non e un potere provvisorio, ma una nuo-va concezione etica che si afferma, una nuova vi-sione di giustizia e uguaglianza alle fondazioni di un nuovo Stato ateistico. Nell'apparente clima di confusa quiete politica si afferma concretamente il concetto che la terra e di chi la lavora, che ai coloni spettano i frutti delle loro fatiche; nasce il Kolchoz, nei primi tempi un'immagine da eta dell'oro, in segui-to destinato a fallire. All'euforia iniziale succede insensibilmente un inasprimento oppressivo, un clima antitalia-no di pressione politica sempre piu tesa, e fin violenta, di acrimoniosa diffidenza. L'accordo di Londra tra i governi, che nel 1954 assegna alla Jugoslavia il territorio istria-no della zona B diffonde lo sgomento: e la scelta incerta, sofferta, dell'esodo per la maggior parte delle famiglie, che lasciano la terra propria da generazioni, lHeimat, l'appartenenza alla loro identita piu autentica che li rifiuta, per affrontare un'epica migrazione su carri e camion carichi di uomini e donne di ogni eta, mobili, panni e suppellettili, parte dell'ultimo raccolto, animali, come testimoniano le foto ingiallite che la scrit-tura riempie di vita. La questione non e, per Tomizza, quella dell'alternativa tra essere slavi o italiani, ma sta nel riconoscere la propria identita plurima, "bastarda", come la chiama, di una "dolce bastardag-gine" derivante da una mescidanza di durata se-colare. Erano figli e pronipoti di una gente che sol-tanto a partire dalla mia giovinezza aveva ap-preso di essere italiana o di essere slava, e che poi un intrecciarsi di animositá e di istigazio- OJ V í-H QJ tí ni, apertesi proprio con quella scoperta for-zata, con quella scelta ugualmente imposta, aveva obbligato a riconfermare la prima fede oppure a smentirla (Tomizza 1977, 208). Ma nei villaggi della parrocchia, se, come a Umago, le case rimaste vuote, dalle imposte sbarrate, o sbattenti nel vento, vengono rioccu-pate a ondate successive da nuovi migranti di diverse etnie dall'interno del Paese, in un ripetersi di arrivi e abbandoni, che ripropongono un'eter-na vicenda umana, nuovamente tra i rimasti e i nuovi venuti si ricrea una comunanza, una possi-bilità di vita condivisa tra slavi di varia origine e italiani, con dialetti diversi ma unità di consue-tudini e costumi. Ancora negli ultimi appunti del sagrestano, sulla microstoria quotidiana dei villaggi, si an-notano contrastanti pensieri: la desolazione per un'esistenza priva del sacro ("E che sarà delle statue, del ciborio, del crocifísso del venerdi santo /.../? /.../ gli uomini diventeranno tanto sicuri di se stessi, della nessuna fede che hanno, da usar-li come soprammobili?"), ma insieme la consta-tazione orgogliosa: "Ho pensato che soltanto in questo stato e in questo regime sarebbe uscito dalle nostre povere zolle un deputato". L'episodio bruciante della giovinezza dell'autore, la tragedia di un piccolo popolo vengono cosi inseriti nel dipanarsi di una storia globale, analizzati nei lontani prodromi, rispec-chiati in altre storie, i traumi e rancori vengono superati e ricomposti nel quadro amaro della co-mune condizione umana. Il sogno dalmata ritorna sul tema della mi-grazione, in questo caso verso l'Istria, ancora più indietro nella storia, fíno al cinque e seicento. Il romanzo più apertamente autobiografíco (ma naturalmente in chiave romanzesca, con la libertà d'invenzione del narratore) inquadra l'e-sodo dall'Istria con un distacco storico ancora maggiore, in una vicenda di migrazioni secolari e ripetute, nella storia di quelle terre fondate pro-prio sull'emigrazione, e di una popolazione dalle molteplici radici identitarie. Il volume si divide in tre parti: la prima sulle origini dalmate dell'identità familiare e colletti- va cui appartiene l'io scrivente e sul suo rapporto con la terra; la seconda, odeporica, su due viag-gi in Dalmazia e Bosnia e nell'intera Jugoslavia, che approfondiscono la questione della natura plurima del suo popolo; l'ultima legata a un deluso sogno senile di rinascita identitaria e amorosa con una giovane dalmatina, tra i prodromi della guerra fra le Repubbliche Jugoslave. Il sogno dalmata alluso nel titolo non si identifica, come potrebbe superficialmente ap-parire, con quello del desiderio amoroso, ma quest'ultimo è se mai simbolo del sogno istria-no di ritorno dell'autore, e soprattutto di quello secolare, più ampio e collettivo delle popolazioni dalmate e albanesi che al tempo della conquista turca abbandonarono le proprie città in cerca di una terra promessa. Nelle vicissitudini degli avi emigrati a onda-te successive, per sfuggire al dominio ottomano, nel cinquecento e soprattutto nel seicento, dopo che la peste aveva spopolato le contrade dell'I-stria, negli sbarchi, nelle frustrazioni, nel traf-fico di merce umana attivato da naviganti sen-za scrupoli si riflettono indubbiamente le prime laceranti notizie sull'emigrazione clandestina in Europa, avviatasi in quei decenni. Dal discorso sulla storia remota traspare la viva attualità, con una decisa presa di posizione, pur inespressa, sull'accoglienza e sull'integrazione. Le prime pagine del libro celebrano il ritorno alla heimat, dopo una lunga lontananza, la ri-appropriazione del paesaggio ("l'unico paesag-gio del quale mi riconoscessi parte integrante"), paesaggio di terra rossa ("com'è il suo colore che tanto mi richiama a sé e di cui non trovo l'egua-le?") delimitata dall'azzurro del mare, traversata da boschi spinosi. Ritorno alla terra ("un ritorno isolato, irto di difficoltà e di cedimenti interiori") è anche ritorno alla sua gente: E tuttavia riconoscevo alla mia gente, non contagiata da innovazioni esterne al suo ambito, com'era invece avvenuto per tutti gli al-tri che avevano oltrepassato il confine, una consanguineità senza uguali. Molte delle usanze proseguivano indisturbate, tanto da